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Il riconoscimento della bellezza. Basi neurofisiologiche del piacere estetico

Monet, fauves e Mondrian: fisiologia della visione dei colori

In controtendenza rispetto all’accanimento con cui il settore della visione dei colori è stato dibattuto nei secoli, saranno qui esposte sinteticamente alcune riflessioni sulla fisiologia della percezione cromatica, in parte scaturite dall’osservazione di interessanti opere di artisti della corrente pittorica cosiddetta fauves. Come Newton scrisse nell’Ottica (1704), i raggi di luce non hanno colore, in essi non c’è altro che la capacità e predisposizione a generare la sensazione di questo o quel colore. Questa sua importante scoperta lo portò a ipotizzare che un oggetto assume il colore della lunghezza d’onda che esso riflette in maggior quantità. In altri termini, un oggetto verde appare verde perché riflette una maggiore quantità di luce verde, e analogamente uno rosso. Quando invece un oggetto riflette la luce di tutte le lunghezze d’onda, il suo colore è determinato dall’eccesso di una lunghezza d’onda sulle altre. Queste affermazioni sono incontestabili finché si tratta del colore di un dato punto, cioè il colore di una zona del campo visivo, quando essa viene guardata isolatamente; Michel Chevreul (1839) dimostrò che il colore di una zona è influenzato notevolmente da quello delle zone circostanti, come sa ogni artista. Noi vediamo gli oggetti in condizioni di luce diverse; se procedessimo misurando la componente spettrale della luce riflessa da tali oggetti alle varie ore del giorno, troveremmo delle variazioni notevoli, ma il suo colore, per il nostro cervello, non cambierebbe molto sebbene cambi la sfumatura. Infatti se la percezione cromatica dovesse cambiare ad ogni modificazione della composizione spettrale della luce, un oggetto non sarebbe più riconoscibile dal suo colore ma per qualche altra caratteristica, e il colore perderebbe il suo significato di meccanismo biologico di segnalazione, un mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Il cervello, come detto precedentemente, ha bisogno di conoscere proprietà permanenti, essenziali e costanti degli oggetti e delle superfici, in un mondo dove molte cose variano continuamente. Per fare questo deve trascurare ogni cambiamento superfluo che sarebbe un impedimento a questa acquisizione. Deve, ovvero “sacrificare un migliaio di verità apparenti” (come direbbero i teorici del cubismo Gleizes e Metzinger) e (come direbbe invece Helmoltz) “sottrarre l’illuminante”.
Il fenomeno di trascurare i mutamenti e così mantenere i colori viene chiamato costanza cromatica, la cui dimostrazione scientifica dobbiamo in gran parte all’opera di Edwin Land. Il cervello quindi, attua un’operazione di comparazione cromatica che consiste nel considerare il rapporto tra la luce di una data banda spettrale riflessa da una zona e la luce della stessa banda riflessa dalla zona circostante. Un confronto tra tre o più rapporti gli permette di costruire il colore della superficie attribuendole la sua interpretazione del significato di questi rapporti. Pare che, nel cervello, la registrazione della precisa composizione spettrale della luce che proviene da ogni piccola porzione del campo visivo, sia realizzata dalle cellule selettive alla lunghezza d’onda dell’area V1. Tali cellule (che, a differenza di quelle dell’area V4, reagiscono ad ogni colore a condizione che sia presente, sulla superficie osservata, una sufficiente quantità di lunghezza d’onda compresa nel range di cui è specializzata), costituiscono il congegno iniziale di raccolta dell’informazione per la costruzione del colore, che viene realizzato definitivamente dalle cellule che sono in V4. C’è infatti una teoria che ipotizza che l’uomo non abbia alcuna coscienza di quello che avviene nell’area V1 (Crick e Koch 1995). Sono stati studiati pazienti che, spesso per avvelenamento da monossido di carbonio, hanno riportato gravi lesioni di tale area; nonostante la cecità quasi totale, essi erano in grado di riconoscere i colori e addirittura le sfumature. In particolare, un paziente studiato a fondo, era in grado di attribuire il colore corretto ad una superficie solo se essa rifletteva un eccesso delle lunghezze d’onda associate usualmente ad esso. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il riconoscimento della bellezza. Basi neurofisiologiche del piacere estetico

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Informazioni tesi

  Autore: Gianluca Malatesta
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi Gabriele D'Annunzio di Chieti e Pescara
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Scienze psicologiche
  Relatore: Camillo Di Giulio
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 47

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