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Paura dello straniero e simbolica dello spazio

Lo spazio dell’ostilità

Tutto ciò che determina il rapporto tra il politico e lo spazio è ascrivibile alla definizione di territorio. Lo stesso concetto di Stato, inteso sia come estensione fisica di uno spazio che come modello politico-organizzativo dello stesso, nonché qualsivoglia pensiero politico moderno (sovranità, legittimità, cittadinanza...), sembra impossibile da declinarsi se non in relazione ad un determinato territorio. Il territorio di uno Stato è continuo e omogeneo, unico e insostituibile; la sua perdita significherebbe la distruzione del soggetto politico che ne occupa lo spazio, per questo non c’è nulla di esterno in esso, tranne ciò che è riferibile ad un’altra entità politica.

Paul Dumouchel ci mostra la tripartizione dello spazio dell’ostilità, inteso come “spazio plurale nel quale gli individui devono negoziare fra identità multiple”, e come lo spazio abitativo è stato modellato dai legami di solidarietà e dalle divisioni tra i gruppi che se lo spartiscono. Egli riprende gli studi sulla vendetta e i sistemi vendicatori di Raymond Verdier, in cui emerge come, nelle società segmentarie, lo spazio dei conflitti possa descriversi attraverso una struttura di tre cerchi concentrici il cui centro è occupato da ego. Il primo cerchio, il più interno e vicino all’ego, è quello dell’identità clanica o di stirpe: qui il ricorso alla violenza per dirimere i conflitti è proibito, solidarietà e tolleranza regnano senza divisioni, tanto da essere ammessi persino piccoli strappi alle regole che, normalmente, chiederebbero una riparazione.

Gli appartenenti a questo cerchio sono legati da un obbligo di vendetta per il quale si rende il male per il male, vendicando i membri che hanno subito un’offesa, altra faccia del divieto precedentemente enunciato, ovvero quello dell’astensione alla violenza in seno al mondo dell’identità. Proprio tale dovere, fa sì che la violenza venga deviata verso l’esterno del gruppo, su vittime lontane da ego, salvaguardando la pace interna dal contagio violento che, altrimenti, tornando al suo luogo d’origine, infiammerebbe tutta la comunità. Il cerchio dell’avversità è invece uno spazio sociale più lontano dall’io, dove alle offese e alle trasgressioni si risponde con una violenza regolata e spesso ritualizzata. L’entità di quest’ultima viene misurata in relazione alla distanza da ego, attenendosi, il più delle volte, al ciclo di una vendetta che impone una riparazione equilibrata o una riconciliazione sulla base di un accordo di interessi razionali e calcolati tra guadagni e perdite.

Il cerchio dell’avversità è il microcosmo dell’opportunismo ma anche del rispetto, il luogo in cui i conflitti partecipano attivamente alla coesione sociale. Il terzo cerchio, infine, il più esterno, è quello dell’inimicizia illimitata, lo spazio del conflitto guerriero verso tutti coloro esterni al perimetro di appartenenza, a cui nulla si deve e che rappresentano un potenziale oggetto di dominio o consumo. Su questo terreno lo scambio di tipo commerciale avviene in modo diretto, privo di qualunque forma di cerimoniale specifico: la relazione segue il suo iter di mutuo scambio, reggendosi e terminando nel momento liberatorio in cui avviene il pagamento.

Bisogna sottolineare che lo spazio dei conflitti non determina alcuno spazio reale o territorio propriamente detto, bensì le sue divisioni restano saldamente legate all’io e alle relazioni sociali, ed è proprio l’allontanamento da quest’ultime che affievolisce gli obblighi di solidarietà intensificando il conflitto. Ne consegue, quindi, che è proprio lo spazio abitativo ad essere modellato dai legami di solidarietà e dalle divisioni fra i differenti gruppi. Dumouchel, inoltre, evidenzia come il concetto di politico, secondo Carl Schmitt, non può ridursi ad alcune istituzioni, bensì esso è determinato dalla discriminante relazionale amico-nemico. Tale distinzione va concepita come criterio differente da altre tipologie di fenomeni; irriducibile a certe forme esclusive di organizzazione sociale, esso è presente ovunque emerga una determinata forma di rapporto amico-nemico. “Il politico [...] non indica un settore concreto particolare, ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono essere di natura religiosa, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo e possono causare, in tempi diversi, diverse unioni e separazioni”.

Amico e nemico sono socialmente costituiti da rapporti d’opposizione e di coesione: in tal senso, ne si può dedurre che la struttura dei rapporti politici sia proprio insita nello spazio tripartito dell’ostilità e della solidarietà di società tradizionali. Non sono considerati politici i conflitti che si producono nel cerchio dell’identità; la violenza che ne scaturisce, cioè, non è mai una violenza politica proprio perché privata, generata da membri dello stesso gruppo. Viceversa, ad affrontarsi nel cerchio dell’avversità sono sempre gruppi, o membri di gruppi distinti, che danno luogo, quindi, ad antagonismi pubblici, determinando un conflitto di tipo politico. Detentore del monopolio della violenza, lo Stato moderno compie poi una sorta di semplificazione dello spazio dell’ostilità, cercando di eliminare l’inimicizia al suo interno e di instaurare ordine e sicurezza respingendo i nemici oltre i propri confini.

Così facendo, la tripartizione si riduce a due indifferenti tipi di ostilità, privandoli, proprio per questo, della loro dimensione politica. È proprio la pretesa di voler dare alla guerra un obiettivo morale, come afferma Schmitt, che trasforma il nemico in un mostro da distruggere dequalificandolo moralmente. In secondo luogo, invece, è la distanza morale tra gli avversari, cioè la possibilità che un giorno essi possano diventare alleati, ad autorizzare ed implementare il ricorso alla violenza. La prima formulazione suggerisce che il correlativo oggettivo responsabile dell’acuirsi di certi conflitti sia proprio l’intento morale degli stessi, mentre la seconda si uniforma all’idea che gli agenti hanno o meno l’impressione di avere degli obblighi gli uni verso gli altri, e che sia proprio la distanza morale, come espresso poc’anzi, a fare da freno più o meno efficace in merito alla crescita spontanea della violenza. Per chiarire bene le precedenti distinzioni, Dumouchel ripropone l’interpretazione di Clausewitz in merito a guerra d’osservazione e guerra di sterminio.

Le prime corrispondono alle guerre rivoluzionarie, conflitti che si pongono un obbiettivo morale, cioè, come nel caso della rivoluzione francese, esportare un nuovo modello di convivenza sociale e politico, lottando contro tirannia e dispotismo, inglobando e mobilitando intere popolazioni verso tale finalità. Per l’autore, risalta chiaramente la convergenza empirica con la formulazione delle guerre morali di Schmitt: guerre che discreditano il nemico nelle categorie morali tanto da farne, agli occhi della massa unanimemente protesa allo sforzo bellico, un mostro inumano. Per comprendere la seconda distinzione, tornerà utile l’esempio delle guerre coloniali, conflitti che, per Dumouchel, non mirano all’annientamento dell’avversario, ma alla sua ricollocazione all’interno di frontiere predefinite.
[...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Paura dello straniero e simbolica dello spazio

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Informazioni tesi

  Autore: Andrea Ansalone
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli Studi di Napoli - Federico II
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze Politiche
  Relatore: Elena Cuomo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 70

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