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Il reclamo

L’ipotesi di reclamo ex art. 69, 6° comma pre-riforma e la sentenza costituzionale n. 341 del 2006

L’ultima ipotesi di reclamo contemplata dall’Ordinamento penitenziario è disciplinata nell’art. 69, sesto comma. Prima della recentissima riforma, operata con il decreto legge n. 146 del 2013, convertito nella legge 21 febbraio 2014 n.10, il dettato normativo stabiliva che “il Magistrato di Sorveglianza decidesse [decida] con ordinanza impugnabile solo per cassazione, secondo la procedura di cui all’art.14 ter, sui reclami presentati dai detenuti e dagli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti: a) l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa”.

Qui assume particolare rilievo la disposizione contenuta nella lettera a) della disposizione in esame, dal momento che la Consulta, con sentenza n. 341 del 2006, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale.
Occorre premettere che, sebbene fino al 1986 il Magistrato di Sorveglianza avesse competenza esclusiva a decidere sulle controversie in materia di lavoro, tale funzione veniva esercitata mediante i c.d. ordini di servizio, per mezzo dei quali si invitava l’Amministrazione penitenziaria a rimuovere le violazioni riscontrate nell’ambito dell’organizzazione del lavoro penitenziario. A ciò si aggiunga che il reclamo ex art. 69, VI comma era unanimemente ritenuto un rimedio “aggiuntivo” e non “sostitutivo”. Un rimedio, cioè, la cui esistenza non precludeva la possibilità di agire, in prima o in seconda battuta, dinanzi al giudice del lavoro. Dal 1986, invece, anche in materia lavorativa, in special modo per le controversie sorte tra detenuti-lavoratori e datore di lavoro (Amministrazione penitenziaria o soggetti terzi), ha trovato applicazione la procedura “giurisdizionalizzata” di cui all’art. 14 ter o.p. Tale estensione applicativa è stata considerata, dalla giurisprudenza ordinaria, un motivo idoneo a far ritenere superata la teoria dei rimedi “concorrenti”. Teoria che la Suprema Corte ha sposato e condiviso fino al 2006.

Tale orientamento si fondava sulle seguenti argomentazioni:
a) il procedimento regolato dall’art.14 ter o.p., al quale si deve fare ricorso per la trattazione delle questioni in tema di lavoro, garantisce il diritto di difesa e si conclude con un’ordinanza - impugnabile per cassazione - che ha, cionondimeno, natura di sentenza, per cui, il carattere giurisdizionale di tale procedimento non può essere messo in discussione;
b) l’art. 69, sesto comma o.p. individua con massima chiarezza il giudice competente a decidere sulle controversie in tema di lavoro in cui è parte un detenuto che, perciò, è da ritenersi senza dubbio il Magistrato di Sorveglianza;
c) l’obiezione in base alla quale si ritiene che il detenuto obbligato a rivolgersi al Magistrato di Sorveglianza goda di minori garanzie rispetto al lavoratore che fa valere i propri diritti davanti al giudice del lavoro, non può far giungere alla conclusione di un’irragionevole disparità di trattamento.
È di tutta evidenza, infatti, che non si possa ‹‹dimenticare le peculiarità del lavoro carcerario strettamente connesso e consequenziale all’espiazione della pena››.

Nel 2006, la pronuncia del Giudice delle Leggi ha operato un completo ribaltamento delle precedenti statuizioni in materia di competenza sulle controversie di lavoro in cui sia parte un detenuto in espiazione di pena. In particolare, il Magistrato di Sorveglianza di Pisa sollevò questione di legittimità costituzionale con specifico riferimento agli artt.3, 24, primo e secondo comma, 27,primo e terzo comma e 111 Cost, sostenendo che la competenza a decidere in materia di lavoro penitenziario spettasse all’ordinario giudice civile. Nell’accogliere pienamente la prospettazione della questione come argomentata dal giudice a quo, la Consulta provvide a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma lettera a). Per comprendere le motivazioni che hanno indotto la Corte costituzionale a pronunciare una sentenza di pieno accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dinanzi ad essa, è sufficiente ripercorre nella loro linearità le argomentazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno della propria richiesta.

Il Magistrato di Sorveglianza aveva, in primo luogo, sostenuto che le caratteristiche del procedimento di reclamo giurisdizionalizzato non fossero compatibili con le esigenze di difesa e di contraddittorio tipiche delle controversie di lavoro, poiché la procedura disciplinata dall’art.14 ter o.p. oltre a non prevedere la partecipazione diretta del detenuto, non concede neppure alla sua controparte, vale a dire all’Amministrazione penitenziaria o al suo difensore, di presenziare all’udienza. Attività difensiva che, di certo, non può svolgere il p.m., essendo lo stesso parte necessaria del procedimento. Risultava, quindi, palese la violazione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito ex art.24 Cost. Inoltre, l’Amministrazione penitenziaria avrebbe subito una duplice compromissione del proprio diritto, in virtù del fatto che solo per il detenuto - lavoratore si individuava espressamente il diritto a ricorrere in Cassazione avverso l’ordinanza del magistrato conclusiva del procedimento.

Da ciò derivava anche la violazione del principio dell’ égalités des armes sancito nel II comma dell’art.111 Cost. A ben vedere, tuttavia, la ragione che ha più di ogni altra convinto i giudici costituzionali ad accogliere la questione di legittimità costituzionale nei termini prospettati dal giudice a quo, risiede nel fatto che, nelle more del procedimento di reclamo dinanzi al Magistrato di Sorveglianza, il datore di lavoro del detenuto, in qualità di terzo, estraneo anche all’Amministrazione penitenziaria si trovava completamente estromesso dalla possibilità di partecipare, direttamente o indirettamente all’udienza camerale, senza alcuna possibilità, quindi, di poter far valere le proprie posizioni. Quest’ultimo, anzi, veniva a subire una compressione della propria posizione soggettiva giuridicamente meritevole di tutela per il solo fatto che parte del rapporto di lavoro controverso fosse un soggetto in espiazione di pena.

Tale questione, del resto, come sapientemente fatto notare dal giudice remittente, non avrebbe potuto essere risolta individuando nell’Amministrazione penitenziaria la controparte necessaria del datore di lavoro. A ritenere diversamente, infatti, tutti gli oneri nascenti dal rapporto lavorativo (compresi quelli retributivi e previdenziali), avrebbero dovuto essere riferiti alla stessa pubblica amministrazione, finendo essa per ricoprire un ruolo improprio di interposizione e garanzia.
Per di più determinandosi anche un’estensione della responsabilità surrogatoria ai casi di infortunio, malattia professionale oltre che al profilo penalistico della materia, incompatibile con il principio della personalità della responsabilità penale.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il reclamo

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Informazioni tesi

  Autore: Camilla Natale
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi di Teramo
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Rosita Del Coco
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 136

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Parole chiave

diritti dei detenuti
reclamo giurisdizionale
principio rieducativo della pena
art. 35 bis o.p.
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