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Il silenzio della pubblicità. Sacralizzazione e desacralizzazione delle immagini pubblicitarie.

Le reclamés di oggi: tra naturalismo e artificiosità

Le nostre precedenti riflessioni sull’icona, intesa non solo in senso materiale di immagine pubblicitaria, ma anche in senso figurato di innalzamento sacrale del prodotto, ci fa considerare un nuovo aspetto, confrontando le reclamés di un tempo e le moderne tecniche espositive. A nostro avviso, si tratterà di un parallelo che dovrà essere effettuato non tanto dal punto di vista formale, ma piuttosto rilevando punti interessanti dal punto di vista filosofico per la pubblicità.

Decidiamo di iniziare il nostro percorso con un artista che è passato alla storia per aver elaborato illustrazioni per le reclamés francesi: H. Toulouse-Lautrec. La sua creatività si è espressa in un linguaggio talmente particolare da attrarre l’attenzione della società dell’epoca. Toulouse nasce, anzitutto, da artista di rappresentazioni pittoriche che realizzava autonomamente dal panorama pubblicitario. Era l’incarnazione dell’arte per l’arte. O addirittura per un’arte dell’illustrazione. La sua capacità percettiva era legata ad uno sguardo analitico cui non sfuggiva alcun particolare dei personaggi rappresentati: l’immagine colta nella sua mente veniva tradotta in termini visivi sulla tela, rispettando tutto il suo crudo naturalismo.

Oggetto di rappresentazione pittorico era costituito da un mondo ambivalente: da un lato l’indigenza di una Montmartre proletaria, come testimonia “A la Mie”, dall’altro l’opulenza e la sfarzosità del Moulin Rouge ispirato ad una mitologia dandy. I suoi manifesti pubblicitari avevano un ruolo mnemonico: ricordavano l’appuntamento ad un dato locale, senza suggestioni di varia natura. Il quadro prima accennato “A la Mie”, che vuol dire “Alla mollica”, ma che è basato sul gioco di parole con la stessa pronuncia di “à l’amie”, cioè “all’amica”, e che pubblicizza il locale con il medesimo nome del dipinto, è marcato di un estremo naturalismo.

Complici la “pennellata sciatta e lo squallore espresso dai volti esposti. Hanno un’espressione immobile, come se davvero essi rimanessero così per l’eternità, sono reali, ed infatti, l’esistenza di queste persone è reale, documentata da una foto che appartiene a queste stesse fisionomie. I loro volti esprimono un silenzio, ma è un silenzio coatto, forzato, vero, palpabile dal nostro senso interiore. E’ il silenzio indegno del proletariato cui dà spazio l’estrema capacità rappresentativa di Lautrec.

La contraddizione che esponevamo prima tra i livelli di rappresentazione rivela la passione dell’artista per l’eterogeneità, e soprattutto la consapevolezza di essere davvero di fronte ad una dimensione multivariegata con i suoi lati brillanti, e con altri oscuri. Montmartre era vista come un intreccio di emozioni e di interessi economici, di modelli politici e ideologici diversi; mentre i caffè-concerto, i circhi stabili, i cabaret davano forma a quella Belle Epoque vissuta come mito.

La caratteristica più rilevante che vorremmo evidenziare in Lautrec è il suo occhio onesto di chi è consapevole dell’instabilità del mito del dandy che si ostina a raffigurare, ma che nasconde l’estrema precarietà dell’altro mondo, quello del proletariato francese. L’epoca in cui viveva Lautrec era forse un’epoca già stanca dei simbolismi impressionisti: lo sfogo dell’individualità aveva dato come risultato un’estrema simbolizzazione, quella che nasconde poi la vera realtà delle cose e che diventa piuttosto effimera e inutile. E anche, lo abbiamo visto, mistificatoria. Pertanto le reclames di Toulouse non nascondevano nulla del campo visivo in cui egli piantava il suo cavalletto.

Questo non vuol dire che il simbolo scompare, anzi, al contrario, l’artista sembra realizzarlo soprattutto ai fini comunicativi. Le sue pennellate abbiamo detto essere intrise di un profondo naturalismo, che si esplica però in rappresentazioni tipizzanti, come i celebri ritratti di Yvette Guilbert, una delle attrici più particolari della scena francese di fine Ottocento, che decise di creare il suo personaggio su alcune differenziazioni fisiche e stilistiche che la distinguevano dal “bello” standard.

Al contrario delle attrici di quel tempo, lei sottolineò le labbra in modo da far esaltare il sorriso, indossava sempre un paio di lunghi guanti neri e un vestito lineare, senza ornamenti. La semplicità dei suoi tratti, l’essenzialità del suo stile vennero rappresentate da Lautrec per i locali parigini, così che la sua immagine fece il giro del mondo. Le caratterizzazioni dell’attrice apparvero all’artista fortemente comunicative per il locale, incarnavano il tipo psicologico di Yvette. L’efficacia del segno psicologico e le caratterizzazioni incisive colpivano lo spettatore grazie a quelle immagini sintomatiche e sintetiche della serata e dell’ambientazione a cui erano invitati.

Ecco il filo conduttore tra l’odierna pubblicità e l’eccellente spirito precursore di Lautrec. L’elaborazione del tipo, di questi personaggi codificati sono gli stereotipi dell’epoca, che l’artista però riprende comunque dalle scene teatrali e artistiche, la sua artificiosità è semplicemente ritratta, esposta nel suo sfacciato naturalismo. Non si può dire la stessa cosa nei reclames attuali. Ironizziamo denominandoli allo stesso modo, nonostante questi, in realtà, non siano illustrazioni del prodotto pubblicizzato.

L’immagine iconica attuale, al contrario, rivela un abbandono dell’illustrazione. Questa spiegava il testo, era un sussidio alla parola e non, come oggi, la sua reazione vicariante. Per quanto icona, essa potrà esistere anche autonomamente, e pure laddove il testo è presente, ci sembra quasi che non abbia una sua vita propria, ma che sia presente solo come accessorio dell’immagine. Oggi è il testo ad illustrare, o nei casi migliori, ad ancorare, l’immagine. L’icona specifica aspira a divenire icona di gruppo, per questo utilizza stereotipi, simbolismi da esposizione; la reclames di Lautrec si limitava invece allo stereotipo, senza falsi inganni, e senza marcate bramosie.

Erano già situazioni tipizzate, che all’individuo spettatore giungevano senza novità. Al contrario, i tipi psicologici delle odierne pubblicità attingono caratteristiche veritiere, ma la maggior parte delle volte sono precursori di modi di dire e di fare del tutto nuovi che prontamente influenzano la nostra quotidianità.

Così, “invece di presentare un tesi o una prospettiva personale, offre un sistema di vita che è o per tutti o per nessuno”, diceva McLuhan, evidenziando il ruolo da icona di gruppo della pubblicità. La tribalizzazione, e la successiva profanazione del sacro è ancora in noi, come il gioco per i bambini: da adulti fingiamo di non riconoscerci più in sollazzi che crediamo solo infantili, ma poi ci ritroviamo in tante altre situazioni giocose in cui addirittura un bambino si sarebbe comportato in modo più maturo.
Crediamo che allo stesso modo la pubblicità e le arti odierne consacrino la propria artificiosità, in virtù di un falso naturalismo, e che questo abbia il potere di confonderci alquanto le idee e di ipnotizzare le nostre decisioni comportamentali.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il silenzio della pubblicità. Sacralizzazione e desacralizzazione delle immagini pubblicitarie.

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Informazioni tesi

  Autore: Laura Orsolini
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2004-05
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Filosofia e teoria dei linguaggi
  Relatore: Marcello La Matina
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 129

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