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Sperimentare l'autoetnografia a teatro. Un percorso di ricerca qualitativa con i Cantieri Meticci a Bologna

L’autoetnografia

Cosa intendiamo quando parliamo di autoetnografia?
Con questo termine vogliamo introdurre una particolare modalità di fare ricerca sociale che Carolyn Ellis (2011) definì come "un approccio di ricerca e un modo di scrittura che intende descrivere e analizzare sistematicamente (graphy) le esperienze personali (auto) allo scopo di comprendere le esperienze culturali (ethno)" (p. 274). L’autoetnografia può essere collocata all’interno del più ampio spettro di ricerca etnografica svolta attraverso l’osservazione partecipante che si sviluppa in seguito della pubblicazione del volume “Argonauti del Pacifico occidentale” dell’antropologo polacco Bronislaw Malinowski (1914). Non ci si propone più di spiegare i fenomeni, ma piuttosto di cercare di conoscerli attraverso la comprensione (e poi restituirli con la scrittura, con le immagini, con i video, ecc…), guardando il mondo, per quanto possibile dal “punto di vista del nativo”. L’altro non è più il “selvaggio”, il diverso da noi, come veniva presentato nelle etnografie positiviste, ma viene raccontata un’esperienza culturale con l’obiettivo di arrivare a descrivere anche sé stessi, e quindi la cultura nella quale si è inseriti. Volendo tracciare una panoramica storica, l’emergere dei primi dibattiti riguardo questa pratica etnografica e la stesura delle ricerche risale agli anni ’60. Un dibattito che si amplia e si arricchisce nel corso del tempo, in particolare dagli anni ’80 sulla scia della svolta postmodernista nelle scienze sociali e l’uscita di fondamentali testi come Writing Culture di James Clifford e George E. Marcus (1986). Le nuove riflessioni si riferiscono ad alcuni ambiti e momenti riguardanti le pratiche etnografiche. Si inizia a focalizzare l’attenzione sulla soggettività di chi fa ricerca, viene quindi data una maggiore rilevanza alla dimensione personale e biografica del ricercatore. Viene sottolineato, inoltre, il ruolo determinante che assume la scrittura nella produzione di conoscenza nelle scienze sociali con una ferma volontà di superare il confine stabilito con la letteratura; l’obiettivo arriva ad essere quello di cercare di combinare insieme prospettive diverse: storiche, antropologiche e allegorico-letterarie. Infine, non si può più fare a meno di considerare l’importanza dell’advocacy all’interno della ricerca (Gariglio, 2017). Queste novità però non portarono però ad un automatico sviluppo dell’autoetnografia che continua ad essere un ambito di ricerca di nicchia, spesso autoreferenziale e collocato ai margini dell’accademia. Solo negli anni duemila l’autoetnografia inizia ad essere considerata e a ricevere riconoscimenti istituzionali, l’interesse verso questo metodo da parte di diversi studiosi lo si deve anche al clima culturale più incline rispetto al passato all’interdisciplinarietà, all’intersezionalità e al riconoscimento delle differenze.

In sintesi, secondo Gariglio (2017, p.6) quest’inversione di tendenza è dovuta principalmente a quattro fattori:
1. il riconoscimento della dimensione sociale della ricerca scientifica;
2. l’accresciuta rilevanza della dimensione letteraria ed estetica nel campo etnografico;
3. una maggior consapevolezza ed attenzione alla dimensione etica del fare e del pubblicare ricerche;
4. l’importanza crescente data nella pratica di ricerca alla soggettività e all’incorporamento in un periodo caratterizzato dal diffondersi dei movimenti pacifisti, delle rivolte studentesche, delle lotte per i diritti degli afroamericani, dei membri della comunità che poi si chiamerà GLBTQ.

Inoltre, c’è una crescente consapevolezza riguardo gli innumerevoli modi in cui l'esperienza personale influenza il processo di ricerca. Anche se alcuni ricercatori ritengono ancora che la ricerca possa essere condotta da una posizione neutrale, impersonale e obiettiva, la maggioranza ora riconosce che tale ipotesi non è sostenibile. Di conseguenza, l’autoetnografia entra a far parte degli approcci che ammettono e accolgono la soggettività, l'emozionalità e l'influenza del ricercatore sulla e nella ricerca, piuttosto che nasconderli o presumere che non esistano (Ellis, Adams, Bochner 2011).
L’etnografo che decide di utilizzare l’autoetnografia come pratica di ricerca rivolge quindi l’attenzione in una duplice direzione: da un lato, verso la riflessività della pratica di ricerca e verso la propria soggettività, dall’altro verso la comprensione di un certo fenomeno culturale e/o sociale del mondo che rimane ancora la principale ragione di essere della pratica etnografica (Ibidem). Infatti, dobbiamo ricordare che l'esperienza del ricercatore non è l'obiettivo principale, ma che la riflessione personale aggiunge contesto e livelli alla storia raccontata sui partecipanti alla ricerca. L'autoetnografia apre una lente più ampia sul mondo, evitando definizioni troppo rigide in accordo con l’idea che le persone possiedono diversi presupposti sul mondo: una moltitudine di modi di parlare, scrivere, valutare e credere e che i sistemi convenzionali di fare e pensare la ricerca possono risultare ristretti e limitanti. Questo metodo sfida quindi le canoniche modalità attraverso cui si fa ricerca, considerandola come un atto politico e socialmente consapevole (Ibidem). Innanzitutto perché l'autoetnografo cerca non solo di rendere significativa l'esperienza personale e di coinvolgere l'esperienza culturale, ma anche di produrre testi significativi, evocativi ed accessibili, in grado di raggiungere un pubblico più ampio e diversificato che la ricerca tradizionale di solito ignora; una mossa che può rendere possibili cambiamenti personali e sociali per più persone. Ci si concentra quindi sulla sensibilizzazione riguardo le forme di rappresentazione attraverso narrazioni co-costruite che illustrano i significati delle esperienze relazionali, in particolare il modo in cui le persone affrontano in modo collaborativo le ambiguità, le incertezze e le contraddizioni presenti nella vita quotidiana. Questo è reso possibile anche dal fatto che il metodo autoetnografico si propone di superare il dibattito sulla considerazione dell’etnografia come una scienza o una forma letteraria di narrazione. La dimostrazione che i confini tra i generi, tra le diverse forme di discorso sul mondo, sono labili è data dal fatto che per scrivere un’autoetnografia i ricercatori utilizzano caratteristiche dell’autobiografia combinati con quelle dell’etnografia, senza che la ricerca perda in rigorosità, in quanto l’esperienza viene guardata analiticamente. L’importanza data al soggetto-scrittore si sviluppa a partire dalle esperienze biografiche incorporate del ricercatore, e di quelle altrui, descritte in forma narrativa. Il racconto si sviluppa già durante l’esperienza, non successivamente: note, riflessioni, sensazioni, diari, commenti sono già parte della narrazione. L’intreccio tra le esperienze biografiche, personali e professionali dell’autore e le pratiche culturali e sociali all’interno delle quali quelle esperienze hanno preso forma permettono di rendere gli eventi coinvolgenti ed emotivamente ricchi (Ellis, Adams, Bochner 2011). Un tale approccio consente di documentare i modi in cui il ricercatore cambia a seguito del lavoro sul campo: l’autoetnografo si trova quindi concretamente a studiare la sua vita insieme alla vita dei membri culturali con cui ha costruito il progetto di ricerca (Ibidem).

Questo brano è tratto dalla tesi:

Sperimentare l'autoetnografia a teatro. Un percorso di ricerca qualitativa con i Cantieri Meticci a Bologna

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Informazioni tesi

  Autore: Matilde Valenti
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Padova
  Facoltà: Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata (FSPPA)
  Corso: Culture, formazione e società globale
  Relatore: Annalisa Frisina
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 100

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Parole chiave

migrazioni
ricerca sociale
razzismo
spazio pubblico
inclusione sociale
arti performative
studi postcoloniali
autoetnografia

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