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L’importanza di rimanere padri in carcere: come sostenere e tutelare la relazione padre-figlio durante la detenzione

Genitorialità atipiche: il padre detenuto

Dopo aver analizzato l'insieme di elementi e caratteristiche che sono costitutive dell'identità genitoriale e i diversi aspetti in cui si esprime la genitorialità, dobbiamo osservare come la detenzione minacci o addirittura distrugga la capacità di essere e fare i genitori.

A volte è necessario che i genitori detenuti vengano sostenuti nel proprio ruolo. Quando questo non accade, possono presentarsi vari disturbi che devono, per quanto possibile, essere neutralizzati.
Una delle prime difficoltà riscontrata da questi padri, come ben evidenzia Bouregba (2011), è quella derivante dal confronto con il giudizio sociale, che varia a seconda delle culture. Difficilmente si crede che un detenuto possa essere un buon genitore: la società si chiede che cosa possa offrire ai figli colui che non riesce neanche a scegliere tra bene e male.

In un’ottica riduzionistica, si semplifica la persona del detenuto assimilandola al reato commesso. “I padri detenuti sono, nell'immaginario collettivo, totalmente squalificati per il fatto che non rispettano le norme di comportamento generale”(Bouregba, 2005, pag. 98). La persona viene identificata con il crimine commesso, e ogni possibilità di recupero viene eliminata.“I genitori detenuti hanno una rappresentazione negativa e si sentono squalificati dallo sguardo sociale. Non viviamo in un paese eugenista, certo, ma abbiamo sempre pensato che non tutti gli esseri umani dovessero avere figli, non osiamo dirlo ma lo si pensa, è un'idea culturalmente forte” (Bouregba, 2005, pag. 59). L'immagine della figura genitoriale odierna squalifica i detenuti: questa squalifica, come una profezia che si autoadempie, fa sì che i detenuti si credano e agiscano da genitori di secondo livello, tanto da fare fatica a ritenersi genitori credibili.

Un impatto evidente della carcerazione sulla genitorialità è dato dal taglio netto dei processi inter-soggettivi. Come abbiamo detto, il padre diventa tale quando adatta il suo comportamento a ciò che la madre richiede e valorizza, ma, se la madre è assente, tutto resta sospeso: il ruolo del padre non trova nel figlio la legittimazione necessaria. Questo ci mostra quanto è necessario incoraggiare la possibilità di incontro tra padre e figlio. Se ciò non avviene, viene compromessa la capacità del padre di restare padre: è dimostrato che se nei primi sei mesi di detenzione il reo non mantiene i rapporti con i figli, difficilmente avrà la possibilità di recuperare successivamente (Bouregba, 2011).

Nel tempo, il cambiamento della funzione paterna ha fatto sì che generazioni di padri si trovassero spaesati, senza capire che funzione esercitare e vivendo in funzione di quanto stabilito della madre che prendeva tutte le decisioni. Molti dei detenuti hanno vissuto situazioni in cui lo stesso padre era in detenzione o assente, e si trovano quindi a esercitare il ruolo di padre senza avere avuto un’educazione dal proprio. Mancano di esperienze cui riferirsi, o, se le hanno, spesso sono negative.
Uno dei tanti problemi che affrontano i padri detenuti è quello di non sapere se assumere o meno un ruolo autoritario. ”Per un detenuto dimostrare autorità, dare al proprio figlio delle regole, delle leggi da rispettare è complicato, teme di non essere credibile” (Bouregba, 2005, pag. 102). In molte situazioni di detenzione, i padri aspettano che sia la compagna a dar loro una posizione rispetto al figlio, perché da soli non sanno quale assumere.

La madre detenuta viene delegittimata dal suo ruolo materno, mentre il padre viene “spogliato” del proprio ruolo. I padri, secondo Bouregba (2011), si sentono totalmente illegittimati, sono più intimamente convinti di non avere un posto. Questa sensazione porta spesso alla ribellione e a pulsioni dispotiche. Non sapendo come legittimarsi, utilizzano infatti l'obbedienza: che al padre si debba obbedire è una delle poche norme che viene tramandata da sempre e va a rivestire, per chi non ha altre esperienze, l'unica direttiva da seguire. La sensazione di essere il più forte nella famiglia allevia il senso di inadeguatezza a rivestire un ruolo che appare ai detenuti “illegittimo”. Il dispotismo esprime in realtà un'impotenza, e ci fa capire come si assuma il ruolo di despota perché non si sa quale altro senso dare al proprio essere padri. L'unica norma trasmessa da secoli è che al padre si deve obbedire. Alcuni padri detenuti iniziano così a pretendere obbedienza, attenzione, etca esigere sempre più ascolto e rispetto: a volte i sistemi familiari si sottomettono per un po' di tempo, per poi scoppiare. Madre e figli esasperati interrompono i contatti, e il nucleo familiare si rompe (Bouregba, 2005).

Un'altra modalità tipica dei detenuti è quella di cercare il proprio ruolo rivolgendosi alla compagna, dalla quale attendono una conferma della propria paternità. Se però tale conferma non arriva perché il legame con la compagna si incrina, in molti casi si rinuncia a essere padri.
Alle due difficoltà evidenziate se ne aggiunge una terza, più sottile perché inconscia: il gioco delle identificazioni proiettive. Il bambino durante la crescita solitamente si identifica con il padre se è maschio, e con la madre se è femmina: i genitori rappresentano quindi delle figure di identificazione. Allo stesso tempo, però, anche il genitore si identifica con il figlio: parliamo qui di identificazione proiettiva. Il genitore vede e trova nel bambino ciò che voleva essere lui stesso: il genitore prolunga se stesso nel figlio, proietta la sua ombra su quella del bambino. Abbiamo visto che avere un figlio soddisfa un'esigenza narcisistica, riempie una mancanza avvertita: “Le identificazioni sono necessarie per il bambino perché ciò gli permette di definire un obiettivo verso cui tendere e questo significa avere un senso, un significato. Il genitore è portatore di un significato che assegna al bambino” (Bouregba, 2005, pag. 103). Questo processo, descritto da Bouregba (2005), prende il nome di “assoggettamento”.

L'apporto dei genitori al processo di crescita del bambino è ampiamente in funzione di questa identificazione proiettiva. Nessun figlio deve però essere il duplicato dei genitori.
Il padre, contemporaneamente alla funzione di modello che svolge per i figli, proietta se stesso su di loro; in modo particolare influenza la figlia, sposta su di lei l'immagine che ha in sé della donna che sarebbe stato se fosse nato donna. Tutti portiamo dentro di noi la rappresentazione inconscia di ciò che saremmo stati se fossimo stati dell'altro sesso. Spesso vediamo che il padre influenza molto di più la figlia e la madre il figlio, perché la relazione che hanno è una relazione che si basa su un'identità idealizzata. Come spiega Bouregba(2005), questo avviene perché la donna ha un'immagine idealizzata dell'essere uomo e viceversa: questa forma idealizzata agisce sul bambino come un ruolo da assumere e verso cui tendere. Si rafforza così nel bambino la voglia di assomigliare alla figura “mitizzata”.

Tale meccanismo, che opera a livello inconscio, è sempre presente: i genitori proiettano sul figlio ciò che avrebbero voluto essere, e queste identificazioni sono necessarie per lo sviluppo del bambino.
Parallelamente, si sviluppa una serie di processi di alterità, che analizzeremo in seguito più approfonditamente, ma che sono necessari per far acquisire il senso di identità al bambino.
In che cosa questo processo subisca una modificazione durante la detenzione merita attenzione. Per effetto dell'allontanamento, questi meccanismi vanno a creare “un'ipertrofia di queste identificazioni proiettive, un genitore che non sa trovare un suo posto rispetto al figlio avrà la tendenza a ridurlo un suo doppio e in più idealizzato”(Bourgeba, 2005, pag. 106). In molti casi si verifica la situazione per cui il padre fa diventare genitore il proprio figlio, cercando di trovare comprensione nel figlio stesso e dando spiegazioni. Il disagio del genitore viene avvertito dal figlio, ma è per lui insopportabile, e per questo cerca di allontanarsene.

Un altro grande problema di questo meccanismo proiettivo è che, se si proietta sul bambino una parte di sé in modo troppo invadente, si rischia di rendere il bambino una copia di se stessi, con stesse colpe, stesse possibilità di scelta e stesso destino. Così facendo, si priva il bambino di qualsiasi libertà di scelta e di autodeterminazione: sembra quasi che il bambino possa solo ripercorrere le orme del padre.

La situazione del padre inizia a essere raccontata al figlio utilizzando il “noi”: “stanno tramando contro di noi”, “la società ci vuole male, ci punisce”. Il bambino, in questa situazione, identificandosi con il padre, si riduce lui stesso a vittima. Perde un po' della sua libertà e si sente legato a una storia che non è la sua, e che molte volte, come spiega Bouregba, conosce solo in modo distorto. Quando il padre si sente vittima, sta implicitamente dando la colpa della propria situazione e detenzione a terzi e non a un comportamento illecito, a un atto criminoso da lui commesso. Questo processo fa sì che il detenuto, rinnegando la propria libertà di scelta e di azione, si senta meno responsabile: così facendo, però, contamina con questo sentimento anche il figlio. Potremmo dire che, rendendolo vittima, abdica per lui a qualsiasi spazio di libertà. Rompere il “noi” di cui abbiamo parlato diventa necessario. Per i detenuti questo è molto difficile: non riuscendo a trovare legittimazione del proprio ruolo, tendono ad aggrapparsi al bambino e a formare con lui un legame simbiotico.

Come sostiene Bouregba (2005), più questo accade più il figlio è contaminato da un sentimento vittimistico. Appena il bambino percepisce questo schema inceppato di relazione, tenderà ad allontanare il padre, vivendo inconsciamente questo rapporto come infelice e ansiogeno. Fondamentale è allora evitare questo allontanamento, aiutando il padre a riconoscere il figlio come altro da lui, con un proprio destino ancora da decidere.

A questo scopo sono stati utili, come dimostra lo stesso Bouregba, gruppi di auto-mutuo-aiuto tra padri reclusi. In questi spazi, i padri compensano la mancanza che avvertono nella propria paternità confrontandosi con dei pari che vivono la stessa situazione. “Questo supporto degli alter ego permette spesso una condivisione sufficiente affinché si rinforzi la legittimità di padre che consenta al recluso di staccarsi dal bambino”: solo così si potrà rompere il meccanismo inceppato (Bouregba, 2005, pag. 107).
Su tutti i piani che fondano la genitorialità, la detenzione comporta ostacoli e minacce: ecco perché i genitori devono essere aiutati a essere tali in maniera adeguata, perseguendo ciò che è bene per i propri figli.

Bisogna superare l'idea che la detenzione sia uno status permanente. Parliamo di “genitori detenuti” e non di “detenuti genitori”. Va fatta molta attenzione a non confondere un ruolo permanente con una qualifica temporanea. Ma essere genitori in carcere non è facile: per questo andrebbero pensati percorsi di sostegno e implementate strategie atte a mantenere il rapporto con i figli.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L’importanza di rimanere padri in carcere: come sostenere e tutelare la relazione padre-figlio durante la detenzione

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Informazioni tesi

  Autore: Ilaria Quaranta
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Servizio sociale
  Relatore: Anna Zunino
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 115

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