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L'integrazione dei disabili a scuola e nel lavoro nell'Italia repubblicana: un profilo storico-politico (1945-1992)

La situazione occupazionale dei disabili nelle prime tre Legislature

Per capire bene la situazione occupazionale dei disabili durante le prime tre Legislature della Repubblica Italiana, caratterizzate da un forte protagonismo della Democrazia Cristiana (che conta sull’appoggio di due grandi “alleati”: gli U.S.A. e la Chiesa) è utile capire il contesto sia economico, sia politico in cui il Paese si trova.

Dopo la seconda guerra mondiale, diventata Repubblica, l’Italia è in una situazione economica difficile, caratterizzata da una situazione critica per le industrie del nord e da una sottoccupazione riguardante tutto il meridione e le zone rurali, comprese le aree agricole del centro. Nonostante alcuni successi per la classe operaia e contadina per quanto riguarda il piano contrattuale, l’economia non cresce e gli imprenditori non sono propensi ad un rilancio degli investimenti.
Dopo una fase di forte depressione dal 1947 al 1950, l’economia sembra riprendersi, e l’Italia si trasforma in poco tempo da Paese agricolo a Paese industriale. Nel 1961 l’agricoltura e i servizi occupavano la stessa percentuale di popolazione (circa il 30%), mentre l’industria occupa il 40,6%. In particolare la crescita economica si concentra nell’area settentrionale del “triangolo industriale”, che porta anche ad una fortissima emigrazione della popolazione dal sud al nord (quasi due milioni di meridionali). La disoccupazione diminuisce sensibilmente nel giro di 10 anni, fino a toccare il livello più basso nel 1962, con soltanto il 3% della popolazione disoccupata. Crescono moltissimo le piccole aziende, in particolare nel settore dell’edilizia e del commercio (a discapito dell’agricoltura che perde milioni di lavoratori), e cresce la mobilità sociale in tutto il Paese.

Dal punto di vista politico sono anni caratterizzati in primis dal passaggio dalla monarchia alla repubblica. Infatti, dopo due Governi di “passaggio” (Governo Parri e Governo De Gasperi I), caratterizzati da una collaborazione quasi totale di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, si arriva al primo Governo ufficialmente repubblicano dopo il 2 giugno 1946, il Governo De Gasperi II, che vede all’interno della coalizione ancora il Partito Comunista Italiano. Continua la partecipazione alla maggioranza del PCI anche nel Governo successivo, che vede a capo ancora De Gasperi per la terza volta. Dal quarto Governo presieduto da De Gasperi in poi, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista non saranno mai più al Governo insieme.
Fino al 1953, per altre quattro volte, e per tutta la I Legislatura della Repubblica (maggio 1948- giugno 1953), De Gasperi è capo del Governo (V, VI e VII Governo De Gasperi), in coalizioni che vedono alleati della Democrazia Cristiana il Partito Socialista dei Lavoratori, il Partito Repubblicano Italiano e il Partito Liberale Italiano. La Democrazia Cristiana in questa Legislatura (la più lunga per durata della storia della Repubblica) parte con tre partiti alleati e perde prima l’appoggio dei Liberali, poi quello dei Socialdemocratici. L’ultimo Governo della Legislatura ha infatti un maggioranza dei soli Democristiani e Repubblicani.

La seconda legislatura (1953-1958) vede invece sei Presidenti del Consiglio diversi, in ordine: Alcide De Gasperi (per l’ottava e ultima volta, in un Governo di brevissima durata), Giuseppe Pella (Governo monocolore DC), Amintore Fanfani (anche in questo caso un Governo monocolore DC di brevissima durata, il più breve in assoluto nella storia della Repubblica), Mario Scelba (il cui Governo riesce a durare circa un anno e mezzo ritrovando l’appoggio del PSDI e del PLI), Antonio Segni (il più lungo della legislatura, con quasi due anni di durata, caduto nel maggio 1957 a causa della mancata fiducia da parte del PSDI) e Adone Zoli (Governo monocolore DC).

Si può affermare quindi che tutto il cuore degli anni cinquanta è caratterizzato da Governi diversi, ora costituiti da alleanze, ora sostenuti dalla sola Democrazia Cristiana, ma con il partito di centro protagonista assoluto delle maggioranze.
La terza Legislatura, invece, parte con il Governo Fanfani II, che vede la Democrazia Cristiana affiancata al Governo dai Socialdemocratici (e durante il quale viene istituito il Ministero della Sanità, nel 1958), prosegue con il Governo Segni II (monocolore DC), il Governo Tambroni (governo “provvisorio” di brevissima durata, anche questo monocolore DC, nato però con l’appoggio della destra) e si chiude con due Governi presieduti da Fanfani (rispettivamente il terzo e il quarto, quest’ultimo con l’appoggio dei Socialdemocratici e dei Repubblicani).

Anche questa legislatura è caratterizzata da una forte maggioranza di centro che vede alternarsi un’alleanza con i Socialdemocratici. Questo periodo porta successivamente (per cause dovute anche ad un calo della Democrazia Cristiana) alla nascita di Governi di Centrosinistra (con l’alleanza tra Democrazia Cristiana e Partito Socialista Italiano).

Come si è potuto notare, la legislazione relativa al lavoro per i disabili nelle prime tre legislature è molto frammentata, e, soprattutto, vede alcune categorie di disabili maggiormente tutelate rispetto ad altre soltanto perché alcuni riescono prima ad organizzarsi o a farsi rappresentare, con l’obiettivo principale di occupare aliquote di posti di lavoro nelle aziende. Le associazioni partite da una base volontaristica si ritrovano ad essere veri e propri enti burocratici anche con forti poteri e strutture clientelari. Inoltre, circa un terzo di questi organismi gestisce direttamente alcuni servizi sociali come assistenza sanitaria e riabilitativa, addestramento al lavoro, assistenza educative e , in parte, i laboratori protetti.
Questo modo di collocare e questa forte connotazione burocratica degli enti rappresentanti portano in questo periodo, e di conseguenza, anche successivamente, ad una continua insofferenza degli imprenditori e, in generale della percezione del disabile come un peso economico per la società. Questo è dimostrato anche dalle eccezioni di incostituzionalità presentate su parte della normativa sul collocamento obbligatorio degli invalidi di guerra e del lavoro.

Inoltre si crea in questo periodo un meccanismo poco limpido, proprio a causa della gestione del collocamento degli invalidi da parte degli enti rappresentanti, tanto che il collocamento obbligatorio non è più considerato materia delle politiche del lavoro. Le norme vigenti non producono uguaglianza di trattamento, ma è molto avvantaggiata da tutti i punti di vista la categoria degli invalidi di guerra rispetto alle altre. Aumentano sempre di più le figure professionali fatte apposta per l’inserimento di queste categorie, molto spesso nelle scuole, nei ministeri e nella sanità. Eppure si contano numerosi casi di inadempienze degli obblighi di assunzione tanto nelle imprese private quanto nella pubblica amministrazione.

Il collocamento ordinario si regge, a partire del 1948, sul concetto di controllo pubblico delle assunzioni (tramite gli uffici provinciali del lavoro), e sulla richiesta numerica come modalità di reclutamento della forza lavoro. Questo sistema molto rigido vale anche per i disabili, che hanno l’unica possibilità di scegliere se avvalersi o meno delle leggi speciali per gli invalidi. Nel secondo caso, possono iscriversi alle normali liste di disoccupazione previste dalla legge n. 264 del 1949, “Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati”.

Un altro aspetto che porta al suo interno anche il lavoro dei disabili è la facilità di licenziamento (in generale), che permette ai datori di lavoro di lasciare un dipendente senza “giusta causa”, introdotta solo nel 1966 con la legge n. 604 del 15 luglio “Norme sui licenziamenti individuali”. Questa legge obbliga il datore di lavoro che licenzia senza giusta causa alla riassunzione del lavoratore o comunque ad un risarcimento del danno. Restano però escluse da tale obbligo le aziende con meno di 35 dipendenti.
Altri fattori pesano in questo periodo sulla questione del lavoro per i “minorati fisici”. Un elemento importante che porta spesso all’inadempimento delle assunzioni da parte delle imprese private è la mancanza di sanzioni penali per gli inadempienti, che è colmata solo successivamente. Inoltre, nonostante la consapevolezza internazionale sempre più grande riguardo le capacità dei “minorati” nel poter operare bene sia in ambito industriale che artigianale, la percezione esterna (soprattutto da parte dei datori di lavoro, prima ancora che della società in generale) è che il “minorato” sia quasi sempre inabile a lavoro. Questo è dovuto anche e soprattutto all’inadeguatezza del sistema legislativo che regola il collocamento, perché non tiene conto delle attitudini personali del lavoratore, non offre assistenza tecnica all’impresa, ma si basa solo su elenchi e imposizioni.

Solo per la categoria degli invalidi di guerra c’è la possibilità di un “assegno di incollocamento” valido dall’entrata in vigore della legge n. 648 del 10 agosto 1950: “Riordinamento delle disposizioni sulle pensioni di guerra”. Nell’articolo 44 di tale legge viene disposto un assegno spettante al mutilato di guerra, in base all’età e alla categoria. Questo diritto è esteso alla categoria degli invalidi per servizio solo quindici anni dopo, tramite l’inserimento nella prima categoria degli aventi diritto, con la legge n. 488 del 23 aprile 1965, “Provvidenze per gli invalidi per servizio e per i loro congiunti”.

Per quanto riguarda gli anni del dopoguerra non è possibile ottenere risultati precisi inerenti al numero degli assunti nei ruoli speciali, a causa della mancata divisione nelle pubblicazioni tra le liste speciali e le liste ordinarie. Anche se non si hanno risultati esatti, è possibile stimare, tramite una pubblicazione dell’Opera Nazionale degli Invalidi di Guerra, che i collocamenti tra il 1952 e il 1956 sono circa 20.000 all’anno, quindi assolutamente non pochi, e per la maggior parte presso aziende private. Bisogna però considerare che, stando ai dati forniti dalla stessa fonte precedente molte di più sono le domande, che crescono da 50.000 circa nel 1952 a 90.000 circa nel 1956. Nello stesso periodo la cifra è molto più bassa per quanto riguarda gli invalidi del lavoro e per servizio, con circa 5000 persone assunte.

Solo per quanto riguarda la seconda metà degli anni cinquanta è possibile avere dati più esatti sulla popolazione disabile e sulla situazione occupazionale relativa alla categoria.
Stando ad un’indagine ISTAT del 1957 il numero degli invalidi permanenti (comprendenti tutte le categorie: invalidi fisici, sensoriali o mentali; e tutte le cause: guerra, lavoro e servizio) in Italia è di circa 620.000, poco più dell’1,2% dell’intera popolazione.
Un’indagine di poco successiva, relativa al 1959, ci mostra, invece, la popolazione invalida leggermente calata, con circa 580.000 individui, quasi l’1,2% della popolazione totale, che si aggira ormai sui 50 milioni di abitanti. Inoltre da questa indagine si nota come sia abbastanza uniforme la presenza di questa categoria su tutto il territorio nazionale, con una presenza più accentuata nelle Marche, in Emilia Romagna e in Sardegna. Man mano che si scende verso il meridione, invece, è sempre più presente la categoria dei ciechi e dei sordi.

Nonostante il 62% della popolazione disabile appena citata sia in età lavorativa alla fine degli anni cinquanta, solo il 10% del totale ha un’occupazione (meno del 3% della popolazione totale dei lavoratori in Italia), mentre i disabili in cerca di occupazione sono poco più del 6% della popolazione nella stessa condizione di disoccupazione.
Un altro dato importante è la grande differenza (già accennata in precedenza), di trattamento da parte del legislatore in base al tipo di handicap, che porta a dati occupazionali diversi tra le diverse categorie di disabili. Infatti si nota come i sordomuti e gli invalidi negli arti siano le categorie con un maggior numero di occupati, mentre i malati mentali e i ciechi siano le categorie speciali con il tasso più basso di occupazione. Altro dato da sottolineare è la bassissima presenza di invalidi di genere femminile, che pur rappresentando quasi la metà degli invalidi, costituisce solo l’11% degli invalidi occupati.

Tra i disabili occupati, invece, i quozienti di invalidità più alti si registrano nelle professioni “sedentarie” come tutta la grande categoria degli impiegati, per poi scendere nel settore del commercio, dei servizi, di custodia e vigilanza. Invece nel settore operaio e artigiano si registra anche una buona presenza di persone con invalidità soprattutto nel campo dell’abbigliamento e dell’arredamento. Un’altra buona fetta di occupazione per queste categorie è l’agricoltura, soprattutto e presumibilmente, in proprio.
Nonostante l’alto numero di disoccupati nella categoria speciale dei disabili lo Stato non offre loro grandi sostegni economici e assistenziali, per cui non esiste un forte incentivo all’assistenza. Al contrario, proprio l’indagine ISTAT del 1959 presa come riferimento, mostra e conferma che la disabilità non è incompatibile con il mondo del lavoro, che in tutti i suoi settori vede (ovviamente con percentuali diverse) la presenza della categoria, anche in ruoli dirigenziali. E’ quindi la legislazione che deve permettere un inserimento maggiore e più fluido dei disabili nel mondo del lavoro, investendo non solo nella rigida linea del collocamento obbligatorio, ma anche nella formazione professionale e nel mostrare attenzione alle attitudini personali del lavoratore disabile.
Questo è confermato anche dall’attivazione che l’Associazione Nazionale Invalidi Civili della Lombardia ha nei primi anni cinquanta per quanto riguarda il collocamento dei sui iscritti in aziende private. L’impegno mostrato dall’associazione risulta alto, tanto da portare a numerose assunzioni anche grazie alla “benevola comprensione di numerosi datori privati di lavoro”.

Il problema resta però fondamentalmente non risolto, a causa della forte disoccupazione nella categoria e della mancanza di leggi che dichiarino obbligatoria l’assunzione per molte categorie ancora completamente escluse in ambito di invalidità civile:

«Questo grave stato di disagio non può essere risolto che ottenendo la promulgazione di alcune provvidenze legislative per il collocamento obbligatorio dei mutilati e invalidi civili».

Infatti, tutti gli anni cinquanta sono caratterizzati da una visione della disabilità come malattia, e quasi del tutto assenti sono gli studi che riguardano l’inserimento lavorativo della categoria, nonostante ci siano invece numerosi progressi dal punto di vista medico e riabilitativo.

La riabilitazione, però, è considerata solo in funzione del recupero delle attività lese, e non in vista di un’occupazione lavorativa, contrariamente a quanto avviene all’estero già dagli anni quaranta. E’ sempre nel corso degli anni cinquanta che aumenta molto, dunque, l’attenzione verso le categorie di invalidi civili escluse. Nascono, inoltre, grazie a iniziative di famiglie con figli disabili, due associazioni, l’Associazione Italiana Assistenza Spastici (AIAS) e l’Associazione Nazionale Famiglie di Fanciulli Subnormali (ANFFAS).
La pressione verso le politiche di collocamento cresce, in modo da poter inglobare all’interno di diritti presenti già da tempo per alcune categorie (in primis gli invalidi di guerra), altre categorie molto numerose, da sempre escluse.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'integrazione dei disabili a scuola e nel lavoro nell'Italia repubblicana: un profilo storico-politico (1945-1992)

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Informazioni tesi

  Autore: Francesco Pelullo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Scienze pedagogiche
  Relatore: Alberto Preti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 157

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