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Il controllo sull’ammissibilità del referendum abrogativo e il rischio di un giudizio anticipato di legittimità costituzionale

Il vincolo dell’esito del referendum per il legislatore

Di complicata soluzione appare il problema del vincolo giuridico che l’esito positivo del referendum, collegato all’intento dei promotori, può produrre nei confronti della successiva attività legislativa. Una delle soluzioni avanzate dalla dottrina assume il referendum come preminente nei confronti dell’atto posto in essere dal potere rappresentativo quindi una legge che ripristina la normativa abrogata con il referendum dovrebbe essere definita come costituzionalmente illegittima. Siffatta impostazione dovrebbe portare a riconoscere un eguale vincolo dell’esito referendario qualora la pronuncia popolare fosse a favore del mantenimento in vigore di una legge di conseguenza, se il referendum avesse esito negativo, la normativa non abrogata non potrebbe essere modificata dal legislatore. Questa tesi, tuttavia, attribuisce una rilevanza peculiare tra le fonti del diritto degli strumenti di democrazia diretta e colloca il referendum abrogativo non a livello di legge ordinaria, ma ad un livello gerarchicamente superiore. In questo modo, però, verrebbe imposto un divieto assoluto di ripristinare la normativa abrogata e quindi un’incompetenza del legislatore a modificare o abrogare la legge sulla quale vi è stata consultazione referendaria ed, inoltre, il Parlamento verrebbe privato della funzione per la quale è stato previsto. L’organo legislativo deve poter esercitare le funzioni ad esso attribuite e non si può vietare di legiferare nel caso di mutamento delle condizioni sociali e politiche.

L’esistenza di un vincolo per il legislatore viene previsto dalla dottrina che, con il ricorso al criterio della lex posterior, sostiene che non potrebbe escludersi la possibilità per il legislatore di riprodurre la normativa abrogata dal referendum, ma sostiene che ciò non può avvenire per «ragioni di correttezza». La prevalenza di una fonte può essere dovuta al fatto che il sistema delle fonti nel nostro ordinamento è ordinato secondo i criteri della gerarchia e della competenza o anche alla previsione di una riserva esclusiva di competenza che inibisce l’intervento di fonti parallele nella disciplina della materia. Nel nostro ordinamento, però, non si trova riscontro della superiorità gerarchica del referendum, difatti la sua posizione è ancorata a livello delle fonti primarie.
Un’altra tesi è quella del vincolo temporaneo che prevede il divieto di ripristino della normativa per la legislatura in corso, ma questa argomentazione presenta degli inconvenienti pratici, poiché le nuove elezioni politiche potrebbero svolgersi a breve distanza dalla votazione referendaria, con la conseguenza di non rendere effettivo tale vincolo. Il divieto potrebbe avere una durata quinquennale in analogia con il divieto di ripresentare le richieste che abbiano lo stesso oggetto del referendum il cui risultato sia stato contrario all’abrogazione. Un’altra soluzione viene prospettata da chi ritiene che il vincolo permane fino al rinnovo delle Camere che determinerebbe una situazione politicamente e giuridicamente nuova. Per dare certezza alla quale altri ritengono che si debba, invece, attendere il sopraggiungere di fatti nuovi che diano effettivamente la percezione di un cambiamento di opinione del corpo elettorale. In questo modo sarebbe vietato ridare vita alla norma abrogata dal referendum fino a che le condizioni politiche, sociali ed economiche presenti al momento della pronuncia popolare rimangono inalterate.

La supremazia gerarchica del referendum non può essere desunta neanche in riferimento al principio fondamentale di sovranità popolare e quindi la volontà referendaria non può essere considerata prevalente rispetto alla legislazione dell’organo rappresentativo. In assenza di riferimenti positivi la supremazia del referendum non può ritenersi legittima.
Nel nostro ordinamento non esiste un criterio che giustifichi in alcun modo l’illegittimità di un atto legislativo volto a ripristinare la disciplina abrogata dal referendum, ma in dottrina si ritiene che il referendum abbia una forza passiva peculiare dalla quale possono dipendere i fattori politico-istituzionali.

La presenza di una finalità intrinseca del quesito referendario perseguita dai promotori, che condiziona il giudizio di ammissibilità del quesito referendario, può esplicitare una correlazione tra la volontà referendaria e le scelte conseguenziali del legislatore statale. I quesiti dai quali può essere ricavato un profilo teleologico meritevole di apprezzamento offrono al legislatore un’indicazione per la linea da seguire per legiferare in materia. Parte della dottrina, in senso difforme, ritiene invece che legiferare in senso contrario all’esito referendario comporti unicamente una responsabilità politica da parte del legislatore.
Secondo altra dottrina, ciò che si ricava dal risultato del referendum impone una continuità dei contenuti dell’attività parlamentare rispetto alle istanze referendarie. In questo modo, però, si rafforzerebbe il ruolo degli istituti di democrazia diretta, ponendoli in contrasto con il potere rappresentativo senza che sia presente nell’ordinamento una disciplina che regoli questo rapporto.
Il rapporto tra esito referendario e legge successiva può essere inteso nel senso di una prevalenza del primo unicamente contro atti di ripristino della normativa abrogata. Il Parlamento ha la facoltà di approvare una disciplina in sintonia con la ratio referendaria, ma potrebbe procedere ad una rivalutazione del quadro normativo solamente in ragione di sopravvenute contingenze politico-istituzionali che possano giustificare l’adozione di una nuova disciplina divergente dalla volontà abrogativa del corpo elettorale.
Il rapporto tra istituti di democrazia diretta e potere rappresentativo porta alla ricerca di possibili filtri istituzionali idonei a preservare l’effettività della decisione referendaria. Si potrebbe ricorrere al potere di veto sospensivo da parte del Presidente della Repubblica qualora gli atti legislativi andassero ad eludere l’intento referendario. Una legge che ripristina la normativa abrogata in sede referendaria avrebbe il senso di stimolare un giudizio di responsabilità sull’operato della maggioranza legislativa «da cui potrebbe scaturire la decisione di un ritiro del testo approvato in prima lettura». Si potrebbe considerare la possibilità del rinvio della legge alle Camere, operato dal Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della stessa. Si tratterebbe, per alcuni, di un caso di rinvio per ragioni di merito costituzionale, fondato su un oggettivo esame dei riflessi della legge sul complessivo funzionamento del sistema disegnato dalla Costituzione. Il rinvio potrebbe essere considerato come opposizione alla legge motivata da interessi generali come il rispetto della volontà della maggioranza degli elettori collegati alla posizione imparziale del Presidente.
Il rinvio in sede di promulgazione della legge riproduttiva di quella abrogata dal corpo elettorale non si configura quale rimedio decisivo data l’inopponibilità della volontà presidenziale dinanzi alla reiterata volontà delle Camere di riapprovazione della legge. Per questo è stato da alcuni prospettata la possibilità di adottare lo scioglimento anticipato delle Camere, da cui si deduce che questo tipo di conflitto può essere configurato come politico.
La Corte costituzionale ha dichiarato per la prima volta l’illegittimità costituzionale di una norma per violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata tramite referendum con la sentenza n. 199 del 2012. Anche se la sentenza rappresenta un fatto nuovo, il principio che l’ha ispirata è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, ma la Corte non fornisce spiegazioni circa il fondamento costituzionale di questo principio. Da alcuni il divieto di ripristino della normativa abrogata viene giustificato da una superiorità della volontà espressa dal corpo elettorale.

Nell’ordinanza n. 9 del 14 gennaio 1997 la Corte ha stabilito che la legge successiva al referendum è soggetta al sindacato di legittimità costituzionale nel quale verrà garantito il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare. Nella sentenza n. 468 del 1990 la Corte ha riconosciuto al referendum la qualità di atto-fonte dell’ordinamento ed ha stabilito che il referendum manifesta una volontà definitiva ed irripetibile, a differenza del legislatore parlamentare che può correggere ed anche dissolvere quanto ha in precedenza statuito. Per questo il Parlamento ed il Governo non possono compiere la scelta politica di far rivivere la normativa abrogata a titolo transitorio e neanche l’interprete può compiere operazioni logiche per la sua ultrattività.
La Corte, inoltre, nella sentenza n. 32 del 1993 ha previsto che, nel caso in cui la normativa di risulta del referendum dia luogo ad inconvenienti, il legislatore può «correggere, modificare o integrare la disciplina residua», ma questo può avvenire nei limiti del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare. Interventi legislativi successivi possono risolvere difficoltà applicative della normativa di risulta, però con il limite di non reintroduzione di quanto abrogato con il referendum.
Nel caso in cui il legislatore introduce una nuova disciplina della materia senza modificare i principi che ispiravano la normativa abrogata e i suoi contenuti essenziali si crea un contrasto con l’intento perseguito tramite il referendum abrogativo e il vincolo «si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale».
Per la Corte il vincolo viene meno se si verifica un mutamento del quadro politico o delle circostanze di fatto. Il mutamento del quadro politico può configurarsi a seguito di un intervento del corpo elettorale che fa iniziare la legislazione successiva nel corso della quale sia avvenuta l’abrogazione referendaria. Il Parlamento, comunque, deve effettuare un’attenta valutazione circa l’opportunità politica della reintroduzione della normativa abrogata.
Riguardo il mutamento delle circostanze di fatto la Corte non ha dato indicazioni dettagliate, non essendo determinabili in via preventiva gli elementi il cui cambiamento può far presumere che la decisione del corpo elettorale sarebbe di segno contrario in caso di una nuova consultazione.
La Corte, stabilendo un limite per questo vincolo, anche se flessibile, ha voluto evitare che la disciplina abrogata dal referendum diventasse definitivamente sottratta alla discrezionalità del legislatore e assumesse la qualità di fonte paragonabile, per certi versi, alle prescrizioni costituzionali.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il controllo sull’ammissibilità del referendum abrogativo e il rischio di un giudizio anticipato di legittimità costituzionale

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Informazioni tesi

  Autore: Michela Guidi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Elisa Olivito
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 135

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corte costituzionale
referendum abrogativo
giudizio di legittimità costituzionale

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