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Dialoghi mitici tra T.S. Eliot e Cesare Pavese

Miti classici, miti universali

La mitologia greca, grazie al suo carattere universale e unificante del mondo contemporaneo, e in particolare del mondo contemporaneo occidentale di cui è la base culturale e per la loro accessibilità contenutistica e linguistica nel mondo europeo, entra anche nell’opera di Pavese, dai quali viene più o meno nel profondo toccata.
Come in Eliot, “il mito classico ha agito e continua ad agire come un architesto fondamentale, vale a dire come un insieme eterogeneo e piuttosto sciolto di racconti e motivi sottoposti alle più svariate pratiche di manipolazione e d’interpretazione” e viene quindi “percepito come un universo remoto, diverso, se non addirittura inaccessibile per il testo contemporaneo”.
Mito, per Pavese, è, come abbiamo già visto, anche il rito, in particolare quello di fertilità campagnolo; ma contemporaneamente è anche un “racconto sacro appartenente ad una determinata area culturale”.
Il mito classico si configura allora come il segno di una data cultura, che ha veicolato un contenuto in un momento preciso della storia umana; come già nella Waste Land, la miticità e il valore di quei racconti non hanno lo stesso peso nell’uomo moderno, come invece avevano nell’antichità: al pari dei riti, nel contemporaneo se n’è già perduta la valenza originaria, diventando qualcosa di impossibile da recuperare; “l’altra cosa” scrive infatti Pavese nell’ultimo dei Dialoghi “l’abbiamo perduta./ – Dilla dunque, la cosa./ - Già lo sai. Quei loro incontri”; anche per Pavese, dunque, “the nymphs are departed”, non come quelle di Eliot, trasformatesi in prostitute, ma come concetto mitologico: il mondo contemporaneo ha perso il tempo mitologico, come ha perso quello dei riti.
L’unica cosa che può dare un valore mitico nella contemporaneità alla mitologia è la creazione di “miti individuali” come lo stesso scrittore li definisce: “questi miti individuali” sono “i germi di ogni poesia”.
“Secondo Pavese”, afferma Givone, “la poesia deve ricongiungersi con il mito”, poiché, come in Eliot, la poesia è “l’unica erede del pensiero selvaggio” e quindi l’unica erede del mito classico, infatti Cesare, citando tra l’altro la Harrison, scrive
’The element of action re-done, imitated, the element of μίμɛσɩϛ is, I think, essential… Not the attempt to deceive, but a desire to re-live, to re-present>> (Harrison. Themis. p.43). Non corrisponde al tuo vedere mitico[…]? E in questa mimesi c’è il segreto della poesia
ma così facendo, questo “rischiararli, possederli fino in fondo […]vuol dire distruggere, si sa. Questa distruzione ‒ beninteso, è una trasformazione ‒ toglie al mito violato la sua unicità, la sua misteriosa potenza di simbolo creduto. Il mito che si fa poesia perde il suo alone religioso”; alla stessa maniera di The Waste Land, il mito immerso nel contemporaneo viene degradato, gli viene tolta la sua aurea sacra e perde la sua essenza orginaria.
La sua classicità è quindi il risultato di una filtrazione contemporanea e personale della mitologia, non il frutto di una ricerca oggettiva; Pavese scrive nel suo diario il 3 giugno del 1943 che “il tuo”, parlando di se stesso, “è un classicismo rustico che facilmente diventa etnografia preistorica”. Preistoria dell’uomo come Vico, ma anche Dialoghi con Leucò in cui il mito greco si presenta agli albori, mentre soppianta il mondo pre-olimpico; ma è anche preistoria dell’individuo, la fanciullezza, poiché la rusticità è qualcosa che arriva dall’infanzia: “piacciono i ruderi di Roma perché […] papaveri e siepi secche sui colli ne fanno cosa dell’infanzia”.
Come l’infanzia, il mito classico, in quanto legato ad una realtà specifica è qualcosa di unico e irripetibile, e per questo “è stato innalzato a più riprese a norma e a punto di riferimento per la realizzazione di un discorso che si accosti all’irrazionale e al sacro senza sminuirlo del tutto”. Pavese dice infatti che il fascino dei miti greci nasce dal fatto che posizioni inizialmente magiche, totemiche, matriarcali, iniziatiche vennero […] reinterpretate, tormentate, contaminate, innestate, secondo ragione, e così ci sono giunte ricche di tutta questa chiarezza e tensione spirituale ma tuttora variegate di antichi simbolici sensi selvaggi
Ma discostandosi dalle idee dell’antropologia di inizio secolo, quella a cui molto era debitore Eliot, nonostante lo scrittore italiano prenda alcuni spunti da essa specialmente dalla Harrison, “Pavese non applicò fino in fondo o non applicò affatto, nei riguardi dei miti classici, quel metodo evoluzionistico che è tipico della scienza etnologica e in particolare di Frazer”. Ma ciò non toglie che anche per Pavese il mito greco e la civiltà greca nascano da un sostrato primitivo e selvaggio, di cui non scompare il rito di fertilità, lo stesso Pavese citando Nilsson nel suo diario afferma “la terra è da una parte il luogo di riposo dei morti che sono sepolti nel suo seno, dall’altra la datrice della fertilità. Le divinità ctonie appaiono nel doppio aspetto di signore della morte e della fertilità”. Contrapporre queste divinità al mondo olimpico mette in crisi il sistema e apre le porte al mondo contemporaneo, in cui l’essenza del rito non è più afferrabile. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Dialoghi mitici tra T.S. Eliot e Cesare Pavese

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Informazioni tesi

  Autore: Rossana Pasian
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Lettere
  Relatore: Giuliana Ferreccio
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 88

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