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L'equilibrio di potenza europeo nel Settecento

Jean-Jacques Rousseau e l'equilibrio

Ho deciso di dedicare un paragrafo a parte al pensiero del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), uno dei più autorevoli quanto controversi componenti dell'Illuminismo europeo, in quanto notevolmente articolato e allo stesso tempo assai ambiguo. Già la sua collocazione socio-lavorativa lo rendono un personaggio atipico del mondo illuminista: figlio di un padre orologiaio e di una madre che non conobbe mai (morì di parto dando alla luce il suo secondo figlio, proprio Jean-Jacques), esercitò per diversi anni mestieri molto umili, tra cui il cameriere, l'incisore e l'insegnante di musica. I suoi rapporti con i più illustri esponenti dell'Illuminismo parigino, quali Montesquieu e Voltaire, non furono per niente idilliaci, anche a causa di questo "distacco" sociale ed economico esistente fra di loro (il barone «vantava 350 anni di comprovata nobiltà della sua famiglia» e per alcuni anni ricoprì la carica di presidente del parlamento di Bordeaux, mentre Voltaire era un'artista poliedrico, amante della mondanità e dei salotti aristocratici, sprezzante del «popolino»). La premessa di vita di Rousseau sembra dunque già concepire una personalità fuori dal comune, in un ambiente che non sente affatto suo; egli fu tuttavia in grado di influenzare pesantemente il panorama internazionale di ideologie e dottrine del secolo in corso e di quelli futuri. Molto brevemente, nell'opera che maggiormente viene ricordata tra quelle di Rousseau, Du contrat social (1762), egli oltrepassa i confini della speculazione lockeana e montesquiana, rimasta ferma al liberalismo politico e alla tripartizione dei poteri politici, arrivando a teorizzare il potere democratico del popolo, che dunque è sovrano. Tale potere sovrano e democratico del popolo veniva a costituirsi nel momento in cui gli individui si riunivano sotto una stessa volontà, la «volontà generale», attraverso un «contratto», che era condiviso e "sottoscritto" da una moltitudine di uomini, e che dunque si può definire «sociale». Quello del popolo è un potere «indivisibile», appartenente unicamente ad esso (altroché l'equilibrio dei poteri di Locke e Montesquie, le cui concezioni vengono così sorpassate), ed è dunque «non delegabile» e «inalienabile»; da ciò discende che il governo inglese non venga considerato affatto politicamente avanzato dal filosofo ginevrino, ed è anche in questo che sta il superamento delle concezioni ideologiche finallora elaborate dagli altri autori. Inoltre, poiché tale potere sovrano si esplica nell'azione del popolo, quest'ultimo deve poter vivere in un regime liberale, come quello repubblicano, e da questo punto di vista Rousseau rappresenta uno dei pochi intellettuali decisamente a favore degli Stati di piccola-media grandezza a regime repubblicano; egli infatti vede la Confederazione elvetica o le Provincie Unite o, ancora meglio, l'isola di Corsica, come gli Stati adatti nei quali si può sviluppare, nella maniera migliore, la «volontà generale» del popolo.

Nonostante l'importanza della precedente questione, in tale sede analizzerò più approfonditamente il pensiero del filosofo ginevrino, ambivalente e a volte quasi contraddittorio, riguardo l'equilibrio. L'«irregolarità» di Rousseau si desume proprio dall'analisi che egli conduce rispetto a tale ambito: da una parte, egli risulta a favore del principio dell'equilibrio, mentre dall'altra ne constata la difficoltosa, se non impossibile, attuazione nel contesto europeo. L'intero discorso inerente a tale problematica ruota tutt'intorno all'analisi dell'opera dell'Abate di Saint-Pierre, compiuta dal filosofo tra il 1758 e il 1761; essa viene discussa in due diversi lavori dell'autore, Giudizio sul progetto di Pace perpetua dell'abate di Saint-Pierre (1759) e Estratto del progetto di Pace perpetua dell'abate di Saint-Pierre (1761). Sostanzialmente, il filosofo ginevrino è un tenace sostenitore dell'idea che non può essere trovata, almeno allo stato attuale della realtà politica europea, un'alternativa significativa in sostituzione della teoria dell'equilibrio di potenza; in particolare, egli percepisce dell'esistenza di molti elementi in comune tra le potenze del Vecchio Continente, che sorreggono il sistema dell'equilibrio nel suo insieme, tanto che se esso «si rompesse da una parte, non tarderebbe a ristabilirsi da un'altra […]», e questo perché appunto «tutte le potenze europee formano tra di loro una sorta di sistema che le unisce attraverso la comune religione, il comune diritto delle genti, i costumi, la cultura, il commercio». Vi è dunque il ripetersi dell'idea della «Repubblica europea» di Voltaire, un sistema in grado di rendere l'equilibrio «un meccanismo autoregolantesi e perpetuantesi» nel tempo e che non lascia spazio al crescere di un'autorità dominante, come la tipica Monarchia Universalis:

«Ma che noi vi facciamo caso o no, questo contrappeso sussiste senza interposizione di una seconda persona e non ha bisogno di interventi estranei per mantenersi; […] così che se quei prìncipi che vengono accusati di aspirare a una monarchia universale vi hanno effettivamente sperato, essi hanno manifestato più ambizione che genio, perché come possono aver immaginato per sé quel progetto, senza percepirne subito il ridicolo?».

La predilezione verso gli Stati di piccola-media grandezza e soprattutto nei confronti delle repubbliche mostrata da Rousseau nel Contratto sociale si riflette anche nelle motivazioni che lo spingono a porsi a favore della dottrina dell'equilibrio; egli crede che tale sistema possa salvaguardare la sopravvivenza e la conservazione dei piccoli Stati europei:

«tutti i popoli hanno una specie di forza centrifuga per cui agiscono di continuo gli uni contro gli altri e tendono ad ingrandirsi a spese dei loro vicini. Così i deboli rischiano ben presto di essere inghiottiti e ci si può conservare solo con tutti in una specie di equilibrio che distribuisce la pressione in modo press'a poco uniforme».

La conformazione stessa dell'Europa, i princìpi condivisi tra le potenze, le similarità esistenti tra gli Stati, sono tutti fattori che contribuiscono a far dell'equilibrio un fondamento regolante le relazioni intereuropee in un clima di «tormentata stabilità», che comunque non permette mai di far sfociare situazioni di ribellione in «grandi rivoluzioni». In questo senso il filosofo ginevrino sarebbe stato disatteso dagli sconvolgimenti rivoluzionari francesi di fine Settecento; ma senz'altro la sua idea di equilibrio era, o quantomeno sembrava, positiva, seppur perché non avrebbe potuto appellarsi ad altre significative alternative, come da lui stesso affermato. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'equilibrio di potenza europeo nel Settecento

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Informazioni tesi

  Autore: Marco Masala
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze politiche e delle relazioni internazionali
  Relatore: ALBERTO AUBERT
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 143

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