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I licenziamenti individuali dopo la Legge n. 92/2012: aspetti sostanziali e processuali

Flessibilità in uscita e articolo 18: una modifica storica

L’area di intervento che in questa sede s’intende approfondire riguarda la flessibilità in uscita e in particolare la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, uno dei punti più controversi della riforma. Il dibattito acceso avvenuto tra le parti sociali ed enfatizzato dai media ha scatenato molte polemiche anche nell’opinione pubblica, che considera l’articolo 18 un caposaldo nella salvaguardia dei diritti dei lavoratori e un tabù da tenere a debita distanza da quanti lo vogliono manomettere.

Due sono infatti i fronti contrapposti: da un lato coloro che intendono difendere l’integrità dell’art. 18, dall’altro coloro che desiderano una riformulazione dello stesso. Per quanto riguarda i primi, tale articolo viene visto come uno strumento etico-morale a difesa del diritto del lavoratore a conservare concretamente il posto di lavoro, limitando il potere arbitrario del datore di lavoro.

Si tratta di preservare una norma storica e carica di valore simbolico: “se si sancisse che il datore di lavoro può comunque liberarsi di qualsiasi lavoratore semplicemente monetizzando, si riporterebbero indietro le lancette dell’orologio. Il suo potere tornerebbe ad acquisire una connotazione proprietaria e i lavoratori verrebbero privati di una importante gamba del loro “statuto” di cittadinanza in azienda. L’altra gamba è quella rappresentata dal diritto di presenza delle organizzazioni sindacali nelle organizzazioni produttive. Togliere la prima gamba significa anche indebolire fortemente la seconda. Dunque, può essere ampiamente giustificato che su questo versante operi il tabù”.

Anche se l’intento della riforma non è di certo eliminare le tutele dei diritti del lavoratore, ogni tentativo anche lieve di modifica dell’art. 18 a favore delle imprese viene percepito da molti come una minaccia alla stabilità del posto di lavoro. Sull’altro versante si collocano coloro che auspicano un intervento di “riequilibrio della regolazione della complessiva materia dei licenziamenti nel senso di un maggiore bilanciamento costituzionale tra diritto al lavoro (a non essere ingiustificatamente licenziati) e libertà di iniziativa economica, anche attraverso la libera decisione imprenditoriale di determinare il quantum di lavoro necessario e di non utilizzare più il dipendente manifestamente non collaborativo”.

Infatti, l’applicazione dell’art. 18 nella sua vecchia formulazione comporta una serie di effetti collaterali che contribuiscono indirettamente a rallentare il sistema economico italiano. Esso “è la causa prima del dualismo del mercato del lavoro, che costituisce un fattore grave di inefficienza e di opacità, quindi di chiusura agli investimenti stranieri; dualismo che, in un periodo di crisi grave come questo, era destinato ad aggravarsi: gli imprenditori sono tanto più riluttanti ad assumere con contratto di lavoro regolare a tempo indeterminato, quanto più è rigida la protezione della stabilità dei lavoratori regolari e quanto maggiore è l’incertezza circa il futuro prossimo”.

Di conseguenza le imprese preferiscono avvalersi di rapporti di lavoro temporanei per evitare i rischi del contratto a tempo indeterminato, dovuti dall’incertezza sui costi che l’impresa dovrebbe affrontare in caso di estinzione del rapporto di lavoro. Tale dilemma è dovuto da un lato dalla indeterminatezza delle condizioni che legittimano il recesso del datore e dalla conseguente ampia discrezionalità del giudice, anche per quanto riguarda la determinazione del risarcimento, impedendo di prevedere le conseguenze dell’eventuale impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore. Dall’altro lato anche la lunghezza dei processi contribuisce ad accrescere i rischi e i costi per l’impresa: “a livello nazionale – in base ai dati del Ministero della Giustizia – i tempi necessari per arrivare a giudizio di primo grado sono in media di un anno e sei mesi per le cause di lavoro privato, mentre quelle di appello durano due anni e mezzo”. In proposito, c’è tuttavia chi sostiene che la colpa di ciò non sia dell’art. 18 “bensì delle disfunzioni dell’organizzazione della giustizia” e che “le imprese non assumono nuovi lavoratori soprattutto perché mancano prospettive di incremento dell’attività, e quindi tali decisioni sono indipendenti dalla rigidità o meno della disciplina dei Licenziamenti.

Questo brano è tratto dalla tesi:

I licenziamenti individuali dopo la Legge n. 92/2012: aspetti sostanziali e processuali

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Informazioni tesi

  Autore: Alessia Tarraran
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi Ca' Foscari di Venezia
  Facoltà: Economia
  Corso: Amministrazione, Finanza e Controllo
  Relatore: Gaetano Zilio Grandi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 124

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