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I Sessanta racconti di Dino Buzzati, un viaggio tra simbolo e realtà

Un confronto tra due maestri: Buzzati e Kafka

Pochi anni prima della sua morte Buzzati, dichiarò pubblicamente che, da quando aveva iniziato a scrivere, Kafka era stato la sua croce. Con questa forte affermazione, egli si riferiva a quell’ampia fetta di critica, per lunghi anni influenzata da questo accostamento, che giudicò lo scrittore italiano una imitazione dello scrittore boemo. Buzzati aveva letto Kafka, l’aveva meditato, e gli era senza dubbio servito per elaborare una propria linea di scrittura. Il confronto che pesava sulla sua scrittura, che lo ossessionava, lo portò a dichiarare di non averlo mai conosciuto.

Da alcuni suoi appunti giovanili è emerso inoltre che egli ammise, solo dopo la guerra, dopo aver scritto Il deserto dei Tartari, di averne percepito vagamente il nome. Di seguito analizzerò brevemente i punti cardine della prosa kafkiana in modo tale da poter cogliere più che le congiunture tematiche, i differenti presupposti filosofici e ideologici nei due pionieri della letteratura novecentesca. Ad animare l’universo narrativo di Kafka sono in primis, gli incubi, le allucinazioni, e l’assenza di significato nella vita. Non manca una forte denuncia alla società di massa che ingabbia l’uomo in un sistema che lo opprime e lo conduce, attraverso la spersonalizzazione dell’Io, alla solitudine e all’angoscia profonda che ha, come unico sbocco, la morte. Il mezzo retorico utilizzato è quello dell’allegoria vuota, ovvero la presentazioni di fatti svuotati di significato, che non trasmettono nulla, e che hanno come unico scopo quello di comunicare, quasi cronachisticamente, la solitudine inevitabile dell’uomo e dei propri simili.

Il capolavoro di Kafka è considerato unanimemente La Metamorfosi. Consiste in un lungo racconto, pubblicato nel 1915 per la prima volta, in cui il protagonista Gregor Samsa, un reietto della società, è costretto ad un lavoro da impiegato e che una mattina si sveglia nel corpo di un orrido e gigantesco scarafaggio. La prima reazione dell’uomo non è di sgomento, come si potrebbe pensare, e neanche di meraviglia per la sua condizione; egli si preoccupa più che altro di come andare a lavoro in dovendo mantenere la propria famiglia, tenendo anche conto del fatto che è in ritardo. Nonostante i suoi tentativi di celare a tutti la sua nuova identità, questa viene a galla e terrorizza i familiari e il procuratore presso il quale Gregor lavora come commesso viaggiatore. Il resto del racconto vede Gregor abbandonato da tutti, trattato come un reietto e un mostro, tranne dalla sorella Grete, che provvede a lui. Egli comincia a comportarsi come un insetto, seguendo i propri istinti. Questo lo porterà ad essere definitivamente non solo abbandonato da tutti, ma il padre inizia a pensare anche a come potersi sbarazzare del figlio divenuto oramai un peso. Gregor allora comincia a rifiutare il cibo morendo lentamente.

Tutto nella famiglia torna alla normalità, e la famiglia si trasferisce in una abitazione migliore. La vicenda appena narrata è una vicenda di colpa e innocenza, poiché quella di Gregor è in effetti l’innocenza di un figlio condannato a rimanere in una fase della vita pre-adulta schiacciata dalla figura paterna: la sua è l’innocenza di chi si guarda esistere senza vivere . Pertanto Kafka viene annoverato come uno dei principali scrittori in grado di raccontare in maniera chirurgica e cinica, il profondo disagio dell’uomo moderno che schiacciato dalla società, affronta un destino al quale non può opporsi e che tende a conformarlo, rendendolo un essere meccanico, nell’ineluttabile e statica attesa della morte.

Influenzato o meno da Kafka, lo scrittore bellunese, invece, offre tuttavia fenomeni meno vistosi ed emozioni più comuni, descrivendo nei propri romanzi uno squarcio di normalità e di vita quotidiana. Il suo è uno stile onirico, pieno di ombre, misteri e visioni, che presenta un filo conduttore composto da temi ricorrenti e a tratti ossessivi come il trascorrere del tempo, l’attesa, il vuoto, l’ansia di colmarlo, la solitudine che accomuna e divide l’umanità, l’illusione e la delusione. Ma al di là di questa varietà tematica in bilico perenne tra reale e fantastico, ciò che colpisce maggiormente è la naturalezza, la quotidianità dei luoghi e dei gesti: dove l’assurdo diviene realtà. Possiamo dunque affermare che l’atmosfera della prosa buzzatiana è lontana dagli estremismi perversi di quella kafkiana, anche perché è una prosa chiara, limpida che rende per così dire credibile l’incredibile”, al contrario di quanto avviene nello scrittore boemo.

Vorrei concludere questo breve confronto tra i due scrittori con un pensiero di Carlo Bo a proposito dell’ipoteca kafkiana su Buzzati:

Ebbene Kafka c’entrava poco con Buzzati, anzi non c’entrava affatto. Il riferimento non era che un nostro infelice tentativo per spiegare un’opera insolita nel quadro della nostra letteratura e, casomai, ci dispensava dal continuare lo scandaglio e l’approfondimento. In effetti per spiegare Buzzati era sufficiente l’idea dell’attesa, del mistero, l’idea che tutta la nostra vita è legata a qualcosa che sfugge alla luce e ai calcoli della piccola economia delle prime reazioni.

Perché Buzzati, come è scritto sul risvolto di copertina dei Sessanta Racconti che analizzeremo nel prossimo capitolo,

Avrebbe potuto scrivere quello che scrive, anche se non avesse mai letto né Poe, né Kafka, né Gogol, né Hamsun, perché ci guida, con limpido filo di canto, nelle favole eterne della vita, nel mondo della verità che noi tutti abbiamo conosciuto.

Questo brano è tratto dalla tesi:

I Sessanta racconti di Dino Buzzati, un viaggio tra simbolo e realtà

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Informazioni tesi

  Autore: Alessia Scaringi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Catania
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Lettere
  Relatore: Giuseppe Savoca
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 53

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