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La lingua come lente, uno sguardo sul rapporto lingua-pensiero nella ricerca contemporanea

La lingua come specchio

La lingua è uno specchio, spiega Deutscher, perché ci riflette qualcosa legato ai parlanti di quella determinata lingua.
Cosa può riflettere la lingua? Aspetti culturali o naturali? La natura, continua il linguista, fa delle nette e ovvie distinzioni tra oggetti che ci appaiono in tutta la loro chiarezza, la stessa indubbia chiarezza che viene riflessa nella lingua; ogni lingua, infatti, contiene una parola specifica per designare un gatto, un cane, la luna, la porta, un uccello, il cielo ecc Stando a questo assunto, potremmo dire che la lingua esprime ciò che c’é di più naturale nel mondo in cui viviamo e nessun parlante confonderà mai i concetti di gatto e sole, né alcuna lingua li fonderà mai insieme.
Le lingue, in qualche modo, devono sottostare a una legge che viene "dall’alto": il simile va con il simile che differisce e si allontana dal dissimile. Si deve innanzi tutto seguire questa linea naturale prima di parlare di cultura.

Deutscher, riesce così a trovare un "accordo" con Chomsky affermando che anche il nostro cervello é naturalmente dotato di "algoritmi" capaci di raggruppare intuitivamente ciò che é simile e ciò che non lo é (attitudine tra l’altro che appare nei bambini nella loro prima scoperta del mondo); in breve, abbiamo un’attitudine in parte innata nel categorizzare il mondo che poi esprimiamo linguisticamente. Se le lingue possono scegliere arbitrariamente le loro etichette (gatto, chat, cat, gato), non possono scegliere arbitrariamente i concetti dietro le etichette (felino domestico). Dunque le "etichette" rifletterebbero le scelte culturali, i "concetti" sotto le etichette, invece obbedirebbero ai dettami della natura, e alla categorizzazione innata.

Anche Aristotele nel IV secolo disse che sebbene i suoni del linguaggio variano da un’etnia all’altra, i concetti sono gli stessi per tutti i popoli. La lingua però non è solo un mezzo per esprimere fatti naturali. Laddove le linee di demarcazione che la natura ha tracciato risultano più deboli e più sfumate, ecco subito che la cultura ne approfitta intrufolandosi e prendendo in mano la situazione, decidendo. La cultura spesso varca il confine naturale imponendosi anche nel dominio dei concetti, non solo in quello delle etichette. E’ proprio in questi casi che la lingua riflette anche la cultura.

Generalmente, ciò accade per i concetti astratti (come vittoria, orgoglio, sacrificio, amore) che non sono così marcatamente distinti dalla natura come cane e gatto. Per tradurre in italiano la parola inglese mind per esempio, il dizionario bilingue ci fornirà un elenco delle diverse "etichette" che la lingua italiana ha dato a quello che viene raccolto in una sola parola inglese.

L’italiano, in questo caso, offre più parole da attribuire a ogni sfumatura di significato che tale concetto presenta. Mind, così come in parte la parola francese esprit, può essere tradotto come mente, animo, intelligenza, opinione, ragione in base ai contesti in cui viene utilizzata. La stessa cosa se prendiamo la parola italiana animo che in inglese avrà tante espressioni linguistiche tante quante le sfumature di significato di tale parola: animo può significare soul oppure heart o anche mind e ancora conscience, spirit. Per non parlare dei famoso I love you, che condensa in un’unica espressione le tante sfaccettature di questo sentimento, non a caso così complesso, che vanno dall’affetto, alla passione, all’amore e che gli anglosassoni hanno visto bene di raccoglierlo in una parola sola per "non sbagliare".

Prendendo le distanze da Whorf, i neorelativisti tengono a sottolineare che benché gli anglosassoni e gli italiani usino diverse parole per indicare uno stesso concetto, è assolutamente falso dedurre che i primi disconoscano la differenza tra un sentimento di affetto e uno d’amore, perché, come abbiamo più volte ripetuto, la lingua che parliamo non ci limita nella comprensione di termini e concetti che non appartengono al nostro vocabolario, allo stesso modo, il vocabolario, anche se "sintetico", non ci limita nella conoscenza delle sfaccettature di significato che tale termine può avere. I love you è semplicemente l’esempio più noto di come la lingua inglese usi una forma di directness, ovvero schiettezza, concisione, che è raramente manifesta nei parlanti italiani, che amano adoperare, soprattutto allo scritto (letteratura a parte) una folta gamma di sinonimi, sfumature, e ghiri ghiri.

Se ne "lamenta" la traduttrice inglese Miriam Hurley, quando imbattendosi nelle traduzioni dall’italiano all’inglese, dice che per lei, madrelingua anglofona, la più grande sfida é "semplificare" il testo italiano ai fini di una corretta traduzione in lingua inglese: infiniti sinonimi per evitare le ripetizioni, periodi troppo lunghi, un’elaborazione delle idee troppo fluida e dispersiva che per il lettore anglofono (e aggiungerei francofono), troppo preoccupato alla struttura rigida del testo, è un vero problema. La lingua semplicemente sceglie un modo proprio di organizzare linguisticamente l’esperienza ed "etichettare" il mondo, orientando i parlanti verso un determinata abitudine linguistico-cognitiva e a lungo andare percettiva.

Che succede quando la cultura va ancora più oltre? Quando arriva a stabilire qualcosa che istintivamente ci appare naturale e quindi universale?

Questo brano è tratto dalla tesi:

La lingua come lente, uno sguardo sul rapporto lingua-pensiero nella ricerca contemporanea

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Informazioni tesi

  Autore: Francesca Di Grande
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Catania
  Facoltà: Lingue e Letterature Straniere
  Corso: Lingue e letterature straniere
  Relatore: Alessandro Lutri
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 75

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