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Ottemperanza alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e processo penale

L’inesistenza come rimedio prospettato in dottrina

L’inesistenza come rimedio prospettato in dottrina

Come si è più volte affermato, nell’ordinamento processuale nazionale manca uno strumento giuridico idoneo a garantire il ristoro del pregiudizio subito da colui che si è visto riconoscere, in sede giurisdizionale europea, la violazione dei diritti convenzionali durante lo svolgimento del processo nazionale in cui era imputato.
In dottrina, alcuni autorevoli Autori hanno prospettato una soluzione interpretativa a tale situazione impiegando la categoria dell’inesistenza, invalidità eccezionale di tipo innominato degli atti processuali.
Ricorrere all’inesistenza implica «un’alternativa ben più radicale» rispetto agli altri espedienti teorizzati e messi in pratica dalla giurisprudenza, di merito e di legittimità, al fine di dare esecuzione alle pronunce della Corte di Strasburgo ed assicurare la restitutio in integrum dell’individuo leso. E con maggiore vigore deve ancora rilevarsi come, rispetto a tali rimedi, essa configuri, per lo meno nelle sue premesse, una via certamente più aderente al principio di legalità processuale. Nei casi in commento, come avrà modo di constatarsi in seguito, sussistono indiscutibilmente i presupposti per la sua applicabilità.
L’inesistenza è un istituto di configurazione dottrinale e giurisprudenziale, consistente in una causa d’invalidità di un atto processuale che, a dispetto del nomen dell’istituto, esiste, ossia è reale. Base di partenza per l’individuazione del vizio in esame è pacificamente considerata la divergenza macroscopica (o anche microscopica) tra l’atto e il suo modello. In secondo luogo, le cause che legittimano il ricorso ad essa devono essere estranee a quelle d’invalidità già espressamente e tassativamente previste dal legislatore e riconducibili ad una categoria invalidante nominata; in altri termini, circoscrivendo in senso negativo l’insieme contenente – in maniera non tassativa – i casi d’inesistenza di un atto, si è detto che non si sarà in presenza d’inesistenza qualora il vizio che lo rende “imperfetto” sia qualificabile sotto «figure “nominate” d’invalidità».
La sua teorizzazione è risultata necessaria per un fine preciso: «evitare assurdità e sperequazioni stridenti, in un settore che, a causa della tassatività delle altre forme di invalidità […], sarebbe costretto, qualora non si riconoscesse la figura dell’inesistenza, a ritenere validi e, quindi, efficaci gli atti viziati in maniera più grave degli atti sottoposti al trattamento della nullità assoluta», al pari, quindi, delle mere irregolarità, produttive al massimo di sanzioni di natura disciplinare, ai sensi dell’art. 124 c.p.p.
Trattandosi d’invalidità deve aprirsi una breve parentesi – in quanto pertinente all’istituto in commento – anche riguardo ai casi di sanatoria delle stesse.
Genericamente, si definisce sanatoria una fattispecie complessa formata da un atto invalido (in quanto così previsto da una data norma) e da un qualsiasi altro fatto o atto giuridico (previsto da un’ulteriore norma) capace di “contro-bilanciare” l’invalidità del primo, facendo sì che esso produca effetti come se fosse stato valido ex tunc. Il codice di procedura penale ne prevede alcune agli artt. 183 e 184, rubricati, rispettivamente, «sanatorie generali delle nullità» e «sanatoria delle nullità delle citazioni, degli avvisi e delle notificazioni».
Ciò che qui interessa maggiormente è la più «vistosa e potente causa di sanatoria», ossia il giudicato. Vi sono alcune invalidità che vengono sanate esclusivamente con la sua formazione, ed altre, sulle quali invece il giudicato non è in grado di imprimere la sua forza sanante.
Tra queste ultime occorre però distinguere ulteriormente due tipologie. Il primo, che non è di ostacolo al formarsi del giudicato, s’identifica sostanzialmente con le imperfezioni denunciabili innanzi al giudice in sede d’impugnazione straordinaria, rendendo il provvedimento imperfetto produttivo di effetti, seppur in maniera precaria. Il secondo, diversamente, pregiudica lo stesso formarsi del giudicato, evitando che esso produca effetti . Ed è questa seconda species d’imperfezione che può essere riconducibile all’inesistenza giuridica: l’anomalia non viene assorbita dal giudicato che, così, «nasce morto; iudicatum non est, sebbene l’accaduto sia processo».
Per quanto riguarda l’aspetto procedurale, l’inesistenza genera un vizio «non solo rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, ivi compreso quello di esecuzione, ma anche oltre, mediante una semplice azione di accertamento». Com’è stato da più parti osservato, è immediata la proporzione tra la terminologia processualpenalistica e quella civilistica: l’inesistenza giuridica processuale sta alla nullità civilistica, come la nullità processuale sta all’annullabilità civilistica.
Ciò posto, individuare concretamente i casi di applicazione di tale istituto non pare essere un’operazione ermeneutica scevra da pericoli per l’interprete, potendo comportare facilmente una deriva verso gli orizzonti del Freirecht, ossia del “diritto libero”, in antitesi assoluta con le istanze giuspositivistiche racchiuse in due principî guida fondamentali operanti nel nostro ordinamento: il principio di legalità e, quindi, quello di tassatività. A ben vedere, il pericolo d’incertezza potrebbe essere “sterilizzato”
– ad avviso di chi scrive – con l’individuazione di un parametro valido e oggettivo: la Costituzione. Così, può affermarsi l’inesistenza di un atto processuale qualora esso sia contrario ad un principio sancito nella Carta costituzionale, eventualmente anche all’esito del bilanciamento con un altra garanzia ivi sancita (e quando tale violazione, ovviamente, non sia prescritta come causa d’invalidità da altra disposizione di legge).
Un’autorevole dottrina ha enumerato tre casi in cui, in particolare nell’atto finale del procedimento, è ravvisabile il vizio dell’inesistenza.
I primi due riguardano l’attività giurisdizionale in sé, e specificamente si configurano nell’atto compiuto da colui che non è un giudice, in quanto solo costui è investito dei poteri per ius dicere, e nell’atto che esorbita dalla giurisdizione penale pur essendo emanato da un (“vero”) giudice. Il terzo caso, invece, è di natura soggettiva, essendo ravvisabile qualora un individuo non debba essere soggetto ai poteri del giudice penale che, ciononostante, lo giudica; quest’ultima circostanza, infatti, ben può essere equiparata ai casi di non iudex o al caso di giudizio su materie non sottoposte alla giurisdizione penale.
A queste ipotesi più “tradizionali” d’inesistenza, un’autorevole Autore, seguito da notevole parte della dottrina, ne ha aggiunto un quarto, identificabile nello svolgimento di un procedimento penale in violazione dei canoni del giusto processo, al precipuo scopo di risolvere la problematica relativa all’esecuzione delle pronunce della Corte EDU, utilizzando sì coraggio, ma non un’eccessiva dose di fantasia, quale invece caratterizza le scelte sostenute dalla giurisprudenza che fino ad allora si era pronunciata in argomento.
Entrando nel merito di quanto asserito a proposito di tale quarta fattispecie d’inesistenza, si è rilevato come essa consegue ad una rinnovata attenzione tanto al sistema giuridico nel suo complesso, quanto ai concetti di teoria generale. Invero, essa discende da una valorizzazione di alcune disposizioni, convenzionali e nazionali, quali l’art. 6 CEDU, in cui sono presenti diversi requisiti inerenti al giusto processo che il dettato codicistico deve senz’altro rispettare, in forza degli artt. 76 e 77, c. 1 Cost. (v. art. 2, l. 16 febbraio 1987, n. 81) oltre che dell’art. 117, c. 1 Cost. e, in ultimo, dell’art. 111, c. 1 Cost., secondo cui la giurisdizione deve essere attuata attraverso lo strumento del giusto processo regolato dalla legge. Da ciò discende che «lo svolgimento di attività incompatibili con tali prescrizioni farebbe venir meno pure la giurisdizione in senso proprio e ci si troverebbe al cospetto di un simulacro».
Se a queste ultime affermazioni si aggiunge l’assenza nell’ordinamento interno di una previsione in forza della quale si possa dare rimedio al verificarsi, all’interno di un procedimento penale, di almeno una violazione dei principî dell’equo processo, può venire in rilievo la teoria dell’inesistenza, essendo soddisfatti, in tali casi, i presupposti per la sua azionabilità: la divergenza macroscopica tra l’atto e il suo modello e la mancanza di una espressa previsione normativa che sanzioni tale tipologia di vizio.
E se così è, le conclusioni sono «limpide e inevitabili». In detta circostanza non sussistendo giuridicamente un giudizio «nemmeno sorge la questione di rispettare un giudicato e il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 670, comma 1 c.p.p., dovrebbe solo accertare la mancanza del titolo esecutivo ed assumere le delibere conseguenti: la sospensione dell’esecuzione, la liberazione dell’interessato se in vinculis non per altro motivo e (regredendo il procedimento allo stato e al grado in cui si è integrata l’invalidità) la rimessione degli atti al giudice a suo tempo competente per la fase processuale invalidamente celebrata, da svolgere per la prima volta ritualmente», senza incorrere nel divieto di bis in idem.
In dottrina è stato asserito, a ragione, che tale soluzione – pur configurando una «scelta rigorosa ed estrema» – ha indubbiamente il pregio di essere (de iure condito) l’unica via che consente di adempiere effettivamente ai dicta della Corte di Strasburgo, superando il c.d. “congelamento” del giudicato penale – scaturente dalla dichiarazione di ineseguibilità dello stesso ai sensi dell’art. 670 c.p.p. – e soddisfacendo, quindi, il diritto dell’individuo leso al riesame della causa.
[…]

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Ottemperanza alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e processo penale

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Informazioni tesi

  Autore: Marco Olivini
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Pavia
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Livia Giuliani
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 311

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