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La negazione del sé tra buddhismo e neuroscienze

Considerazioni finali sulla negazione del sé nel Buddhismo

Questo parallelo tra Kant e il buddhismo offre l'occasione di tirare qualche conclusione rispetto alla dottrina dell’anātman. È stato sinora ricorrente il richiamo al filosofo di Königsberg per distinguere soprattutto tra un livello convenzionale e un livello sostanziale della realtà, o, in termini kantiani, tra fenomeno e noumeno. Tale parallelo ci è sembrato pregnante per descrivere come si possa parlare, anche nel buddhismo, di due livelli di verità; esso, per di più, aiuta a sottolineare come l'origine di una tale distinzione sia proprio il soggetto. È l' “io penso” che, con le sue categorie o le sue inevitabili convenzioni (per dirla sia con Kant sia con il Buddha), genera i fenomeni. Si pone però, a questo punto, un problema.

In Kant, parlare di un soggetto che genera il fenomeno non è affatto rischioso, poiché l'esistenza di tale soggetto non è mai in discussione; per Kant, un sé, esiste ed è, anzi, la condizione a priori perché sia possibile ogni forma di esperienza. Diversa è la situazione per il buddhismo, dove un io, in realtà, è ritenuto non esistente. Sorgono, di conseguenza, numerose domande: come può esserci una dimensione convenzionale se non c'è un io che la genera? Come può esserci un piano fenomenico se partiamo dal presupposto che non esiste quel soggetto che dovrebbe causare l'alterazione, attraverso le proprie facoltà, del sostrato noumenico? Si rischia di entrare in un circolo vizioso in cui il soggetto è una convenzione e la convenzione è determinata tra soggetti. Se parliamo di vacuità, nel senso mādhyamika del termine, ogni cosa è priva di realtà intrinseca.

Come può, qualcosa che è senza realtà intrinseca, generare a se stessa la percezione soggettiva di un soggetto? Bisogna spiegare come sorga il livello convenzionale dal noumeno se quest'ultimo è vacuo e dunque privo del soggetto che dovrebbe causare l'insorgenza del piano fenomenico.
Forse è proprio il parallelismo con Kant che, portato alle estreme conseguenze, ha dei limiti e rischia di creare confusione piuttosto che chiarezza. In fondo Kant argomenta dalla prospettiva di una filosofia in cui un soggetto esiste; ci possono essere molti margini per un'analogia, ma non la si può certo spingere alle conseguenze ultime. Per Kant, come detto, la distinzione tra convenzionale e sostanziale è generata dal soggetto, che può conoscersi solo come fenomeno (individuato).

Nel buddhismo, a livello noumenico non c'è nessun soggetto, bensì, almeno nel Madhyamaka, questo sorge contestualmente e in maniera evidentemente inevitabile dalla dimensione della vacuità universale. In una sorta di caos vacuo, una determinata configurazione o combinazione noumenica avviene che si traduca nell'apparizione a se stesso del fenomeno dell'io e, di conseguenza, nell'apparizione anche di un mondo. Dalla vacuità prende forma un io. Questa è un'apparizione di cui non si può non tenere conto e, almeno a un certo livello, l'io che si genera è reale. Non si può negare esistano esperienze soggettive o percezioni personali della realtà; ciò che il buddhismo vuole far notare è, piuttosto, che questa sensazione di sé è apparente, sorge da un caos noumenico originario e a esso è necessario tornare se ci si vuole liberare dalla sofferenza. Bisogna riconoscere l'evanescenza e la vacuità del fenomeno della soggettività perché si possa raggiungere il nirvāṇa.

L'io è soltanto un'incidentalità ricorrente della realtà noumenica; ciò che il buddhismo fa, pur senza sapere (e volere) spiegare come ciò avvenga, è registrare l'apparire della soggettività a partire dal sostrato indistinto. Quest'io è senza un particolare senso o valore intrinseco, tuttavia ha il difetto di attribuirselo e di esperire la propria vita come dotata di significato. Pertanto, genera a se stesso dispiacere quando non riesce a dare compimento a tale senso nella propria vita; soffre perché è strutturalmente impossibilitato a soddisfarsi o a soddisfare i propri desideri. Esso ha una percezione distorta di sé, che il buddhismo definisce ignoranza e che conduce, passando per le tappe di brama e attaccamento, alla sofferenza. Perciò, il senso soteriologico degli insegnamenti del Buddha coincide con la missione di riportare il sé alla sua giusta dimensione: quella della vacuità noumenica indistinta, o, in termini buddhisti, del nirvāṇa. In tale stato si riconosce l'assenza di valore e senso nel sé, comprendendo come esso sia un fenomeno solo convenzionalmente reale e rapportandosi al proprio io di conseguenza.

Dunque, se in Kant il piano fenomenico compare grazie al soggetto che esperisce il noumeno, nel buddhismo, il soggetto consapevole di sé sorge solo accidentalmente dal noumeno. Si potrebbe forse sostenere, nel caso buddhista, che è un'imprecisabile e casuale configurazione del caos vacuo a favorire l'apparizione dell'errata impressione, a livello convenzionale, di essere un io. Questa casualità ed erroneità della comparsa del sé non si registra invece in Kant, per il quale il fenomeno dell'io è anzi il prerequisito gnoseologico stesso per poter distinguere il piano noumenico da quello fenomenico.

È leggibile, in maniera piuttosto chiara, anche la differenza di intenti che muove i due pensieri: mentre per Kant porre una distinzione tra due livelli della realtà ha un senso gnoseologico, legato alla teoria della conoscenza, per il buddhismo ha un puro senso soteriologico. Ecco che, dunque, nessuna delle due dottrine si interessa dell'aspetto ontologico; in effetti, entrambe si dichiarano scettiche rispetto alla possibilità di avere una conoscenza della verità della realtà; per Kant è semplicemente impossibile conoscere la verità noumenica, per il buddhismo, oltre che impossibile, non è nemmeno interessante. L'unica cosa che il Buddha registra è l'esistenza di un errore, ovvero l'errata concezione soggettiva della propria esistenza; questa va eliminata e l'eventuale discussione ontologica (che può anche avere un esito scettico, come nel caso del Madhyamaka) è solo propedeutica a tale fine.

Per chiudere, dunque, si cerca ora di rispondere alla domanda posta inizialmente: ovvero, come potesse esserci nel buddhismo una realtà convenzionale se, secondo la dottrina dell’anātman, non c'è un individuo che la generi. Il soggetto compare sorgendo da una dimensione di vacuità universale come fraintendimento di sé stesso, finendo per soffrire. Sul piano sostanziale dunque non esiste, ma avviene che, per cause inconoscibili ± che dunque non ha senso approfondire ± a livello convenzionale l'io si ritenga un sé. Così soffre e ottiene poi vicendevoli conferme della propria esistenza dagli altri io che lo circondano e concordano nell'errore; ciò avviene sul piano della convenzione sociale, a mezzo del linguaggio o dell'abitudine culturale. Questo rafforza la sensazione di un io, che può maturare e fortificarsi, rendendo però maggiore anche la sofferenza.

La teoria della conoscenza kantiana potrebbe eventualmente entrare in gioco solo a questo punto, come descrizione del processo conoscitivo che il soggetto "realista ingenuo" mette in atto, applicando le proprie categorie conoscitive al resto del noumeno che si trova dinanzi, finendo per chiamarlo mondo.

Dunque, l'apparente circolo in cui eravamo entrati era figlio di un'estensione sul piano ontologico della dottrina gnoseologica kantiana, che veniva poi messa a confronto con la teoria ontologica buddhista. Le due sono compatibili, ma è necessario che ognuna rimanga entro il proprio ambito e che quindi il parallelismo tra le due sia tenuto entro i dovuti limiti della teoria del non-sé.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La negazione del sé tra buddhismo e neuroscienze

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Informazioni tesi

  Autore: Alessio Dossi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze filosofiche
  Relatore: Giuliano Boccali
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 169

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Parole chiave

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