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La percezione del tempo: basi neurali e teorie cognitive

L'esperienza soggettiva del tempo nelle situazioni di pericolo

La prima descrizione dettagliata di questo fenomeno viene dal geologo Albert von St. Gallen Heim (citato in: Noyes e Kletti 1972), il quale annotò nell'annuario del club di alpinismo svizzero del 1892 come quasi il 93% degli scalatori che si fosse trovato in situazioni di reale pericolo avesse sperimentato un fenomeno di espansione del proprio tempo soggettivo e di accelerazione della propria velocità di ragionamento; in due ricerche successive (1976 e 1977) Noyes e Kletti confermarono sostanzialmente quanto dichiarato da Heim.
Stetson e colleghi (2007) hanno a tal proposito avanzato l'ipotesi che questi due effetti di espansione del tempo esteriore/accelerazione della propria capacità di ragionamento siano entrambi figli di una riduzione dei tempi di elaborazione del nostro cervello nei momenti di massima paura: per poter testare questa ipotesi era però necessario mettere i propri soggetti sperimentali in una situazione di pericolo mortale. Per questo motivo essi svilupparono un esperimento in cui si chiedeva ai soggetti di distinguere due stimoli che scorrevano su di un enorme quadrante ad una velocità talmente elevata da rendere questo compito impossibile: le condizioni in cui svolgere questo compito erano due, una “non spaventosa” (di normalità) ed una “spaventosa”, nella quale i soggetti venivano lasciati cadere dalla cima di un palazzo, sperimentando la caduta libera per 2,69 secondi prima di atterrare su di una rete. L'ipotesi era che se cadendo avessero sperimentato tale accelerazione della propria capacità di elaborazione dei dati, i soggetti avrebbero potuto discriminare i due stimoli, cosa che invece non furono in grado di fare. Secondo la Hammond (2012) questo proverebbe che l'elaboratore di informazioni stimerebbe la durata di un determinato arco di tempo in base al numero di ricordi, o meglio di eventi emotivi, registrati in esso, partendo dal presupposto che l'intervallo fra una registrazione e l'altra sia costante. In realtà situazioni di particolare agitazione determinerebbero un incremento del numero di registrazioni, determinando così l'impressione che il tempo passato sia superiore. Si tratta di una interpretazione convincente, ma occorre comunque notare come vi siano dei punti deboli in grado di invalidare l'esperimento di Stetson e colleghi: innanzitutto è ovvio che in situazioni di pericolo il cervello si concentri sulle sole caratteristiche dell'ambiente fondamentali per la sopravvivenza, motivo per cui la quantità di attenzione rivolta al compito potrebbe essere stata di molto minore rispetto a quella attesa. La maggior parte dei soggetti aveva inoltre visto gli altri cadere, dunque sapeva già cosa aspettarsi – il che violava la premessa per cui la situazione di pericolo, per essere veramente terrificante, sarebbe dovuta essere anche totalmente inaspettata (i più giovani infatti dichiararono di essersi divertiti un mondo, come fossero sulle montagne russe): coerentemente con questa interpretazione, studi in ospedale hanno dimostrato come l'effetto di dilatazione del tempo soggettivo non si verifichi nei malati terminali.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La percezione del tempo: basi neurali e teorie cognitive

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Informazioni tesi

  Autore: Stefano Gandino
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Scienze e tecniche psicologiche
  Relatore: Mauro Adenzato
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 51

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