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Enzo Paci e la Fenomenologia relazionistica: la risposta positiva alla krisis

La rilevanza del Tempo e "Paci contra substantiam"

Gli argomenti che saranno affrontati in questo paragrafo sono già stati evidenziati in precedenza: si tratta adesso di portarli ad una più chiara e ordinata esposizione. Per quanto riguarda il sostanzialismo c’è già stato modo di mettere in luce una tendenza interpretativa di Paci – quasi un prolungamento della sua convinzione riguardo all’inestricabilità di vita e pensiero – ossia la tipizzazione psicologica dei sostenitori del sostanzialismo. Da una lettura generale dei testi paciani emerge costantemente questa tendenza ad assimilare l’adesione a un tipo di pensiero sostanzialista, come un mascheramento più o meno cosciente dell’incapacità di farsi carico dell’intrinseca relazionalità costituente il mondo.

La sostanza, l’identità, il separato sono tutti termini che nell’analisi paciana, prima di rimandare ad un preciso impianto teorico, tradiscono il disperato bisogno di sicurezza, di costanza, di immutabilità; sono le maschere dietro alle quali di volta in volta il pensiero occidentale ha cercato di nascondere la propria insicurezza rispetto al reale. Come c’è stato modo di dire prima riguardo all’hegelismo, alla conclusione della filosofia e alla sua possibilità di essere compresa e riassorbita in un sistema filosofico, si rivela essere una pretesa fallace, in quanto la stessa struttura dell’universo e dell’esperienza è costituita in modo tale da non permettere delle concretizzazioni assolute. Per quanto queste siano pensabili e proponibili – e la storia della filosofia è il mausoleo di questo proliferare – non reggono a un’analisi rigorosa e consapevole. Il rinnovato paradigma relazionistico si propone di considerare ogni forma di filosofia pregressa come uno stadio precedente di realizzazione della relazione: il principio di relazione era già presente nelle filosofie che hanno preceduto la sua realizzazione storica, ma non lo si è voluto vedere.

Infatti la filosofia della sostanza, sancendo l’esistenza di una realtà duplice, composta da un lato da una realtà che permane identica e dall'altro da una che diviene, non faceva che nascondere l’interrelazione universale, nel senso di comprimerla in un sistema retto da un punto fermo che fungesse da metro di misura e che riassorbiva il problema della filosofia stessa. E questo era possibile perché si era distaccati dalla dimensione viva della filosofia; il procedimento d’innalzamento a principio di uno qualunque dei punti fermi era quello astrattivo, ossia si riduceva la fecondità delle infinite relazioni in simultanea a due classi di cui una veniva fatta dipendere dall’altra: «l’essere poniamo dal divenire, o il divenire dall’essere. E la stessa totalità cui pretendeva di fare capo non era che il «bisogno di un ordine tranquillizzante»; tale ipostatizzazione permetteva di sollevare dal mondano un principio che così permanesse puro nella sua beata solitudine e alla medesima sistematicità della teoria, così costruita, seguiva il condizionamento psicologico del filosofo che, aderendo a quel paradigma, si assicurava la beatitudine più grande.

Beatitudine illusoria, tuttavia, perché quello stesso paradigma di derivazione da un principio era destinato a essere modificato e a mostrare la sua natura storico-temporale. Infatti è con Hegel, sostiene Paci, che è stato fatto slittare il principio cui tutta la realtà tende dal momento iniziale a quello conclusivo: il risultato diventava il punto d’arrivo dello spirito, che quindi rinnovava la legittimazione del divenire mondano come necessaria (non più solo il necessario è il sostanziale, ma anche l’accidentale ha la sua validità/necessità). Ma questa ammissione di legittimità del divenire non si porta dietro la rivendicazione della priorità dell’individuo: in Hegel l’alienazione avviene a favore dello Spirito, che sovrasta separato la storia dell’uomo e la determina, come suo telos. Il passaggio da un paradigma di tipo irrelazionistico ad uno relazionistico è sintomo di una tensione verso la maggiore età del pensiero; quello del relazionismo non è solamente un paradigma teorico che deve essere accettato o rifiutato, ma si presenta sempre più come la via teorica capace di riaffidare alla filosofia il suo portato positivo di costruzione e trasformazione del mondo, in quanto l’unico che si dà come lo stesso mondo che si propone di spiegare.

Gli irrelazionisti accuseranno il relazionismo addirittura di non essere una filosofia, data la loro incapacità di concepire ad esempio un principio metafisico che non sia quello classico. Come abbiamo già evidenziato, una delle cause della crisi della filosofia, di cui è sintomatica la nevrosi tematizzata nel paragrafo precedente, si ritrova nella concezione logicistica del linguaggio, che all’epoca di Paci, vedeva da una parte la glaciale affermazione wittgensteiniana che sembrava precludere definitivamente ogni possibilità positiva di filosofia, dall’altra il tentativo neopositivista-logico, di Russell e Carnap, di riformulare una logica che ancorasse definitivamente il linguaggio alla realtà e ne fosse la santificazione; la ricerca del linguaggio perfetto tradisce in primo luogo la sostanziale incomprensione della funzione stessa del linguaggio (una lingua artificiale sarà pure possibile chiamarla “linguaggio perfetto”, ma non farà che ricordarne la natura costitutivamente fittizia).

L’accettazione del principio della tautologia e del discorso perfetto logicamente verificabile è l’autodistruzione del mondo per amore della massima assicurazione possibile contro i pericoli e le sorprese del mondo […] il fascino che Wittgenstein ha esercitato ed eserciterà su tutto il mondo è dovuto a questa corsa al nulla mascherata di tecnicità logica e di verificabilità positiva.

Nell’affermazione wittgensteiniana di «parlare soltanto delle cose di cui possiamo dire e tacere di quelle di cui non possiamo dire nulla» permangono latenti la volontà di ridurre il linguaggio a mere tautologie che portano all’immobilità e all’incomunicabilità, perché linguaggio è sempre «apertura di un possibile»: lo stesso dialogo, caposaldo del metodo paciano, non sarebbe produttivo se il linguaggio non andasse oltre la mera referenza con la cosa simbolizzata. Dall’altra parte invece, c’è il tentativo di costruire secondo regole logiche un linguaggio formalizzato, preciso, che porti in sé i principi stessi della propria costituzione; ancora una volta si otterrebbe una costruzione perfetta, ma che sicuramente non rispecchia il linguaggio vivo. Per quanto riguarda invece la questione temporale, si sono già enucleate delle dipendenze definitorie; il principio di irreversibilità, principio logico di relazione, è anche il modo di darsi delle cose nella temporalità: l’irripetibilità dell’evento è l’idea limite della filosofia paciana. Assieme all’interrelazione, l’irreversibilità temporale è una delle poche certezze che la fenomenologia relazionistica è capace di fornire.

E in effetti la produzione fenomenologica sul tempo è decisamente vasta, e Husserl stesso si è profuso in più luoghi nel tentativo di fornire un resoconto rigoroso dell’esperienza soggettiva della temporalità. In I Problemi della fenomenologia Giovanni Piana riconosce a Paci il merito di aver mostrato più di altri la rilevanza del problema temporale, non tanto nella sua declinazione di esperienza temporale soggettiva, quanto nella considerazione strutturale del problema del tempo per la fenomenologia. Circa l’esperienza temporale soggettiva, Paci, in sostanziale accordo con le proposte avanzate da Maurice Merleau-Ponty, sostiene il carattere sorgivo del tempo dalla soggettività: indagandoci riguardo allo statuto della temporalità, la vediamo sorgere dal nostro stesso rapporto con le cose e con il mondo; non si tratta di una quantità definita, analizzabile e separabile ma è una costante co-emergenza, con la nostra azione nel mondo.

Tale carattere di emergenza soggettiva però non si accorda con lo statuto di intersoggettività: ecco perché nell’indagine il soggetto si riscopre sia fonte-di che trasceso-da una temporalità. Tale temporalità non può essere ricondotta alla coscienza come un modo di darsi privilegiato del soggetto, anche perché la dimensione intersoggettiva di interrelazione necessita che tutti gli alter-ego compartecipino di tale modo. Da qui il riconoscimento di una temporalità compartecipata, cui tutti gli individui ineriscono, che connota il nostro statuto stesso di esseri viventi, al contempo immanenti e trascendenti. La temporalità che è stata qui definita è in rapporto con il principio metafisico del relazionismo stesso; lo scorrere del tempo, la sua irreversibilità, non è altro che la necessità con la quale ogni relazione che si forma nell’universo relazionistico ha un preciso ed unico senso di scorrimento, e tale senso ha come unico divieto quello di potersi compiere nello stesso istante in due direzioni diverse. E con la medesima necessità noi umani non possiamo sperimentare il riaccadimento di un evento passato che abbiamo vissuto, e il futuro stesso non potrà che presentarsi con il carattere di novità e di emergenza rispetto al passato.

Questo non vuol dire che il passato non permanga in una certa misura nel mio orizzonte di realtà e che io non possa protendermi verso un futuro possibile (anzi è proprio uno degli aspetti costitutivi del relazionismo questo porsi tra permanenza del passato, peso del presente e aspettativa del futuro), fermo restando la non esistenza – se con ciò s’intende realtà concreta, presenza evidente attuale e intenzionabile – dell’uno e dell’altro. In Funzione delle scienze e significato dell’uomo, c’è un passo notevole che riguarda esattamente questa duplicità costitutiva tra esperienza soggettiva del tempo, e trascendenza intersoggettiva:

la presenza vivente concreta […] è il risultato della riduzione trascendentale. Ma la presenza vivente contiene in sé anche il passato che ritiene e rimemora nonché il passato obliato […]

e prosegue:

posso voler ripresentificare la mia infanzia senza dover presentificare per intero la mia giovinezza. Io salto indietro nel passato: un semplice e lineare «fluire indietro» nel passato è impossibile. […] L’irreversibilità del fluire dell’esperienza, dell’Erlebnisstrom, fa sì che io possa partire dal presente e solo dal presente per far rivivere la genesi che ha condotto al presente[…].

Il presente fenomenologico è di fatto il soggetto stesso; coincide con il Quellpunkt, di Husserl, un punto sorgivo di esperienza situato in un flusso temporale che lo sovrasta e lo determina passivamente, nel quale però ha una misura di libertà che è quella di poter intenzionare uno qualunque dei momenti precedenti del flusso temporale, senza però esserci veramente; senza che quel momento sia per me presenza evidente attuale, in quanto già scivolato nel passato.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Enzo Paci e la Fenomenologia relazionistica: la risposta positiva alla krisis

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Informazioni tesi

  Autore: Giovanni Mugnaini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2014-15
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Roberto Brigati
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 49

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