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"Fantasie in stile enigmatico": esperienze e idee del giornalista Ippolito Nievo (1852-1861)

Nievo scrittore e giornalista: censure e sotterfugi

Nievo scrittore nasce giornalista. I suoi primi scritti letterari sono le poesie delle raccolte di Versi stampate dall’editore udinese Vendrame nel 1854 e nell’anno successivo. Le stesse poesie furono però pubblicate dall’autore per la prima volta a puntate sulle colonne dell’«Alchimista friulano», a partire dal novembre del 1853; e l’edizione in volume fu la ricompensa per la collaborazione prestata al giornale.

Il legame tra attività letteraria di Nievo e stampa periodica è dunque immediato, e non verrà mai meno: tutte le novelle e buona parte delle poesie e dei romanzi pubblicati vivente l’autore vedono la luce sulle pagine dei giornali dell’epoca. E molte di queste opere trovano la prima collocazione in volume presso i medesimi editori dei giornali: è questo il caso proprio dei Versi, che la tipografia Vendrame, la stessa editrice del settimanale udinese, pubblicò poi in due libri; del saggio Studii sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, che ne condivise la sorte; della novella La Santa di Arra, che dopo essere comparsa a puntate sul «Caffè» uscì per i tipi dell’editore Carrara di Milano nella «Biblioteca del Caffè»; e del canzoniere delle Lucciole, edito da Redaelli che già ne aveva pubblicati alcuni estratti sul «Pungolo».

Di numerose altre sue opere, Nievo chiese la pubblicazione su periodici, che però gliela rifiutarono. Costituiscono un’eccezione i romanzi Angelo di Bontà e Il conte pecoraio, troppo lunghi per essere editi su giornali, l’opuscolo anonimo Venezia e la libertà d’Italia, così pubblicato per volontà dell’autore, e le poesie de Gli Amori Garibaldini, scritti durante le campagne militari del 1859 e del 1860.

Ma Ippolito Nievo non si serviva dei giornali solo per diffondere – e si trattava molto spesso di una diffusione estremamente limitata, pur nell’ambito già ristretto del pubblico di allora – le sue opere e, quindi, le sue idee. Fu egli sempre anche un assiduo e attento lettore. Passava in rassegna tutto quello – quel poco – che consentiva la censura austriaca: dai giornali locali che si concedevano tiepidi accenti liberali, come l’«Alchimista» e l’«Annotatore» friulani, agli organi della reazione – già è noto il caso della «Sferza», alla quale si dovranno aggiungere i clericali «L’Armonia», «Univers», «Civiltà cattolica» e «La Bilancia», tutti citati in una lettera all’amico Andrea Cassa –; dai periodici destinati nominalmente a un pubblico femminile ma ricchi di ottimi testi e collaborazioni, quali la «Ricamatrice» e le «Ore casalinghe», alle maggiori testate straniere, fra tutte preferita la «Revue des deux Mondes». Nievo li cita molte volte nelle lettere ma anche nei suoi articoli, dimostrando di seguire sempre da vicino i dibattiti culturali e politici in corso.

I suoi esordi da collaboratore nei giornali friulani e giuliani sono sintomatici delle difficoltà cui andava incontro un giornalista negli anni della «resistenza» al ritorno degli Asburgo dopo il 1848, e dei sotterfugi escogitati per aggirare tali ostacoli. Il primo e più grande di questi era naturalmente la censura, ora governativa, ora ecclesiastica. Nievo vi incappò fin dall’inizio, anche se indirettamente: taluni scritti gli furono fin da subito emendati o respinti in toto dai responsabili dei giornali che temevano appunto di subire spiacevoli conseguenze dalla loro pubblicazione. I mezzi a cui ricorse Nievo per far fronte alla situazione furono due: l’adozione di un linguaggio cifrato e l’abitudine a firmarsi con degli pseudonimi. Stratagemmi tutt’altro che nuovi nella pubblicistica del tempo, che anzi vi faceva ricorso spesso e volentieri; ma Nievo seppe distinguersi sia per l’abilità e, anche, la spericolatezza con le quali si servì di quel linguaggio da iniziati, di quella «poetica crittografica» , di quelle – per dirlo con le sue parole – «fantasie in stile enigmatico» ; sia per il carattere originale e appropriato delle sue firme inventate.

Venendo ai casi concreti, già la prima opera pubblicata da Nievo su un giornale, la poesia satirica Centomila poeti, a causa del suo contenuto aspramente canzonatorio nei confronti dei tanti rimatori da strapazzo che affollavano strenne e sillogi gratulatorie gli fu tagliata dal direttore dell’«Alchimista», sul quale uscì. Il responsabile della testata, Camillo Giussani, gli confessava: «ho tolto qualche verso. Ella non può immaginare quanto minuziose sono le convenienze politiche di un gramo giornalista. Perdoni a questa mia libertà obbligata» , fotografando perfettamente la condizione in cui era costretto a lavorare. Né quell’episodio fu l’unico. Un anno dopo, l’inserimento di un’altra poesia di Nievo nelle bozze dell’«Alchimista» portò al sequestro del giornale. Il numero che non vide mai la luce era quello del 10 dicembre 1854; la poesia, che non ci è pervenuta, stavolta aveva la colpa non di contenere «frasi ardite», bensì di trattare un argomento interdetto, esprimendo giudizi sulla Beatrice Cenci di Francesco Domenico Guerrazzi, ed «essendo stata positivamente proibita la stampa di scritti di qualsiasi opinione riguardo il romanzo di Guerrazzi», come osservava Giussani comunicando l’incidente a Nievo.

Il quale, forse prevedendo questa volta a torto un’altra censura preventiva da parte del direttore, aveva prima spedito quei versi alle «Letture di Famiglia», la silloge del Lloyd Austriaco che rappresentava «una specie di vetrina per gli aspiranti alla gloria letteraria» . Ma l’editore del giornale triestino l’aveva rimandata al mittente adducendo la stessa motivazione, e cioè la «proscrizione» dell’autore che Nievo recensiva. Questi, allora, aveva ritentato la carta dell’«Alchimista». Giussani accolse la poesia, mostrandosi meno prudente del collega, o forse meno informato. Fondati elementi in nostro possesso portano ad escludere la prima ipotesi: Giussani era prudente eccome, fin troppo secondo lo stesso Nievo al quale predicava di continuo «moderazione», col risultato di incrinare i buoni rapporti con lui ; e la spiegazione dell’incidente nella lettera a Nievo, con quelle parole e soprattutto quel giudizio – «essendo stata positivamente proibita...» – sembra ricalcare la delucidazione di un censore, non il libero pensiero del direttore di un giornale. Ma quella del Giussani potrebbe essere stata anche una semplice svista.

Un anno dopo, terza – e ultima, fra quelle a noi note – censura preventiva ai danni di Nievo. Giussani, scottato dal sequestro e dalla probabile ramanzina ricevuta, cestina immediatamente dopo averla ricevuta dall’autore un’altra poesia, della quale stavolta conosciamo il titolo, ma solo quello. «I versi La navicella calabrese avrei stampato ben volentieri», scrive con la consueta efficacia Giussani a Nievo, «ma, che vuole? Io sono sotto la pressione di una doppia censura; censura politica, censura arcivescovile, censura seminarista. e vogliono ad ogni costo farmi credere paterino, ateo o che so io. Lo scopo di quella poesia è buono [di quella sul Guerrazzi aveva detto che era «bellissima», trovandosi in piena sintonia con l’editore delle «Letture di Famiglia» ], ed allude mirabilmente a certi miracoli avvenuti qui durante il Cholera; ma appunto perciò mi tirerebbe addosso Curia e Sagrestia».

I tre episodi descritti non sono gli unici che conosciamo nei quali Nievo incappò nei severi regolamenti sulla stampa: altri, assai più gravi, incidenti avvennero negli anni seguenti su due giornali di Milano, e uno di essi culminò in un processo allo scrittore (v. oltre, cap. III, par. 1 e cap. IV). Contro questa morsa di pressioni e oscuramenti, lo scrittore deve affinare fin dall’inizio la sua arte di far sapere tutto senza dire troppo, un’alchimia di allusioni e doppi sensi che, se da un lato scansava tanti pericoli, dall’altro pregiudicava la comprensione dei suoi scritti. La sperimenta nelle poesie che viene componendo e pubblicando sul giornale udinese – con quello triestino non ebbe più alcun contatto, né sarebbe stato possibile dopo un approccio così negativo –; per vederlo intento alla stessa opera in un articolo in prosa bisogna aspettare la fine del 1857 e le collaborazioni coi giornali di Milano. Mentre è già nel novembre 1853 che comincia a ricorrere a nomi fittizi per firmarsi: in calce a La Ledra compare infatti lo pseudonimo Mane Tecel, di derivazione biblica – Profezia di Daniele, V, 25 – e primo di una lunga serie.

Mentre poesie e racconti, su qualunque periodico fossero pubblicati, presentavano quasi sempre il nome completo dell’autore, per gli articoli succedeva il contrario: solo in rari casi – scritti d’occasione o dal contenuto innocuo, ad esempio letterario – l’autore si esponeva a sottoscriverne il contenuto. Nievo non fece eccezione: firmò per esteso una necrologia e gli Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia sull’«Alchimista», oltre a una lunga recensione con traduzioni del Quarto Libro delle Contemplazioni di Hugo sulla «Ricamatrice». Si limitò invece ad apporre le sue iniziali in calce ad una dozzina di articoli, quasi tutte recensioni letterarie o musicali, mentre comparvero anonimi un’altra dozzina sul «Caffè», sulla «Rivista veneta» e sui periodici femminili: ma qui la scelta dell’anonimato pare doversi attribuire alla consuetudine usata da questi giornali di lasciare sempre in bianco la fine dello scritto, anche se di cultura generale, qual è il caso degli articoli di Nievo in materia economica, letteraria, storica, geografica colà pubblicati.

Lo scrittore fece infine ricorso ad un nome fittizio per tutti gli altri articoli, cioè per la maggior parte, e in pochi altri casi di opere letterarie: ad esempio per i versi con i quali rispondeva alle attenzioni rivoltegli dall’«Uomo di Pietra» o per l’apologo La vaccherella pubblicato sul «Pungolo» , poesie sottoscritte rispettivamente con gli allusivi Lo stornello non ancora in muda – cioè non ancora ingabbiato, nonostante il processo – ed Esopo senza padrone, cioè fiero della sua libertà; ed ancora, per il romanzetto satirico Il Barone di Nicastro, destinato anch’esso al «Pungolo», firmato con l’anagrammato «Nevio», «nipote bastardo di quello del rasojo» .

Molti dei periodici ai quali collaborò Nievo, e il pensiero corre in particolare a quelli satirici, erano autentici campionari di soprannomi più o meno estrosi. Il giovane autore non fu da meno, e ne coniò un’invidiabile serie. Il primo fu «Quirina N.» a cui ricorse sulla «Lucciola», un gazzettino dove fu frequente da parte sua lo scambio di identità con autrici fittizie: si veda in proposito la corrispondenza epistolare tra «Giulia» e «Nella». Seguirono sui giornali milanesi i vari «Fantasio» e «Dulcamara» – quest’ultimo con le varianti «D. Dulcamara» e «Dulcamara, Chirurgo-inventore» – alternati «secondo che gli accadeva di far ricorso alla mobile e spumeggiante fantasia o di adoperare la medicina dolce-amara e il bisturi risanatore della satira e del predicozzo morale» ; «Todero», «Sabeo», «Arsenico», «Sssss», «Senape», anche questi usati secondo precisi riferimenti alla provenienza, al contenuto o alla destinazione dell’articolo: il primo per le – finte – corrispondenze da Venezia e dall’Oriente; «Sabeo» per quelle da Nizza, dove i moderni «adoratori del Sole», cioè i ricchi aristocratici e borghesi di mezza Europa, si recavano a svernare; l’azzeccatissimo «Arsenico», «quando le cose che egli diceva contenevano più o meno di salutare veleno»; l’emblematico «Sssss», quando l’argomento in vario modo caustico o pericoloso gli consigliava di esprimersi per mezzo di reticenze, di allegorie e di frasi a doppio senso», anche se a onor del vero non era proprio questa l’unica circostanza in cui vi ricorreva; e l’ultimo per le corrispondenze all’«Annotatore friulano».

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Informazioni tesi

  Autore: Andrea Marco Accorsi
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 1993-94
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Storia
  Relatore: Rita Cambria
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 235

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