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L'immanenza dell'immagine nell'opera documentaria della regista Cecilia Mangini

I grandi temi del cinema di Cecilia Mangini

L’attenzione dei film della Mangini è spesso rivolta alle periferie delle città o ad altri luoghi, come ad esempio la campagna pugliese. La regista infatti si è sempre sentita legata alle zone di frontiera, anche se ha vissuto tutta la sua esistenza in un contesto urbano: nella Firenze acculturata, da giovane, per poi trasferirsi nella zona del centro di Roma. Il suo cuore e la sua mente, però, tornano sempre nei posti dove la concezione del mondo, della cultura e delle tecnologie cambia radicalmente, sin da quando si ritrova nelle Eolie, per passare alla Firenze di Pratolini, dove le sue fotografie vertono su una parte di città a lei meno conosciuta, per finire con i suoi film dedicati alle borgate di Roma e alla sua regione d’origine, la Puglia.

Nelle periferie si vive l’emarginazione, la povertà, l’immobilità, tutti valori contrastanti rispetto al pensiero della regista; eppure lei vede in tutte quelle persone, le cui possibilità sono limitate, un fermento particolare: i protagonisti e le protagoniste dei suoi documentari si creano nuove leggi, nuove regole, nuovi modi di vivere in modo creativo, e questo aspetto viene messo in evidenza soprattutto quando vengono prese in considerazione alcuni comportamenti diffusi tra le persone del Salento, che inventano riti magici e celebrazioni, per passare a indagare la vita dei giovani delle periferie della capitale, dove costoro sono ancora affamati di curiosità e di ribellione. La regista si riconosce, seppure in una situazione del tutto differente, in quella ricerca.

Quando Cecilia Mangini si trasferisce a Roma, la sua curiosità e i suoi interessi politici rivolti ai problemi sociali, la portano ad occuparsi delle borgate romane: in quest’area si trovano degli insediamenti realizzati dal 1930 al 1937, posti a circa dieci chilometri dal centro abitato, secondo la pianificazione voluta dal governo di Roma e dall’Istituto “Fascista autonomo case popolari”, sulla scia di un preciso programma che aveva lo scopo di emarginare ed allontanare dalla città tutte le persone che potevano creare delle tensioni sociali, politiche e a livello economico, in contrasto con l’immagine monumentale che voleva diffondere il regime. Nel 1936 viene dato seguito alla demolizione della Spina di Borgo, un isolato che intralciava il governo nella costruzione di Via della Conciliazione, che si sviluppa da Castel Sant’Angelo sino a raggiungere piazza San Pietro.

Questa impresa è risultata essere uno dei progetti più aspramente criticati del Novecento, in parte perché era in contrasto con l’idea originale del grande artista Gian Lorenzo Bernini, che considerava le vie del Borgo alla stregua di un punto di forza per far risaltare la sua grandiosa costruzione della basilica di San Pietro, alla quale le persone arrivavano passando attraverso le strette vie, fino a ritrovarsi, quasi in modo inatteso, nella monumentale piazza, ma soprattutto per la demolizione di edifici di importanza artistica quale il palazzo dei Convertendi di Bramante o il palazzo Jacopo da Brescia. La quantità di strutture edili abbattute comporta l’esilio delle persone che vivevano lì e dunque il loro totale isolamento dalla vita della capitale.

Sono proprio le vicende recuperate attraverso le testimonianze dei figli di tali persone allontanate dalle loro residenze, che l’autrice sceglie di raccontare in tre dei suoi film: Ignoti alla città, Canta delle Marane e, quindici anni dopo, La briglia sul collo.
Ignoti alla città, il primo film in assoluto della regista, nasce dalla «chiamata che cambia la vita» del produttore Fulvio Lucisano: la regista si reca dal produttore, certa di dover scrivere un articolo per una rivista, mentre le viene chiesto di girare un film.

La Mangini, presa alla sprovvista, propone un documentario sulle Borgate Romane e sui “ragazzi di vita” narrati da Pier Paolo Pasolini. Lucisano comprende l’importanza e la novità dell’argomento e la regista entra a far parte del mondo del cinema, come lei stessa racconta, con molta incoscienza; qui ha avuto la possibilità di acquisire la tecnica necessaria confrontandosi con gli operatori e soprattutto montando il film con Renato May, una fonte di ispirazione per la Mangini, la quale ritiene proprio legata a questa fase la possibilità di rendere originale un film, al fine di conferirgli una visione personale e unica.

La regista vuole che al documentario sia correlato un commento e subito decide di affidarlo a Pier Paolo Pasolini, un intellettuale eclettico che ha lasciato originali contributi in molti campi artistici: lo ricordiamo quale letterato, attore, regista e giornalista. È stato uno dei più grandi osservatori della società italiana in mutamento sin dal secondo dopoguerra. Nel 1955 pubblica il libro I ragazzi di vita, ambientato proprio nelle borgate di Roma. I protagonisti sono dei giovani umili, dalla posizione sociale degradata per cui sono costretti a sopravvivere come delinquenti, ma nel contempo sono ragazzi di una immensa generosità. La sua esperienza come regista inizia nel 1961 con l’acclamato film Accattone, dopo aver collaborato con Cecilia Mangini nei film Ignoti alla città e Stendalì, dove lo scrittore conosce, attraverso la moviola, il linguaggio cinematografico e l’arte del montaggio; questo dato smentisce alcune voci che hanno visto Pasolini come grande ispiratore per i film della regista: è avvenuto il contrario, poiché è stata la regista a far appassionare ed aprire le porte del cinema al grande poeta.

La regista pensa di chiamare la casa editrice Garzanti per avere sue informazioni, però alla fine riesce a contattarlo semplicemente cercando il suo nome nell’elenco telefonico; lo scrittore la raggiunge il giorno dopo con grande «disponibilità e gentilezza», e consegna il commento richiesto appena tre giorni dopo: il testo di Pasolini è in realtà una poesia, che verrà pubblicata successivamente dall’autore.

Il documentario si propone di portare alla luce un’inchiesta sulle borgate, ignorate dallo Stato, ma anche di tessere le vicende alla stregua di un racconto personale e poetico: il film si apre con la scena di alcuni ragazzi che giocano a pallone, a cui segue l’inquadratura degli imponenti palazzi di periferia che nascondono l’orizzonte; in questi appartamenti anonimi vivono famiglie numerose, strette in un numero esiguo di stanze, dove le regole del vivere comune vengono sovvertite: i figli litigano e dormono per terra, le madri urlano «come i maschi», i ragazzi non hanno alcuna fede.

Il testo esordisce con le parole:
«Essere poveri, essere umili»

descrivendo in due parole le condizioni in cui vivono questi ragazzi che non hanno nessun collegamento con Roma: la telecamera inquadra e segue la vita quotidiana dei giovani che creano delle bande, organizzando dei furti e commettendo consapevolmente atti criminali per denunciare la loro situazione e la loro ribellione nei confronti di una società civile che li emargina, privandoli della possibilità di crearsi un futuro. I protagonisti frequentano la prigione sovraffollata del proprio quartiere, per scambiare delle sigarette in cambio di favori futuri. Pasolini e la regista non li guardano con uno sguardo ammonitore bensì con compassione, ricercando la grande umanità in questi ragazzi, che si cela sotto il loro forzato cinismo e la loro spietatezza nei confronti degli altri, anche se lo scrittore, nel commento, aggiunge con una nota di sconforto che, a suo parere, i ragazzi sono in realtà “fin troppo rassegnati” per costruirsi un futuro migliore.

«La loro pietà è nell’essere spietati
La loro innocenza è nei loro vizi
La loro forza nella leggerezza
La loro speranza nel non avere speranza»


Quando il film viene viene supervisionato presso il ministero, cade subito sotto censura. La regista accusa Fernando Tambroni, e più in generale il partito democristiano, che si dimostrano intolleranti di fronte alla figura di Pasolini in quanto omossessuale, e il film viene vietato a tutti con la seguente motivazione: “incentivazione a delinquere”, per una scena che rappresenta un piccolo furto messo a segno da alcuni ragazzini. La regista reagisce di persona, recandosi dal ministro di competenza: racconta di essere entrata in una stanza dove è ancora appeso un grande dipinto di Tatò, un pittore fascista. Il ministro, con aria di sufficienza, le spiega che può fare ricorso e la regista, sotto la pressione del produttore, riesce con tenacia a far proiettare il film e a farlo vedere ai ragazzi maggiori di quattrodici anni.
[...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'immanenza dell'immagine nell'opera documentaria della regista Cecilia Mangini

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Informazioni tesi

  Autore: Claudia Ferrara
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli Studi di Padova
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Dams - Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo
  Relatore: Mirco Melanco
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 79

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