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Decettività e diritto dei marchi

Il caso "Parmacotto": il consumatore medio e lo strumento delle indagini demoscopiche

Per quanto concerne i fatti della causa, si rimanda al capitolo 2 del presente lavoro. In questa sede ci interessa analizzare la posizione assunta dalla giurisprudenza in relazione al pubblico di riferimento e allo strumento dell'indagine demoscopica.
La società Rovagnati S.p.A. sostiene la decettività del marchio "Parmacotto" sulla base del presupposto che il consumatore medio, nell'acquistare il prodotto, potrebbe erroneamente credere di acquistare prosciutto crudo di Parma successivamente cotto.
Merito della Corte d'Appello di Bologna è aver dichiarato apertamente e attraverso un'ampia motivazione quanto abbiamo detto poc'anzi: il consumatore medio è sempre ciò che il giudice immagina, in base a criteri di ragionevolezza.
La Corte fa propria la nozione di consumatore medio come quello non "del tutto sprovveduto e marginale, bensì quello mediamente intelligente, accorto ed informato sui prodotti del settore merceologico di appartenenza", stabilendo che il concetto di consumatore medio "non ha nulla a che vedere con le opinioni ed i convincimenti della media (pura o aggregata) o della maggioranza dei consumatori di una determinata categoria di prodotti".

Inoltre, ancora, la Corte afferma che il consumatore medio "rappresenta una tipologia culturale astratta e non già statistica di consumatore, e può identificarsi per assurdo (e probabilmente si sostanzia) in una modesta minoranza dei consumatori di un determinato settore merceologico".
Ancora, la stessa Corte conferma che, si noti, non il consumatore medio, ma il concetto di consumatore medio è un concetto puramente intellettuale ed astratto e corrisponde all'idea che il giudice ha del consumatore mediamente diligente ed attento: "Frutto di un'operazione squisitamente giudiziale".

Resta da chiederci, questo concetto di consumatore medio è davvero predisposto a tutela dei consumatori o è più incline a tutelare l'interesse dell'imprenditore ad utilizzare il proprio marchio?
Dalla stessa sentenza la risposta sembra chiara, nella valutazione della decettività del marchio "Parmacotto" il fatto che una parte significativa del campione intervistato risponda in modo errato a domande relative l'origine o le caratteristiche dei prodotti in gioco rileverebbe solo "un deficit di informazione che lo allontana dal parametro del consumatore medio".

Si dovrebbe quindi concludere che, accettando il concetto elaborato dalla giurisprudenza, di fronte a due possibili interpretazioni del significato di un marchio, una logicamente corretta e non decettiva, e una logicamente scorretta ma decettiva, anche qualora la maggior parte dei consumatori sposi questa seconda interpretazione, quel messaggio non sarebbe tuttavia decettivo.
Il concetto di consumatore medio, alla luce di questo, sembra disattendere lo statuto di non decettività: l'insieme di norme di cui esso è composto, infatti, ha l'intento di difendere dall'inganno il consumatore nel senso più generale ed onnicomprensivo del termine.
Il pubblico cui si riferiscono le norme volte ad evitare l'inganno, esplicitamente richiamato nella disciplina dei marchi d'impresa, della pubblicità ingannevole, della tutela del consumatore – manca ad esempio in materia di illecito concorrenziale, infatti all'art. 2598, comma 1, c.c., non ha alcun riferimento alla percezione del pubblico dei consumatori quando parla di idoneità a produrre confusione – non corrisponde, almeno non sempre, al concetto puramene astratto e deduttivo di consumatore medio: si sostituisce una nozione concreta ed empirica, come quella ricavabile da un'indagine demoscopica, con una "figura astratta".

Certo, si può dire che la valutazione di un rischio di confusione o di un'idoneità ad ingannare necessiti di un'astrazione del parametro di riferimento, essendo un'analisi a priori che non valuta fatti già avvenuti; ma si può altrettanto dire che applicare un concetto astratto di consumatore medio con riferimento ad un fatto conclamato, come per esempio l'accertamento statistico che una parte rilevante di un campione è stata effettivamente tratta in inganno, disattende parzialmente lo statuto di non decettività.

Sull'argomento è interessante fare ancora un riferimento per quanto concerne lo strumento delle indagini demoscopiche in relazione al marchio d'impresa.
La funzione del marchio d'impresa si realizza essenzialmente in relazione al modo con il quale è effettivamente percepito dai consumatori. A conferma di questo basta ricordare il processo del c.d. secondari meaning: un marchio originariamente nullo perché totalmente generico e descrittivo acquista una sopravvenuta capacità distintiva nella percezione dei consumatori, capacità verificata generalmente con lo strumento delle indagini demoscopiche, accettato tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Il discorso vale tanto per la riabilitazione del marchio, quanto per la decadenza per volgarizzazione, ma perché in caso di decettività si deve utilizzare un criterio diverso? Perché si deve sostituire la percezione statisticamente provata del pubblico con la percezione del giudice?

La Corte d'Appello di Bologna afferma l'inammissibilità dello strumento "perché sarebbe diretto a surrogare la volontà spettante al giudice", ma non è azzardato sostenere, in contrasto con questa decisione, che spesso può sembrare più che opportuno, soprattutto in caso di particolare difficoltà nel valutare il carattere ingannevole del marchio.
L'utilizzo delle indagini demoscopiche, inoltre, già in uso nel resto dell'Europa, se non fosse visto come surrogato del giudizio spettante al giudice, potrebbe riempire di contenuto il concetto astratto di consumatore medio, rendendo la tutela del pubblico contro la decettività effettiva, almeno per quei casi in cui l'applicazione della norma può apparire dubbia.

Buona parte delle critiche al concetto astratto di consumatore medio che si sono fin qui osservate, sono state riproposte dalla Rovagnati S.p.A. contro la decisione della Corte d'Appello presso la Suprema Corte.
La ricorrente ha sostenuto che la scelta del giudice di merito di non valutare la decettività del segno ricorrendo al parametro del "vero consumatore medio", quale derivava dall'indagine demoscopica eseguita, finiva per ricondurre il giudizio all'apprezzamento soggettivo del giudice stesso.
La Suprema Corte, sostenendo la tesi della Corte d'Appello, ha ritenuto che questa abbia correttamente valutato la decettività del marchio sulla base del concetto di consumatore medio concepito in astratto, contrastando, di fatto, con la tendenza già affermata in altri contesti.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Decettività e diritto dei marchi

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Informazioni tesi

  Autore: Raffaele Stolder
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Marco Ricolfi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 205

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