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Perdonare e guarire

La percezione della sofferenza legata alla rottura del legame

Il tradimento presuppone la rottura di una condivisione e di un’appartenenza reciproca e rappresenta una delle crisi più gravi, lunghe e difficili da superare che implica la necessità di scegliere, discernere e decidere. Si tratta di un fenomeno caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi del comportamento, che non si rivelano più adeguati a far fronte alla situazione presente. Tutto è rimasto come prima, eppure niente è come prima. Nell’abbandono non si fa esperienza dell’apertura, ma della chiusura al mondo. Per questa ragione il mondo di chi vive l’esperienza dell’abbandono è un mondo che somiglia a quello senza colori di un depresso.
Gli elementi determinanti in questo fenomeno sono il tempo e l’intensità, ovvero la rilevanza dei cambiamenti affettivi, cognitivi e relazionali che sono messi in gioco. «Nel trauma del tradimento la vita del ferito diventa nuda, senza soccorso, privata dell’altro, senza immagine e senza speranza. Non è soltanto l’interruzione della presenza dell’altro, ma la caduta della sua parola e quindi della promessa. C’è addirittura chi percepisce un corpo mutilato in qualche sua parte, che tende alla frammentazione. E’ come un vero e proprio lutto in cui sebbene il mondo continua ad essere come prima, l’assenza dell’altro lo ha reso irriconoscibile, uno straniero». In questo caso il termine «elaborazione del lutto» fa riferimento al lavoro di elaborazione emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali necessari a interiorizzare l’ex compagno come parte del proprio mondo interiore e uscire dallo stato depressivo conseguente alla perdita. Fu la psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross (1969) a proporre il modello delle cinque fasi del lutto. Il modello, originariamente fu pensato per descrivere la reazione dei malati terminali, ma è applicabile anche ad altre situazioni, come divorzi o la perdita di un lavoro. Le cinque fasi in questione sono:

- Il diniego o negazione. È la fase che inizialmente può aiutare la vittima a sopravvivere all’evento traumatico, è una fase di shock perché la vita a cui si era abituati cambia in un istante e anziché sentirsi sopraffatti dal dolore, si inizia a negarlo. Man mano che la negazione svanisce, il processo di guarigione ha inizio.

- La rabbia. In questa fase si potrebbe iniziare a dare la colpa agli altri o a se stessi per il dolore che si vive. La vita è come se andasse in frantumi, come se non esistesse nulla di solido a cui aggrapparsi. Allo stesso tempo, però, la rabbia diviene la forza trainante che ci lega alla realtà e tirandola fuori, pian piano inizierà a disperdersi.

- La contrattazione. In un certo senso, questa fase è una falsa speranza poiché si crede falsamente di poter evitare il dolore attraverso un tipo di negoziazione come a voler dire se questo cambia, cambierò anche io di riflesso.

- La depressione. In questa fase le persone si ritirano credendo che il mondo sia troppo opprimente per poterlo affrontare, si sentono insensibili e non gradiscono nessuna compagnia poiché non si nutre il desiderio di voler condividere la propria disperazione.

- L’accettazione. In questa ultima fase, le emozioni iniziano a stabilizzarsi e pian piano vi è un ritorno alla realtà. E’ un momento di adattamento in cui si alternano giornate piacevoli e tristi con la piena consapevolezza della situazione attuale in cui la persona ha imparato a convivere.

Freud (1917) definisce i costrutti di lutto e melanconia, il lutto è un periodo necessario dopo la perdita, durante il quale spesso ci distacchiamo dal mondo e cerchiamo tracce della sopravvivenza della persona perduta. La melanconia, invece, può essere in un certo senso considerata un lutto senza fine e senza elaborazione. Profondo e doloroso scoraggiamento, disinteresse per il mondo, perdita della capacità di amare, arresto di qualunque attività ma anche avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione. In entrambi c’è una perdita oggettuale, ma nel melanconico è inconscia ed è riferita alla perdita di una parte dell’Io identificato con l’oggetto perduto. Si può, quindi, identificare l’elemento umano come questo io in relazione con l’altro e la perdita rivela come la nostra esistenza sia minacciata e messa in questione dalla mancanza dell’altro. «Nel caso del tradimento, gli interessi in gioco del traditore e del tradito sono spesso in contrasto, il traditore prima di lasciare la vecchia coppia vuole accertarsi che la nuova sia praticabile e funzioni meglio della precedente; il tradito, al contrario, è interessato a non continuare ad investire in un impresa che forse è già in chiusura ma a chi è stato tradito e non vuole venire meno alla promessa non restano che due opzioni: perdonare l’impossibile o l’impossibilità del perdonare».

Entrambi i gesti non dipendono dai comportamenti dell’altro ma da un raccoglimento e una decisone del soggetto tradito. Il perdono è come dire un sì ad un altro incontro possibile con chi abbiamo amato, è il gesto più alto dell’amore che non può essere indotto o forzato da alcuno. Si può però perdonare anche per paura di perdere l’oggetto o per preservare e difendere l’ordine familiare, in questo caso non c’è stato un effettivo lavoro del perdono ma una fuga nel perdono per evitare l’incontro angosciante con la propria solitudine. Solo il lavoro del perdono può generare una nuova gioia, anche se esso non dissolve tutto quello che è stato ma lo rilancia avanti rendendolo possibile in una nuova forma. E’ un lavoro che esige tempo ed inizia sullo sfondo di una interruzione della presenza: l’altro che amavamo ci ha voltato le spalle e come per il lavoro del lutto, è sempre in noi che deve essere simbolizzato chi non c’è più. Ma a differenza del lutto, dove non resta più niente dell’oggetto, il lavoro del perdono affronta l’interruzione della presenza. E’ dunque il soggetto a dover decidere se dare ancora vita a quell’amore o decretarne la fine. E’ come se il perdono ci ponesse di fronte alla ferita ma anche alla possibilità di un nuovo inizio. L’orgoglio dell’io tenderebbe a rendere difficile questo lavoro, il perdono infatti non registra nessun guadagno di prestigio perché suppone sempre un distanziamento dalla propria immagine narcisistica. A volte, infatti, vi è tanto orgoglio in noi e poco amore ma è proprio l’assenza dell’amore che genera sentimenti di ansia, paura, angoscia e disperazione. L’odio ci isola, rende tristi, accresce l’egoismo e spegne l’entusiasmo. In genere si pensa che perdonare sia un’azione a beneficio del perdonato, ma è altrettanto vero che il perdono va prima di tutto a beneficio della persona stessa che matura e realizza questa capacità, infatti, costituisce di per sè una potente terapia in grado di alleviare il dolore. Il lavoro del perdono è un arretrare, un ritirarsi, un ridisegnare la propria immagine.
E’, ad esempio, il gesto di Gesù di fronte all’adultera: chinarsi verso terra, passare da una versione solo punitiva della legge alla legge dell’amore e della parola. Il più delle volte, però, la persona tradita finisce per porsi sullo stesso piano del traditore perché volendo reagire al torto subito, viene meno ai propri valori e cede a sentimenti di rancore e odio. Un simile comportamento non ha in sè niente di creativo ma genera una spirale dalla quale scaturisce solo degrado, che a sua volta avvierà un processo continuo e diretto verso il basso. Perché una riappacificazione abbia luogo è infatti necessario che vittima e offensore siano entrambi motivati a ricucire il loro reciproco rapporto e che traducano le loro intenzioni in atti concreti, in comportamenti tali da risanare di fatto la relazione.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Perdonare e guarire

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Informazioni tesi

  Autore: Simona Russo
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2018-19
  Università: UKE - Università Kore di Enna
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Scienze e tecniche psicologiche
  Relatore: Giuseppe Craparo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 28

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