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L' antigiudaismo teologico de ''La Civiltà Cattolica''

Antigiudaismo o antisemitismo nella Civiltà Cattolica? L'antigiudaismo popolare nell'antichità

Può apparire temerario scegliere una tesi di licenza che voglia provare la parzialità delle accuse di antisemitismo alla Civiltà Cattolica. La rivista dei gesuiti è stata fin dall'inizio e per decenni considerata portavoce del Vaticano1 e i contenuti politici sono stati recepiti come ispirati dalla Segreteria di Stato. Le accuse alla Civiltà Cattolica, specialmente per il periodo 1850-1900, finiscono con diventare accuse alla gerarchia della Chiesa. Inoltre, la bibliografia su questo punto richiama studi di grande impegno da parte di storici affermati.
La scelta da me fatta è quella di limitarmi alle pagine della Civiltà Cattolica che trattano degli ebrei, per coglierne lo spirito e gli obiettivi. Si tratta di odio spinto fino alla volontà di distruzione? In caso affermativo, l'accusa di antisemitismo è provata, perché il significato della parola antisemitismo nella percezione della gente comune è odio per un gruppo umano considerato diverso e perciò da sterminare. Come conseguenza dell'Olocausto nazista, la parola "antisemitismo" non ha bisogno di ridefinizioni, perché significa semplicemente "annientamento".
E cosa pensare se dovesse risultare che non è l'odio a dar vita alle poche decine di articoli di fondo che la Civiltà Cattolica ha dedicato al problema ebraico e ai molti attacchi agli ebrei contenuti nelle cronache da Roma e dall'Italia?
Partendo da questa prospettiva la mia tesi per la licenza diventa cronaca, con la pretesa di essere freddamente oggettiva, basata solo su fatti concreti. Nello sfondo tuttavia c'è sempre la tragedia dell'Olocausto e la consapevolezza che nessuna scelta contraria alla giustizia può trovare giustificazione. La cronaca può aiutare a precisare le responsabilità individuali, permettendo così di distinguere tra accusa ed accusa.
Sarebbe uno sbaglio pensare che fare il cronista del presunto antisemitismo nella Civiltà Cattolica si riduca al freddo elenco di dichiarazioni estrapolate dalla rivista. Il tema da me scelto implica un profondo coinvolgimento, che mi ha permesso di non essere intimidita dall'importanza dell'argomento e, nel corso di alcuni anni, di non desistere dalla lettura dei fascicoli della rivista, appena gli impegni quotidiani erano meno pressanti. È inevitabile il confronto con giudizi di storici affermati. Un'eventuale diversa presa di posizione da parte mia, sarà giustificata dalla testimonianza diretta dei testi.
Grazie alla lettura, qualche anno fa, di una preghiera composta da Giovanni XXIII pochi giorni prima della sua morte nel 1963, il filo rosso dell'interesse per la questione ebraica è emerso dal nucleo indistinto di informazioni e sentimenti che essa generalmente determina nel periodo di formazione scolastica:

Noi siamo oggi coscienti che nel corso di molti, molti secoli, i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto i tratti dei nostri fratelli privilegiati. Noi comprendiamo che il marchio di Caino è scritto sulla nostra fronte. Nel corso dei secoli nostro fratello Abele giacque insanguinato e in lacrime per colpa nostra, poiché avevamo dimenticato il Tuo amore. Perdonaci per la maledizione che abbiamo ingiustamente attribuita al loro nome di Ebrei. Perdonaci per averTi una seconda volta crocifisso in essi, nella loro carne, perché non sapevamo quello che facevamo.

Con la preghiera del 1963, Papa Giovanni dichiarava che la Chiesa cattolica era cosciente di essere stata cieca nei riguardi degli ebrei, li chiamava fratelli privilegiati e ammetteva di meritare il marchio di Caino per il dolore provocato loro nel corso dei secoli, chiedendo quindi perdono per averli maledetti.
Sono parole che conservano anche a distanza di tempo una forte carica di pathos e anticipano la svolta epocale nei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, avvenuta con la dichiarazione conciliare Nostra aetate del 28 ottobre 1965 e col documento della Commissione dei Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, del 16 marzo 1998.
Eravamo stati abituati a pensare agli ebrei come deicidi, la tradizione li incolpava collettivamente per la morte di Gesù e ci portava a considerarli maledetti da Dio e meritevoli di punizione.
Papa Giovanni, appena eletto, aveva interrotto uno dei celebranti nel Venerdì Santo per la parola "perfidi" nella preghiera per gli ebrei contenuta nei libri liturgici e aveva ripetuto lui stesso la preghiera senza aggettivi.
Domenica 12 marzo 2000, Giovanni Paolo II si rivolge ai cristiani invitandoli a confessare le proprie colpe in vista del nuovo millennio, obbligandoci così a riconsiderare gli aspetti del nostro passato collettivo che sapevamo essere tradimenti del comandamento di Gesù di amare il prossimo. Nel suo discorso il Papa ricorda la pubblicazione della Commissione Teologica Internazionale intitolato Memoria e Riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato. Questo documento dedica una parte al rapporto tra cristiani ed ebrei e lo sviluppa citando abbondantemente le conclusioni cui era giunta la Commissione per i rapporti religiosi con l'Ebraismo nel documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah del 16 marzo 1998.
Alla domanda: chiedere perdono, perché? le risposte sono nette. Da una parte c'è la tremenda accusa di antisemitismo alla Chiesa, con la chiara attribuzione di diretta responsabilità nella tragedia dell'Olocausto. Dall'altra, c'è la posizione di quanti precisano che è del tutto estraneo alla teologia cristiana l'antisemitismo in quanto razzismo e che si tratta di un fenomeno moderno affrontato criticamente da parte del Vaticano già prima del fascismo e del nazismo, mentre la Chiesa ha riconosciuto la responsabilità di aver influenzato i cristiani col proprio millenario antigiudaismo.
Inutile dire che la controversia tra antisemitismoantigiudaismo della Chiesa, vista la distanza delle contrapposizioni, sembra fino ad oggi portare ad un dialogo tra sordi, senza speranza di accordo.
Mi ha colpito una considerazione del gesuita p. Giovanni Sale contenuta nella premessa di un articolo in risposta alle accuse di antisemitismo contro la Chiesa e la Civiltà Cattolica. Rileva che la Chiesa parla di antigiudaismo nella propria storia sulla base dei fatti e accollandosene la responsabilità. Chi invece l'accusa di antisemitismo strumentalizza ideologicamente la storia per imporre la propria chiave di lettura. E conclude dicendo che la tradizione cristiana, e in particolare quella cattolica, si è del resto sempre "capita" su questo particolare problema dentro la definizione di antigiudaismo e simili.
C'è da chiedersi: se i cristiani "si capiscono", perché non vengono capiti anche dai non cristiani? Quali motivi spingono un cristiano a rifiutare l'etichetta di antisemita (odio razziale distruttivo) e per quale ragione, invece, quei motivi non risultino universalmente convincenti anche per chi accusa la Chiesa di antisemitismo? Alla stessa maniera, c'è da chiedersi perché neppure gli argomenti dei sostenitori dell'antisemitismo della Chiesa non sono irrefutabili. Si può tentare di trovare una risposta a questi interrogativi?

Questo brano è tratto dalla tesi:

L' antigiudaismo teologico de ''La Civiltà Cattolica''

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Informazioni tesi

  Autore: Camilla Mele Daste
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2007-08
  Università: Facoltà di Teologia di Lugano, Canton Ticino - CH
  Facoltà: Teologia
  Corso: Storia della Teologia
  Relatore: Azzolino Chiappini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 323

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