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La tecnica del Training Autogeno. Correlati neurobiologici e applicazioni cliniche.

Fondamenti del Training Autogeno e prospettive teoriche

Col passare del tempo, il Training Autogeno è diventato uno strumento prezioso per la psicoterapia: non si tratta, infatti, di una mera tecnica di distensione, ma di un prezioso strumento di terapia (Psicoterapia Bionomico - Autogena) applicabile in numerosi contesti clinici. In altre parole, per quanto tale tecnica possa essere effettuata e insegnata anche solo come metodo di rilassamento, il suo utilizzo in terapia è un esito fondamentale: appare indubbio che, proprio grazie alla sua capacità di indurre una certa serenità e consapevolezza interiore, si possa considerare un valido aiuto per il trattamento psicoterapeutico, proprio laddove è di primaria intenzione generare cambiamento e realizzare benessere. «L'autodistensione da concentrazione, – scrive Eberlein – il distacco e la commutazione alla calma, il riaversi in ogni momento, il trovar modo di uscire dall'ansia, il potenziamento della concentrazione e dell'efficienza, il dormir meglio, questi, tra gli altri, gli obiettivi del training autogeno […]. Col training autogeno noi intraprendiamo una “programmazione” vera e propria, investiamo come da una centrale d'intervento il nostro sistema nervoso vegetativo. In questo modo è possibile tener lontani gli stimoli continuamente ricorrenti (dispiaceri, conflitti, stress, ecc.) […]. Quel che sorprende in questo processo è il continuo crescere di un atteggiamento positivo che, col passar del tempo, rende leggero ciò che è greve, dona un coraggio nuovo di vivere e tuttavia consente di vedere le cose nella loro realtà» (Eberlein, 1973 pp. 7-8). Da ciò emerge che, attraverso il Training Autogeno, è possibile ritrovare la propria esistenza: come sottolinea Peresson (1982) sulla scia del pensiero schultziano, il soggetto si riappropria dell'individualità corporea grazie al processo di «messa tra parentesi» dell'ambiente esterno e di interruzione della volizione. Quindi, non negazione del mondo, ma attenzione autoriflessa verso il proprio corpo, ascolto passivo e acritico di esso: attraverso il Training Autogeno è possibile conseguire «una progressiva autoaccettazione, una diversa relazionalità inconscia» (Peresson, 1979 p. 227) e ristabilire l'equilibrio interiore proprio a partire dal corpo, inteso in una prospettiva olistica e non come mera «componente», in cui è possibile ritrovare la profondità del proprio essere (ibi). Si tratta, in altre parole, di imparare a “essere il proprio corpo”, laddove, assai più spesso, ci si limita ad “abitare il proprio corpo”.
Si introduce così una delle caratteristiche principali del Training Autogeno che fa da cornice a tutti gli esercizi ed è precondizione assoluta per una buona riuscita di essi: la concentrazione passiva. Una condizione, come spiega Peresson (1980), che si raggiunge solo grazie a un buon allenamento e che, nello specifico, rappresenta il secondo di sei stadi che si susseguono durante l'allenamento a lungo termine: la distinzione di tali stadi è giustificata dal susseguirsi di differenti momenti durante ogni sessione di Training Autogeno, osservabile nei soggetti ben allenati (De Rivera y Revuelta, 2003). Il primo di questi è il cosiddetto stadio «R.», o della reazione riflessa, in cui il soggetto realizza spontaneamente, senza che ci sia ancora un reale impegno, alcuni mutamenti psicofisiologici tipici del Training Autogeno. Il secondo stadio «C.P.», o della concentrazione passiva, sopraggiunge dopo qualche tempo di allenamento, quando il soggetto acquisisce la capacità di raggiungere uno stato di concentrazione in cui l'attenzione viene diretta spontaneamente verso le aree del corpo relative agli esercizi e riesce a mantenersi costante. La concentrazione passiva si distingue da quella attiva per l'assenza della volontà di tenere l'attenzione (per l'appunto, attiva) su determinati stimoli: un aspetto, questo, piuttosto complesso da apprendere perché contrario a quello che si mantiene durante lo stato di veglia, in totale opposizione con i principi di produttività e razionalità tipici della cultura occidentale e anche apparentemente contradditorio, ma tuttavia necessario per il corretto svolgimento del Training Autogeno. Per comprendere in toto questo stato e poterlo spontaneamente generare, è necessario compiere uno sforzo volitivo e attivo diretto a conseguire una condizione di passività: si tratta di imparare a non volere e a essere indifferenti di fronte a ciò che accade nel corpo e nella mente, così da poterli ascoltare e soprattutto esperire in tutta la loro pienezza (Peresson, 1980; Bazzi e Giorda, 1984). È, insomma, una «disposizione passiva a lasciare che in sé accada ciò che vuole accadere […]; nel Training Autogeno dobbiamo, per parlare con un'immagine, spaziare fra due aree del nostro essere: tra l'area della passività, dove si è liberi dalla volontà (ma non senza volontà), liberi dalla dedizione ad un qualsiasi pensiero o a un'idea, disponibili soltanto a ciò che emerge in noi quando non facciamo proprio nulla, e l'area della volontà attiva, poiché comunque è necessario un impegno nell'eseguire regolarmente gli esercizi secondo determinate norme» (Wallnöfer, 1998 p. 17). Concorda con questa posizione anche Granone (1982), il quale sostiene che spesso è impossibile porre davvero una demarcazione netta tra passività e attività, sicché risulta molto più produttivo considerarle insieme nella loro interazione che esaminarle singolarmente. Detto in altri termini, è necessario comprendere che non si tratta di un concetto incoerente, ma che occorre piuttosto accettare la qualità di questo tipo di concentrazione, la quale non è più solo attenzione diretta ad un preciso stimolo, ma è lo strumento fondamentale che favorisce la scoperta di sé (Bazzi e Giorda, 1984). Il terzo stadio «N.», o della neutralità mentale, sopraggiunge dopo un lungo allenamento ed è caratterizzato, appunto, dalla neutralità, in cui non c'è più alcuna intromissione dell'attività mentale attiva del soggetto: la mente appare calma, come «svuotata», e non sono più nemmeno presenti le scariche autogene (De Rivera y Revuelta, 2003). Il quarto stadio «D.», o della disintegrazione funzionale, è quello della dispersione nel quale il soggetto, pur avendo già raggiunto la concentrazione passiva, ha un potenziamento dell'attività mentale diretta e quindi, ad esempio, può scoprire un contatto con la zona topografica più precario oppure perseverante, nonostante il cambio di formula. Il quinto stadio «A.P.», o della accettazione passiva, è la fase in cui il soggetto può decisamente lasciarsi andare allo stato di autogenia e non abbisogna più di ripetere le formule in quanto in grado di richiamarle in modo immediato e intuitivo. Nell'ultimo stadio «A.», o del riordino psicofisiologico, il soggetto ha il pieno controllo di sé e delle proprie reazioni, tanto da non necessitare più della ripresa (cfr. infra par. 2.2), ma solo di lente e profonde respirazioni, molto più efficaci per l'organismo. [...]

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La tecnica del Training Autogeno. Correlati neurobiologici e applicazioni cliniche.

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Informazioni tesi

  Autore: Alessia Vaudano
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Psicologia Clinica e di Comunità
  Relatore: Raffaella Ricci
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 96

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ipnosi
training
neurobiologia
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training autoeno
autogeno
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