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Il fallimento del carcere: ragioni e prospettive

Il carcere norvegese: un sistema detentivo focalizzato sui diritti umani e sul rispetto

Il carcere norvegese rappresenta l’unico sistema detentivo che, al momento, risulta essere realmente rispettoso dei diritti umani e concretamente volto alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo. Tale sistema penitenziario, che ha portato a una riduzione della recidiva fino al 20%, si basa su alcuni principi chiave.
Il concetto centrale è quello della normalità (principle of normality), che racchiude in sé tre idee:
- la punizione consiste nella sola restrizione della libertà: nessun altro diritto deve essere compresso con la decisione della corte, perciò il condannato mantiene, per il resto, gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino;
- nessuno dovrà scontare la propria pena sotto circostanze più restrittive di quanto sia necessario a garantire la sicurezza nella comunità, quindi andranno privilegiati regimi di sicurezza più bassi possibili;
- durante l’esecuzione della sentenza, la vita dentro le carceri deve assomigliare il più possibile a quella esterna, secondo il principio che “se vuoi portare la persona fuori dalla prigione devi portare la prigione fuori la persona”.

Un’eventuale deviazione dal principio di normalità dovrà essere giustificata: l’idea di fondo è che c’è bisogno sempre di un motivo per negare dei diritti a un condannato, non per garantirglieli.
Un altro importante principio è quello del reinserimento graduale, da prigioni di alta sicurezza a quelle di sicurezza più bassa: deve esserci una progressione nel trattamento che punti alla reintegrazione. Questa idea è diametralmente opposta a quella propria delle nostre prigioni (nella pratica, ma non nell’ordinamento penitenziario), le quali, invece, creano un muro invalicabile tra ciò che è racchiuso dentro e la società esterna. Secondo la concezione norvegese, invece, più chiuso è un sistema, più difficile risulterà il ritorno alla libertà.
Ulteriore principio fondante è quello della necessaria responsabilizzazione del reo, che va incrementata in tutti i modi possibili. A tal fine, il detenuto deve svolgere tutte le attività, dal lavoro alla scuola, che possano renderlo un soggetto migliore di com’era quando è entrato. Anche qualora il soggetto sia condannato a detenzione domiciliare dovrà seguire questo tipo di attività nelle ore stabilite, in quanto stare a casa quando si dovrebbe stare fuori è considerato una trasgressione delle condizioni e può determinare un ritorno in prigione. Dovrà, poi, essere il prigioniero stesso a fare le richieste per le varie alternative attraverso le quali scontare la pena: se, ad esempio, a seguito di quattro mesi è possibile richiedere la detenzione domiciliare, ciò è rimesso totalmente
alla iniziativa del prigioniero, questo per poterlo riabituare a una responsabilizzazione in vista di una reintegrazione nella società. Chiaramente tutto ciò richiede una libertà di circolazione che viene garantita all’interno delle strutture; anzi, i detenuti, al mattino, escono con le chiavi della propria stanza per poter iniziare la loro giornata: una libertà di movimento, nelle ore diurne, compatibile con lo stato di detenzione.

Nel nostro ordinamento penitenziario si parla di trattamento individualizzato, ovvero si richiede che venga elaborata un’offerta trattamentale che risponda ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, ma per poter essere formulata si richiede un’osservazione approfondita della personalità del reo da parte degli operatori; eppure ciò risulta piuttosto utopico considerando il numero di persone che le nostre prigioni devono ospitare: per fare qualche esempio, Poggioreale, a Napoli, ha una capienza regolamentare di 1644 posti (anche se ospita 1905 detenuti); Regina Coeli ha una capienza di 642 posti (e 849 detenuti); il carcere di Parma ha una capienza di 463 posti (anche se vi sono 543 detenuti). In Norvegia, invece, la prigione più grande è quella di Oslo, con 392 celle, quella più piccola ha 13 celle disponibili e la media si aggira intorno alle 70 celle. È vero che la densità demografica è molto più bassa, ma è anche vero che per far fronte a situazioni emergenziali, quali il sovraffollamento, si è ricorsi ad altri stratagemmi per non compromettere la dignità delle persone. Per questa ragione è stato utilizzato il c.d. waiting list, cioè il sistema delle liste di attesa: poiché la politica utilizzata è quella di assegnare a ciascun detenuto una propria stanza con un solo posto letto, il soggetto condannato, nel caso in cui mancasse il posto, non sarà costretto insieme ad altre persone, ma verrà informato riguardo a quando e in quale carcere dovrà recarsi a scontare la pena e, nel frattempo, però, resta libero, cioè non viene sottoposto ad alcuna misura. Questo meccanismo, nato dall’esigenza per lo Stato di non voler in alcun modo derogare al criterio “una cella=un detenuto”, è stato considerato una cattiva pratica, poiché genera un’ulteriore afflizione in capo al reo. Perciò il Governo è ricorso all’affitto di carceri olandesi presso cui vengono inviati i detenuti, solo qualora vi sia il loro consenso al trasferimento, in cambio di alcuni benefici aggiuntivi (quali un numero maggiore di colloqui o di telefonate). Sempre in tema di trattamento individualizzato, poi, qualora si tratti di soggetti aventi specifici problemi con il quali il sistema penitenziario non sia in grado di confrontarsi, come una seria dipendenza, la condanna viene scontata interamente o parzialmente in una istituzione che effettui trattamenti e cure speciali, partendo dall’idea che il tossicodipendente è un soggetto che ha bisogno di cure.

L’altro grande protagonista, accanto ai detenuti, è il corpo penitenziario, e qui risiede una delle più grandi differenze con il nostro sistema, ancora caratterizzato dalle dinamiche del sorvegliare e punire. Gli agenti penitenziari, in Norvegia, devono fare un corso educativo retribuito di due anni nella Staff Academy, in cui vengono insegnate varie materie tra le quali psicologia, criminologia, giurisprudenza, diritti umani e etica. Ciascun prigioniero, poi, viene assegnato a un agente che lo assiste nei contatti con terze persone, nella ricerca di un posto di lavoro o di un alloggio in vista del ritorno in società, oppure, durante il periodo di detenzione, nel compilare delle richieste riguardanti l’esecuzione della sentenza. Ma soprattutto lo staff non è armato, perché non vi sono esigenze di sicurezza, non ci sono episodi di violenza e molto raramente è accaduto che ci fossero tentativi di evasione. Infine, esso è composto per il 40% da agenti donne.
Altro principio importante è quello dell’import model: tutti i servizi necessari sono erogati alla prigione da fornitori locali. Le prigioni non hanno il proprio staff che si occupa di prestazioni mediche, di educazione, di insegnamento, o di svolgere funzioni religiose, ma tutti questi servizi sono eseguiti da membri della comunità. Ciò permette una maggiore continuità nel garantire un servizio, ma soprattutto il coinvolgimento della società nel sistema carcerario, con un miglioramento dell’immagine della prigione e dei prigionieri.

Da questa prima descrizione emergono immediatamente le marcate differenze tra questo sistema e il nostro: un corpo di polizia che non è armato; un carcere che non viene concepito come luogo segregante, ma anzi si sforza di creare un ponte di collegamento tra detenuti e società; un percorso individualizzato e graduale che possa realmente focalizzarsi sull’individuo e che non venga sacrificato a causa del sovraffollamento o della mancanza di risorse. Queste caratteristiche non possono non riflettersi anche sulla struttura stessa di queste carceri: si tratta di piccole comunità che sorgono vicino ai centri abitativi, per permettere la vicinanza con i propri familiari, che non sono composti da filo spinato, da sbarre, da altissime mura, da strutture decadenti o da qualsiasi altro elemento che rientra nell’immaginario collettivo quando si parla di prigioni, ma sono luoghi immersi nella natura, dignitosi, moderni, puliti, tanto che nella nostra società vengono definite “prigioni a 5 stelle”, come ad indicare che il comfort, l’igiene o la privacy siano dei beni di lusso di cui i detenuti non dovrebbero godere. È questa concezione, invece, che manca in Norvegia, dove i mass media non prendono il sopravvento riportando i crimini più efferati e diffondendo un senso di intolleranza e paura, ma anzi la comunità si mostra entusiasta di questo sistema proprio perché non si sente minacciata ma, semmai, più sicura. Il sistema penitenziario norvegese, infatti, ruota intorno al concetto di “sicurezza dinamica” (dynamic security), cioè un sistema che incoraggia le relazioni interpersonali tra lo staff e i detenuti per garantire la sicurezza, in netta contrapposizione al sistema di “sicurezza statica” che caratterizza maggiormente le prigioni del resto del mondo e che si basa sulla sorveglianza costante e continua.

La Norvegia è anche il paese in cui è stato eliminato l’ergastolo nel lontano 1981 (anche se esigenze di sicurezza possono determinare l’applicazione di misure di sicurezza anche dopo la pena, ma solo nei casi più gravi, a soggetti non riabilitati e a seguito di una decisione del giudice), salvo per i casi di genocidio e crimini di guerra per i quali continua a poter essere applicato, e prevede una pena massima di 21 anni: la sentenza di condanna a pena detentiva media, però, è di 8 mesi, più del 60% sono condanne fino a 3 mesi e quasi il 90% sono misure detentive sono inferiori a un anno.
Inoltre, dopo aver scontato i due terzi della sentenza, e un minimo di 74 giorni, è già possibile richiedere la liberazione condizionale360, purché il soggetto faccia periodicamente rapporto all’ufficio di probation, si trattenga dal consumo di droghe e sostanze alcoliche e osservi le specifiche condizioni che gli vengono imposte. I servizi correzionali possono negare queste richieste ma solo basandosi su specifiche argomentazioni.

Esistono, anche in questa realtà, dei soggetti particolarmente pericolosi che sono stati sottoposti a un regime di sicurezza particolarmente alto (Particurlarly high security regime). Questo regime è stato introdotto nel 2002 e in totale è stato utilizzato solo 11 volte. Può essere applicato ai soggetti accusati di crimini di droga o di omicidio, ma per un massimo di un anno e nove mesi (escluso Anders Behring Breivik, cioè l’uomo responsabile dell’attacco terroristico del 22 luglio 2011 in cui sono morte 77 persone). Tra il 2008 e il 2011 non c’è stato alcun detenuto messo a questo livello di sicurezza. Ci sono solo tre prigioni che prevedono l’applicazione di questo regime, il più stringente presente in Norvegia, ed esse sono: Ringerike, Telemark prison e Ila. Tale regime, in modo simile al 41-bis presente nel nostro ordinamento, prevede la seguente disciplina: non è possibile avere alcun contatto con detenuti provenienti da altri regimi; i contatti previsti con detenuti presenti nelle stesse prigioni dipendono da un giudizio di sicurezza; queste socializzazioni limitate, tuttavia, sono compensate da frequenti contatti con gli impiegati della prigione e da adeguate attività di lavoro, educative e di altra natura ( tra queste, anche quelle ricreative e di piacere). Ci sono delle particolari previsioni di sicurezza per quanto riguarda la corrispondenza, le visite e le chiamate telefoniche, che sono periodicamente controllate.

La legge del 2002 (The execution of sentences act), al capitolo 6, prevede la sottoposizione a tale regime per i detenuti condannati o in attesa di giudizio che rappresentino un alto rischio di fuga, oppure per quei soggetti, coinvolti in ripetuti atti di violenza o comportamento minacciosi, ai quali le altre misure di sicurezza appaiono insufficienti.
Tale regime viene prorogato di sei mesi in sei mesi, salvo nel caso in cui una decisione amministrativa, a livello regionale, non decida di farlo continuare senza interruzioni.
I detenuti di questo livello sono sottoposti a visita medica regolare ma sempre all’interno della prigione e i colloqui sono effettuati utilizzando il vetro divisorio e sono sottoposti a controllo audiovisivo. È possibile che vengano adoperate misure meno stringenti, a seguito del consenso rilasciato dal dipartimento a livello regionale. In conclusione, benché esista una pena di questo tipo che comprime in modo molto forte i diritti di un soggetto, essa può essere una misura solamente temporanea, perché non è accettabile sottoporre una persona a queste condizioni per tanti anni o, addirittura, per tutta la vita.

Due carceri, poi, si distinguono all’interno dell’ordinamento norvegese: Bastøy e Halden.
Il carcere di Bastøy è la più grande prigione di minima sicurezza collocata sull’isola di Bastøy, un fiordo di Oslo, e ciò che la rende tanto particolare è la sua organizzazione: si tratta di una piccola comunità dove sono presenti negozi, librerie, una scuola, i servizi sociali, il ferry e diversi luoghi di incontro. La struttura, fatta a grandezza d’uomo, senza sbarre e immersa nella natura, permette di sviluppare le relazioni interpersonali tra detenuti e staff penitenziario e di acquisire un senso di responsabilizzazione, rispecchiando i principi propri di tutti i luoghi detentivi norvegesi. Le stanze sono pulite, piccole, dotate di un letto, un bagno e un televisore. Qui ci si reca, però, solo a seguito di una richiesta specifica da parte del detenuto al quale mancano da scontare massimo cinque anni. Il detenuto deve scrivere una lettera motivazionale, specificando le ragioni per le quali egli dovrebbe essere ammesso in questo carcere e mostrando il desiderio di voler migliorare se stesso. L’isola, infatti, ospita solo 115 detenuti, e la percentuale di recidiva è del 16%.
Il carcere di Halden, invece, è una struttura relativamente nuova, aperta nel 2010, ed è una prigione di massima sicurezza, ma, nonostante ciò, è anch’essa caratterizzata da spazi aperti immersi nella natura, assenza di sbarre e stanze private della stessa tipologia di quelle di Bastøy: il tutto concepito con l’intento di riprodurre un piccolo villaggio, così che i detenuti possano sentirsi parte della società. La vita interna al carcere, infatti, deve riprodurre quella esterna: per esempio il detenuto, se deve recarsi
dal medico, deve uscire dalla propria sezione e andare in un altro edificio dove si trova l’infermeria. Halden ospita 258 detenuti con pene superiori ai dieci anni364; tutti sono coinvolti nelle varie attività dalla mattina alla sera, con ore ricreative e di svago. Nonostante si tratti di una prigione di alta sicurezza, anche qui lo staff è disarmato poiché governa la medesima idea di dynamic security.

Alla luce della descrizione di queste piccole realtà ma anche dell’ordinamento penitenziario generale, emerge come nella concezione norvegese la privazione di libertà è una condanna sufficiente. Questo, però, non dovrebbe sorprenderci: la pena detentiva è, nella sua essenza, limitazione della libertà e compressione di quei soli diritti che non siano compatibili con tale stato detentivo. In Norvegia, perciò, vige la stessa regola utilizzata a Bollate: bisogna limitarsi ad applicare la legge. Tutto ciò che va oltre la detenzione, e che non trova rispondenza in strette esigenze di sicurezza, non può essere applicato, perché la prigione deve riparare e non punire, deve insegnare e non sopprimere. Solo un sistema di questo tipo, rispettoso dei diritti umani, può rendere il detenuto una persona migliore, aiutarlo e, soprattutto, reintegrarlo. Questo è ciò che prevede l’ordinamento norvegese, ed è ciò che prevede anche la nostra Costituzione.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il fallimento del carcere: ragioni e prospettive

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Informazioni tesi

  Autore: Zobeideh Hadavi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Dario ippolito
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 159

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Parole chiave

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rieducazione
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recidiva
pena detentiva
sovraffollamento carcerario
giustificazioni pena
abolire il carcere
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