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Il dibattito sulla convergenza e le riforme Hartz. Quali prospettive per la Soziale Marktwirtschaft?

Maastricht e l’Euro

La riunificazione non fu l’unico grande cambiamento che interessò la Germania negli anni ‘90, il 7 febbraio 1992 veniva, infatti, sottoscritto il trattato di Maastricht o Trattato sull’Unione Europea che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1 novembre 1993. Il trattato si proponeva: l’istituzione di un’unione economica e monetaria e di una moneta unica, una politica estera e di sicurezza comune che avrebbe dovuto condurre all’instaurazione di una politica di difesa comune, l’introduzione della cittadinanza dell’Unione, lo sviluppo di un’attiva collaborazione nel campo degli affari interni e della giustizia.
La creazione della moneta unica europea era stata già prospettata nel 1977 dall’allora presidente della commissione Roy Jenkins. Il 6 dicembre dell’anno successivo veniva stabilita la creazione del sistema monetario europeo (SME) che sarebbe entrato ufficialmente in vigore il 13 marzo del 1979. Ulteriori passi nella cooperazione in materia di politica economica e monetaria vennero sanciti nell’Atto Unico Europeo, firmato il 28 febbraio 1986. Le principali caratteristiche dell’attuale Unione Monetaria vennero, però, sancite nella nota Delors.


L’abbandono del DM e l’Unione monetaria
Il progetto di unione monetaria si sviluppò in tre fasi. La prima diventò attiva a partire dal 1990 e eliminò qualsiasi limitazione al movimento di capitali tra gli stati membri dell’Unione, allo stesso tempo le banche centrali dei vari paesi cominciarono a collaborare con l’obiettivo di ottenere la convergenza delle proprie politiche. La seconda entrò in vigore il 1 gennaio 1994 e contemplò la creazione dell’istituto monetario europeo il cui compito era il rafforzamento della cooperazione tra le banche centrali e la coordinazione delle politiche monetarie dei vari stati membri con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi. Nonostante la politica monetaria fosse ancora nelle mani dei vari stati nazionali l’autonomia decisionale di questi ultimi veniva ad essere sempre più limitata. I vari governi nazionali si impegnarono affinché il tasso di inflazione negli anni precedenti all’ingresso nella terza fase non superasse l’1,5% e gli interessi nominali di lungo periodo non fossero più alti del2 % di quelli dei tre paesi caratterizzati da un indice dei prezzi più stabili. La coordinazione delle politiche monetarie implicava il divieto alle banche centrali di poter offrire crediti agli organismi pubblici e la garanzia della loro totale indipendenza dai governi. Con l’introduzione della terza fase venne fissato il tasso di cambio fra le varie monete al fine di poter poi introdurre la moneta unica e la responsabilità per la politica monetaria venne trasferita dalle varie banche nazionali alla Banca Centrale Europea. La BCE ha il compito di definire e attuare la politica monetaria della Comunità, svolgere le operazioni sui cambi in linea con le disposizioni dell'articolo 109 del trattato, detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli stati membri, promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. Alla banca centrale europea e alle altre banche centrali è vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia a istituzioni o agli organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di settore pubblico o ad imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali. Obiettivo principale della BCE è il mantenimento della stabilità dei prezzi all’interno della comunità, a tale obiettivo possono essere anche sacrificati altre politiche economiche volte ad esempio a mantenere un alto livello occupazionale. I tassi di cambio fra le varie monete sono stati fissati definitivamente il 1 gennaio 1999 mentre l’Euro ha sostituito ufficialmente le altre monete a partire dal 1 gennaio 2002.

I dubbi sulla moneta unica
La decisione di entrare a far parte dell’unione monetaria e accettare in ultima analisi di abbandonare il DM non fu certamente una decisione facile da accettare in Germania. Era, infatti, diffuso il timore che la BCE non avrebbe goduto della completa indipendenza dal potere politico che aveva caratterizzato la storia della Bundesbank e che l’Unione Monetaria Europea non avrebbe garantito la necessaria stabilità monetaria. La stabilità del marco era considerata come uno dei fattori produttivi più importanti ed irrinunciabili per gli industriali tedeschi, esso rendeva più convenienti le importazioni di materie prime, un vantaggio non di poco conto per un paese fortemente dipendente dalle importazioni soprattutto nel campo energetico. Per la stessa ragione anche le altre importazioni diventavano convenienti fornendo ulteriori vantaggi ai produttori tedeschi sul mercato internazionale. Una moneta forte aveva fatto si che anche i prezzi per i consumatori restassero bassi.

Per il governo, nonostante il malumore diffuso nella popolazione, era prioritario procedere in contemporanea alla riunificazione su scala interna e all’unione su scala europea. Durante un discorso davanti al consiglio economico della CDU, l’allora cancelliere Kohl citando Adenauer sottolineò come i due processi fossero due facce della stessa medaglia. Pur riconoscendo le difficoltà insite nel processo di integrazione europea egli sottolineò come i progressi raggiunti dal paese negli ultimi trenta anni non sarebbero avvenuti senza la certezza di essere pienamente inseriti nella cornice comunitaria. Molto probabilmente l’enfasi posta nelle parole del cancelliere era frutto anche della necessità di rassicurare gli alleati europei, dopo la riunificazione bisognava dimostrare l’intenzione di voler proseguire nel processo di integrazione, ma la politica di Kohl venne appoggiata dall’intera coalizione di governo, fatte salve alcune eccezioni come quella di Edmund Stoiber segretario della CSU. Nonostante i costi insiti nel processo di unione economica e monetaria, per i leader politici tedeschi rinunciarvi si sarebbe rivelato molto più dannoso, come non sarebbe stato politicamente accettabile spostare i termini stabiliti per le varie fasi del processo. Non veniva, però, messo in secondo piano il problema relativo alla questione della convergenza fra le varie economie europee e ad una corretta valutazione dei tassi di cambio, sopravvalutare una moneta debole avrebbe significato un esborso per i cittadini dei paesi con una moneta più forte. La necessità di creare le condizioni per la creazione di uno sviluppo economico convergente diventava necessaria poiché l’alternativa ad un’economia di trasferimento sarebbe in quel caso stata la creazione di una comunità inflazionistica. Bisognava garantire che la nuova moneta fosse stabile come il DM, un’eventualità che secondo la CDU sarebbe stata garantita dai criteri di stabilità fissati nel Trattato di Maastricht. Di parere opposto era il consiglio della Bundesbank secondo cui tali norme sarebbero servite a poco senza un’effettiva armonizzazione delle politiche economiche e finanziarie, Maastricht rappresentava solo un inizio.

I costi legati all’introduzione dell’Euro sarebbero stati coperti dai numerosi vantaggi economici derivati dall’eliminazione dei costi per le operazioni di cambio, un fattore che assumeva particolare rilevanza per la Germania poiché il 70 % delle sue esportazioni come i due terzi dei suoi investimenti esteri erano diretti verso i paesi dell’Unione. L’introduzione della moneta unica avrebbe quindi avvantaggiato sia gli industriali che i banchieri privati. Nonostante ciò Horst Köhler presidente delle Deutschen Sparkassen- und Giroverbandes a partire dalla metà degli anni ‘90, spinse affinché non fossero sottovalutati i rischi insiti nel processo di unione monetaria. Contrariamente alle dichiarazioni dei politici bisognava innanzitutto ammettere alla fase finale del processo solo gli stati che avessero rispettato i criteri stabiliti a Maastricht e anche un eventuale spostamento del periodo di ingresso dei paesi nella fase finale del processo non sarebbe stato poi così deleterio.

La possibilità di posticipare la terza fase qualora un numero significativo di paesi non avesse raggiunto i criteri necessari era contemplata anche dai rappresentanti dell’unione degli industriali. Senza un’adeguata massa critica gli effetti positivi della nuova moneta sarebbero stati inficiati. La stessa Bundesbank metteva in guardia da facili ottimismi, nonostante il DM potesse fregiarsi di una valutazione molto alta restavano da risolvere numerosi problemi strutturali. La forza del marco risiedeva anche nella debolezza delle altre monete, nella fiducia nella capacità dell’economia tedesca e nella credibilità della sua politica monetaria. Una posizione questa che già era stata sostenuta dal governatore della Bundesbank Karl Otto Pöhl, poi dimissionario, che aveva dichiarato che un’unione senza convergenza sarebbe stata un disastro e che non bisognava far concessioni durante il processo di integrazione. Anche per due terzi della popolazione tedesca l’euro non sarebbe stato in grado di garantire la stessa stabilità del DM anche qualora tutti i paesi parte del processo si fossero impegnati a rispettare i criteri fissati a Maastricht. Mentre per i sindacati l’unione monetaria avrebbe minacciato anche lo stato sociale rendendone i costi insostenibili. La nuova moneta avrebbe reso il mercato del lavoro mobile quasi come quello del capitale rendendo molto più semplice la comparazione dei salari tra i vari paesi. Nei paesi con le retribuzioni più alte, come la Germania, a quel punto l’unica direzione possibile sarebbe stata l’abbassamento dei salari vista la possibilità per gli imprenditori di rivolgersi verso paesi in cui la moneta era la stessa ma il costo del lavoro era più basso. Come diretta conseguenza sarebbe aumentata la pressione sullo stato sociale, visto che sempre più cittadini tedeschi ne avrebbero avuto bisogno. Si temeva, inoltre, che si potesse sviluppare una forte immigrazione proveniente dai paesi con salari più bassi.

Il patto di stabilità e crescita e gli effetti negativi della moneta unica
Anche a fronte dei dubbi e delle critiche mosse al processo di unione monetaria il governo tedesco proseguì con decisione nella direzione segnata da Kohl con la ratifica del Trattato di Maastricht. Aumentò, però, la propria pressione all’interno delle istituzioni europee affinché i criteri stabiliti nel trattato venissero ampliati e venissero rafforzati i poteri di sanzione del Consiglio Europeo nei confronti degli stati che non avessero rispettato le norme. Le pressioni di Bonn spinsero all’adozione della Risoluzione del Consiglio europeo relativa al patto di stabilità e di crescita del 17 giugno 1997. Attraverso il patto, gli Stati membri s’impegnano a rispettare l'obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio attivo o vicino al pareggio, il rapporto deficit/PIL deve essere al di sotto del 3% e l’indebitamento pubblico non deve superare la quota del 60% del PIL. Paradossalmente la disciplina di bilancio imposta ai propri partner al fine di rinunciare al DM ha finito per minare la crescita e la stabilità dell’economia tedesca con una serie di regole che hanno ridotto il margine di manovra dello stato. Viene annullata qualsiasi possibilità di intervenire efficacemente sul tasso di interesse e sul tasso di cambio e resta solo una flebile possibilità d’azione nella gestione della spesa e del bilancio pubblico. Inoltre, in assenza di un vero budget comunitario la combinazione tra una politica monetaria unica gestita dalla BCE e diverse politiche nazionali per quanto riguarda la gestione del bilancio può rivelarsi efficace solo per la soluzione di crisi legate a fluttuazioni economiche ordinarie ma non è in grado di incidere su una depressione durevole.

Un paradosso che può essere meglio chiarito se si guarda alla strategia di sviluppo perseguita dal paese dopo la fine del secondo conflitto mondiale. La crescita si era giovata soprattutto dalla forte domanda estera a fronte di una domanda interna relativamente depressa. Una strategia già tracciata da Ludwig Erhard nel 1953 nel suo libro Deutschlands Rückkehr zum Weltmark (Il ritorno della Germania sul mercato mondiale). Secondo il padre della Soziale Marktwirtschaft bisognava concentrare tutte le forze economiche, sociali e politiche verso le esportazioni: solo così si poteva garantire la stabilità economica di lungo periodo del paese e la soluzione dei problemi sociali che si erano presentati dopo la guerra. Le esportazioni incidono per circa un terzo del PIL e interessano più della metà della produzione industriale, dati che mettono in luce l’eccezionale grado di apertura dell’economia del paese che anche nel 2006 è stato il maggior esportatore mondiale. Il rigore che aveva caratterizzato la politica monetaria veniva compensata con le esportazioni. Una strategia facilitata dalle politiche messe in atto dagli altri paesi europei che avevano preferito politiche monetarie espansionistiche che denotavano una competitività inferiore a quella tedesca. Questi paesi per poter entrare nell’euro hanno dovuto, però, invertire la rotta delle proprie politiche. Tale cambiamento è andato in un certo senso a scapito della Germania.

Un’ulteriore conseguenza è stata il progressivo allineamento dei tassi di interesse dei paesi della zona euro a quelli tedeschi. Prima della moneta unica chi chiedeva prestiti nelle altre divise doveva, infatti, pagare interessi più alti poiché c’era il timore che le altre monete potessero svalutarsi nei confronti del DM, chiedere prestiti nella divisa tedesca era più conveniente e favoriva di conseguenza anche gli investimenti nel paese. Con un tasso di inflazione tra i più bassi della zona euro la Germania si è trovata a far fronte al problema dell’aumento dei tassi di interesse reali (tasso di interesse nominale meno tasso di inflazione). Una situazione che potrebbe essere eventualmente migliorata praticando una politica fiscale espansiva che però viene impedita dai limiti imposti da Maastricht. L’Unione Monetaria ha fatto perdere alla Germania la maggioranza dei suoi vantaggi comparativi di ordini monetario nel momento in cui la sua strategia di crescita basata sul traino della domanda estera la rende più vulnerabile rispetto agli altri paesi europei.

Al fine di imporre il patto si stabilità e crescita il governo tedesco aveva dovuto far fronte alla fervente opposizione di numerosi stati europei, ciò nonostante la Germania già negli anni tra il 2002 e 2003 non è riuscita a rispettarne i limiti spingendo l’UE ad aprire una procedura nei suoi confronti. Il problema, a cui si è cercato di dare una soluzione attraverso l’aumento dell’imposizione fiscale, ha messo in evidenza i limiti imposti dall’Unione Monetaria alle politiche economiche del paese. A partire dagli anni ‘60 i vari governi avevano fatto fronte alle crisi che avevano interessato l’economia attraverso l’aumento della spesa pubblica, una situazione che aveva avuto effetti sia sull’imposizione fiscale che sul debito pubblico che anche a causa dei costi della riunificazione negli anni tra il 1990 e il 2003 è passato da 539 a 1 360 miliardi di Euro. La situazione è stata ulteriormente peggiorata dall’aumento dei costi dello stato sociale a causa dell’elevato numero di disoccupati e dei problemi legati alle pensioni.

Proprio nel campo delle politiche a sostegno dell’occupazione si sono dovuti registrare i maggiori cambiamenti di rotta rispetto ai decenni precedenti. I consistenti programmi di sostegno pubblico che avevano caratterizzato la prassi delle politiche pubbliche del paese sono state abbandonate. Dopo l’entrata in vigore dell’Unione Monetaria tali programmi devono, infatti, seguire le direttive presenti nei trattati al fine di garantire l’apertura del mercato del lavoro. Un ulteriore limite alla sfera di azione dei governi nazionali che devono far fronte anche a sempre più stringenti limiti di bilancio. L’ingresso dell’euro avrebbe, inoltre, reso più evidenti i limiti imposti all’economia tedesca dagli elevati salari. Uno svantaggio che prima della moneta unica poteva essere facilmente bilanciato dai bassi tassi di interesse e al vantaggio di servire il mercato più grande dell’intera unione. Secondo i sostenitori di riforme strutturali dell’intero sistema economico, attraverso salari e orari flessibili, l’Euro rappresenta, quindi, allo stesso tempo sia una chance che un rischio. Una chance poiché renderebbe palese la necessità di rendere il mercato del lavoro più flessibile nei paesi membri, la scarsa flessibilità sarebbe, infatti, la causa degli alti tassi di disoccupazione. La maggiore concorrenza tra i vari paesi entrati a far parte dell’unione economica aumenterebbe la pressione verso riforme strutturali e istituzionali. Qualora a tali pressioni i governi sarebbero tentati di rispondere attraverso misure protezionistiche quali ad esempio l’introduzione di standard minimi o attraverso sistemi di sostegno all’occupazione la moneta unica potrebbe avere effetti negativi e diventare addirittura deleteria. Al fine di sostenere l’occupazione e far fronte alla concorrenza si aumenterebbero gli interventi statali fino a spingere gli stati ad abbandonare la moneta unica e a fare passi indietro anche nel campo del mercato unico. Sotto accusa sono quei paesi che hanno scelto una politica delle riforme a piccole passi da cui è difficile aspettarsi una riduzione dei problemi strutturali nel mercato del lavoro. Mentre nei paesi che già negli anni ‘80 hanno cominciato il cammino delle riforme introducendo maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, tra cui l’Olanda e la Gran Bretagna gli effetti positivi sono già visibili.

L’agenda delle riforme dovrebbe contemplare l’aumento della flessibilità nel costo del lavoro, la riforma dei sussidi di disoccupazione e degli altri ammortizzatori sociali, dovrebbe essere introdotta maggiore flessibilità nell’orario di lavoro e le qualifiche e le competenze della forza lavoro dovrebbero essere ampliate.

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Informazioni tesi

  Autore: Felice Di Leo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2005-06
  Università: Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Pietro Masina
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 189

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