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Il diritto di morire. Riflessioni sull'eutanasia volontaria

Vitalismo medico e moralità dell'eutanasia

Prima di passare all'esame della definizione e del possibile contenuto del diritto di morire, sembra interessante delineare sinteticamente i cambiamenti che hanno interessato la professione medica e il suo approccio con i pazienti terminali. L'approccio tradizionale è sempre stato informato dalla dottrina del vitalismo medico, secondo cui è un preciso dovere del medico fare tutto il possibile per prolungare la vita del paziente e ritardare l'evento della morte. Questa prassi inoltre garantiva gli operatori sanitari, mettendoli al riparo dalla possibilità di commettere errori morali. Parte della dottrina ha evidenziato i due aspetti salienti del vitalismo, identificando in questo dovere del medico una sorta di imperativo vitalistico, che si basa su una tesi assiologica molto semplice ed essenziale: la vita biologica è sempre buona e la morte è invece sempre un male. La giustificazione di tale prospettiva si basava su alcune precise e, fino a non molto tempo fa, immutate caratteristiche della morte:
a) era una morte prematura, che colpiva nella maggior parte dei casi persone ancora giovani con buone prospettive di vita;
b) era una morte imprevista, stante l'impossibilità tecnico-scientifica di poter effettuare diagnosi sufficientemente corrette;
c) era un evento non ritardabile, in quanto le capacità tecniche non consentivano il mantenimento in vita di un corpo ormai compromesso dalla malattia.
In tale contesto, Mori sottolinea come la morte potesse essere vista e considerata davvero come il peggiore dei mali, mentre la vita risultava sempre la migliore prospettiva possibile, ancora piena di contenuti positivi da poter esprimere per il malato se questo si fosse rimesso in salute. I costi economici e psicologici per tutti (società, famiglia, paziente) erano quindi minimi: i medici potevano tentare il tutto per tutto con le scarse risorse e tecnologie di cui disponevano e la guarigione o la morte arrivavano subito, senza prolungati patimenti per i soggetti coinvolti.Il vitalismo medico, quindi, ha prosperato felicemente sino agli inizi degli anni Cinquanta, quando cominciarono, a seguito del progresso del sapere medico e scientifico, i primi casi di prolungamento artificiale della vita, non più accompagnata dal benessere psico-fisico ma bensì caratterizzata da situazioni estremamente spiacevoli e dolorose. Negli anni Settanta l'opinione pubblica nazionale e internazionale aveva ormai familiarizzato con il concetto di accanimento terapeutico e l'approccio vitalistico è stato totalmente abbandonato. Si è così costituito un nuovo approccio che domina oggi la relazione tra il medico e il paziente terminale. Si parla infatti di 'umanizzazione della morte' per indicare quella posizione che tende da una parte, ad evitare l'accanimento terapeutico, lasciando che la natura faccia il suo corso, dall'altra, ad accompagnare affettuosamente il malato nell'ultima parte della vita, senza ritardare o accelerare il processo naturale mediante tecnologie o trattamenti, ma semplicemente adottando cure palliative.
Da questa nuova concezione, sostenuta dalle maggiori associazioni mediche e dalla stessa morale cattolica, Mori afferma tuttavia che, una volta condannato l'accanimento terapeutico si può implicitamente dedurre che vi sia anche una condanna della tesi assiologica del vitalismo secondo cui: fare di tutto per prolungare la vita (biologica) e procrastinare la morte del paziente non sia sempre un bene. Conseguentemente si può affermare che non è vero che la vita sia sempre un bene e la morte sempre un male. L'autore introduce un'interessante distinzione, anch'essa implicitamente ricavabile dalla nuova concezione sul trattamento dei pazienti terminali: vi è una rilevante differenza qualitativa tra il dolore entro la vita ed il dolore terminale. Il primo è un dolore che riguarda una persona comunque sana e con buone prospettive di vita davanti a sé. A questo dolore, infatti, si può attribuire un proprio senso e una sua propria utilità, in quanto stimola l'individuo ad uscire da tale condizione sgradevole e gli offre una speranza di compensazione per la sofferenza subìta. Al contrario, il dolore terminale affliggerebbe inutilmente, secondo l'autore, il paziente non offrendo a questi alcuna speranza; si tratta di mero dolore privo di senso e contrario alla dignità della persona. Tale ultima situazione, di mero e prolungato dolore terminale, viene indicata da Mori come una 'condizione infernale', peggiore della morte in quanto quest'ultima è ovviamente caratterizzata dalla totale assenza di dolore; sarebbe questa, in ultima analisi, l'unica condizione che, insieme al requisito del consenso informato del paziente competente, consente di considerare moralmente lecita l'eutanasia. In questa situazione infernale viene, tuttavia, inserita anche quella condizione che l'autore definisce: "[...] mancanza di dignità esistenziale permanente ed irrimediabile che talvolta è anche più grave e avvilente della situazione di dolore fisico". Quest'ultima considerazione si presta, invece, a facili obiezioni. L'autore qui sostiene l'esistenza di altre situazioni, non meglio specificate, non caratterizzate dalla terminalità e/o dal dolore acuto, persistente e intollerabile, e aventi un (indimostrato) carattere permanente e irrimediabile. Considerando che tali situazioni secondo Mori sarebbero sussumibili nella condizione infernale e quest'ultima viene considerata l'unica per la quale è possibile permettere l'eutanasia, ci pare quest'ultima una conclusione inaccettabile non solo per l'indeterminatezza di tali situazioni caratterizzate dalla mancanza di dignità esistenziale, ma soprattutto perché si travalicano i confini propri del preteso diritto di morire così come oggi viene attualmente inteso dalla comunità medica, filosofica e, in generale, bioetica. Esso è infatti confinato nella sola condizione eutanasica, caratterizzata dal dolore terminale intollerabile e non altrimenti attenuabile; non sembra pertanto pertinente una tale rivendicazione per altre situazioni che potremmo definire ordinarie sulle quali un diritto di morire è ben lungi dall'essere ancora considerato.
Sembra molto interessante, invece, l'analisi della relazione eutanasia-palliazione svolta dallo stesso autore. Se è vero che le cure palliative sono state considerate un baluardo contro la richiesta di morte volontaria, è stato giustamente osservato come non tutte le situazioni di dolore terminale siano controllabili mediante cure palliative. Risulta quindi condivisibile l'opinione di chi sostiene che non debba necessariamente sussistere un rapporto autoescludente tra eutanasia volontaria e terapie palliative. Vi è la necessità di attuare sempre strategie volte a distinguere richieste di morte dettate dallo sconforto, e che debbono intendersi come semplici richieste di aiuto, simpatia e affetto, da quelle richieste eutanasiche autentiche, seppur rarissime, dettate dall'impossibilità di una risposta palliativa adeguata, dove, nonostante tutte le cure e le attenzioni del caso, ugualmente il paziente chiede di morire per sollevarsi dal dolore e tutelare in questo modo la sua dignità personale.
Il rapporto eutanasia-palliazione diventa, quindi, necessariamente complementare e l'eutanasia volontaria (da considerare sempre quale ultima ratio in presenza di una condizione infernale), diverrebbe così moralmente lecita. Inoltre, è stato acutamente sottolineato dallo stesso autore, che la stessa palliazione procurata in stato terminale induce spesso il paziente in uno stato di sedazione farmacologica permanente per un periodo di tempo talvolta molto lungo prima che sopraggiunga la morte. Tale dottrina ravvisa in tale comportamento dei medici un: "mero espediente tecnico per salvare le apparenze e aggirare un problema reale". In effetti, pare corretta la considerazione che il voler provocare intenzionalmente l'incoscienza del paziente per alleviargli il dolore sapendo ab initio che non gliela si potrà più restituire equivale nella sostanza ad ucciderlo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il diritto di morire. Riflessioni sull'eutanasia volontaria

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Informazioni tesi

  Autore: Guido Palazzolo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Adriano Ballarini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 116

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