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I drivers della performance d’impresa: un’analisi sui “campioni” toscani

Management e creazione del valore

Larson e Clute (1979), analizzando un campione di 350 piccole imprese operanti nell'area di Chicago, indagano sui principali sintomi che portano un'azienda al fallimento; sebbene l'articolo in questione risalga alla fine degli anni '70, le conclusioni tratte dai due autori ci sembrano estremamente attuali. Essi suddividono tali sintomi in tre categorie: riteniamo opportuno fornire una visione d'insieme dei principali aspetti emersi dallo studio in questione.

La prima categoria riguarda le "personal characteristics" dei manager. I manager che falliscono più frequentemente:

* sebbene abbiano solitamente buone competenze tecniche, si rivelano carenti per quanto riguarda le loro capacità manageriali e strategiche. Di conseguenza i processi decisionali si rivelano spesso basati sull'intuito e sulle sensazioni dei manager, piuttosto che su solide basi razionali.

* attribuiscono molta importanza all'esperienza lavorativa, sottovalutando il ruolo dell'istruzione.

* fanno ricorso esclusivamente alla propria esperienza, non si informano sulla storia del settore o dell'azienda e non si aggiornano sulle dinamiche riguardanti il business in cui operano. Ciò comporta un orientamento al passato anziché al futuro, che a sua volta dà luogo a una riduzione della capacità innovativa e della flessibilità organizzativa. Il secondo insieme di sintomi è quello delle "managerial deficiences": si tratta di aspetti che emergono soprattutto dalle interviste rivolte ai manager. Le principali carenze manageriali riscontrate sono:

* l'assenza di una segmentazione del mercato: manca un'identificazione della clientela target, pertanto risulta particolarmente difficile adottare adeguate strategie di marketing.

* coerentemente con quanto appena affermato, mancano adeguate politiche di marketing: ad esempio, le strategie di pricing consistono spesso nella semplice imitazione dei competitors. Inoltre le imprese esaminate rivelano frequentemente una scarsa conoscenza dei canali distributivi.

* viene spesso sottovalutata l'importanza di identificare una "trading area" in cui operare. I luoghi in cui un'azienda stabilisce le proprie sedi (sia commerciali sia produttive) possono invece rivelarsi un fattore critico di successo.

* mentre abbiamo visto che nelle grandi aziende la funzione di alta amministrazione e quella del day-by-day management sono distinte e affidate ad organi diversi (rispettivamente al C.d.A. e agli executive manager), i piccoli imprenditori sono solitamente restii alla delega. Essi tendono ad occuparsi personalmente di tutta l'attività gestionale senza affidarsi ad altri soggetti, causando talvolta una riduzione dell'efficienza organizzativa.

* infine emerge un problema di carattere più psicologico che economico: i piccoli imprenditori intervistati attribuiscono eventuali situazioni di crisi a fattori esogeni quali la recessione economica e la contrazione della domanda. L'ultima delle categorie considerate comprende i cosiddetti "financial shortcomings" tipici delle PMI, sui quali ci siamo già soffermati:

* le piccole imprese presentano spesso sistemi di registrazione contabile carenti, pertanto le registrazioni si possono rivelare incomplete. Inoltre in gran parte delle aziende esaminate viene frequentemente trascurato il problema del cash flow e del capitale circolante; l'evidenza empirica mostra invece che gran parte dei problemi che affliggono le PMI sono riscontrabili proprio nella mancanza di liquidità.

* il 40% delle aziende del campione mostra evidenti difficoltà nella gestione delle scorte. La mancanza di un "inventory control" è spesso la causa di gravi inefficienze economiche: ad esempio, l'assenza di prodotti finiti in magazzino nel momento del bisogno può portare alla perdita di interessanti opportunità di vendita. Un'impresa che detiene troppe scorte in magazzino è invece soggetta a un aumento dei costi di manutenzione, alla svalutazione delle rimanenze e ad eventuali perdite di valore delle giacenze.

Dall'analisi emerge che la causa primaria di default nelle piccole imprese è la carenza di un’adeguata esperienza manageriale. Tale problema è dovuto in primo luogo alla riluttanza da parte dei piccoli imprenditori ad ampliare l’assetto manageriale consentendo l’ingresso a soggetti esterni, dotati di competenze manageriali più evolute; in secondo luogo, la carenza di risorse finanziarie non consente alle PMI di assumere manager professionisti. Successivamente anche Peterson, Kozmetsky e Ridgway (1983) compiono uno studio sulle principali cause di default, andando ad intervistare i proprietari e i manager (figure spesso coincidenti nelle PMI) di circa 1000 piccole imprese americane. Per avere chiarezza sulla percezione dei soggetti intervistati riguardo alle circostanze che portano le imprese alla crisi, nonché ai possibili rimedi da attuare per scongiurare tale situazione, essi propongono due domande: 1)"What do you think is the primary cause of small business failures in this country?" 2) "What do you think could be done to reduce the failure rate among small businesses?" Coerentemente con le conclusioni tratte da Larson e Clute (1979), la principale determinante del fallimento delle aziende risulta essere una carenza di esperienza manageriale. Per rimediare a questo problema è opportuno che le aziende utilizzino le proprie risorse finanziarie per assumere manager istruiti e ben preparati; inoltre "it would appear that a program of hands-on management education would be a firststep in reducing the failure rate among small businesses". A differenza di quanto affermato da Larson e Clute, nelle interviste effettuate da Peterson, Kozmetsky e Ridgway solo un terzo dei soggetti attribuisce la situazione di crisi aziendale alle "noncontrollable forces", ovvero a fattori esogeni quali il tasso d'interesse, la disoccupazione o la legge. Ciò dimostra una maggiore consapevolezza, da parte sia dei manager che degli shareholders, della forte influenza che essi possono esercitare sulla performance aziendale.
L’impatto dei fattori esogeni sulla performance d’impresa è comunque un fattore di primaria importanza; tuttavia il management ha il compito di agire in modo tale da cogliere le opportunità offerte dall’ambiente esterno e scongiurare le eventuali minacce. In questo senso il management può comportarsi in modo reattivo, ossia adeguare il proprio comportamento e le strategie aziendali alle diverse contingenze, oppure in modo proattivo, innescando esso stesso il cambiamento senza aspettare che questo sia imposto dall’esterno. Il primo modus operandi richiede un ampio grado di flessibilità organizzativa, mentre il secondo richiede una continua analisi del contesto e, citando Compagno (1997) , un “governo attivo dell’ambiente transazionale”. Coerentemente con quanto affermato in precedenza, in questo articolo l’autrice propone una distinzione fra adattamento passivo (o reattivo) e adattamento proattivo. Già all’inizio degli anni ’70, Greiner (1972) sostiene l’importanza di un atteggiamento proattivo da parte del management: egli propone un modello finalizzato a guidare i manager durante le varie fasi di crescita aziendale. Il processo di crescita viene considerato come un presupposto fondamentale per la sopravvivenza di un’impresa e viene suddiviso in cinque fasi; ad ogni fase di evoluzione, caratterizzata da una crescita lineare e stabile, segue una fase di rivoluzione, ovvero un breve periodo di turbolenza che sconvolge gli equilibri e le routine organizzative preesistenti. Le cinque fasi di “evolution” e “revolution” sono illustrate nella figura sottostante.

Pur senza sottovalutare l’impatto della crescita (o del declino) del settore di appartenenza, Greiner asserisce che il management ha il potere e il dovere professionale di adeguare il proprio comportamento alla fase in cui si trova ad operare. Allo stesso tempo, però, il susseguirsi delle diverse fasi e la loro durata sono una conseguenza delle scelte manageriali: il principale driver del successo è considerato quindi un atteggiamento proattivo da parte dei soggetti che gestiscono l’impresa. Sull’importanza della proattività si esprimono anche Weitzel e Jonsson (1989), i quali però analizzano una situazione diametralmente opposta alla crescita, ovvero il declino aziendale. Secondo i due autori, una delle principali competenze che il management deve avere consiste nel saper individuare una situazione potenzialmente critica ancora prima che essa si manifesti. Anche in questo caso vengono individuate cinque fasi, al termine delle quali l’impresa cessa di esistere; quanto prima si riesce ad intervenire sul problema, tanto più semplice e meno dispendiosa risulta la sua soluzione. Come illustrato dalla seguente immagine, mentre agli albori della crisi può essere sufficiente ottenere un adeguato grado di informazione per intraprendere gli opportuni provvedimenti, quando la crisi è conclamata risulta difficile anche effettuare un turnaround per invertire la tendenza.
Abbiamo già accennato al “generic non-financial model” proposto da Lussier (1995), un modello volto ad individuare le probabilità di successo e di fallimento delle imprese utilizzando 15 indicatori esclusivamente qualitativi. Fra questi, la maggior parte fa riferimento alle caratteristiche del management. I risultati dello studio si rivelano coerenti con quanto affermato da Bubbio (2012)166: perché un’impresa possa ottenere una buona performance nel medio-lungo periodo, è fondamentale un adeguato processo di pianificazione strategica. Tale pianificazione deve comprendere anche i criteri di assunzione e di selezione del personale: le risorse umane presenti nell’azienda sono infatti un importante fattore critico di successo. L’indicatore utilizzato per valutare l’assunzione di dipendenti di qualità (staffing) risulta però inversamente proporzionale alla performance delle imprese esaminate. Sebbene tale conclusione possa sembrare incoerente con l’importanza di avere dipendenti di qualità, Lussier chiarisce che essa è dovuta al problema del cosiddetto “overstaffing”: si tratta di un fenomeno che emerge quando il numero dei dipendenti o dei membri che compongono i team di progetto è eccessivo, esercitando così un impatto negativo sulla performance. Finkelstain (1992) introduce un’altra variabile manageriale che può esercitare un forte impatto sulla performance d’impresa, ossia il “top manager’s power”. Si tratta ancora una volta di un aspetto di tipo qualitativo e, in quanto tale, difficilmente misurabile e confrontabile. Secondo l’autore, la letteratura economica si concentra molto sulle teorie organizzative e sulla strategia d’impresa, sottovalutando però l’importanza del potere esercitato dal management, un tema interdisciplinare (con evidenti risvolti psicologici,
sociologici e antropologici) che incide fortemente sulle dinamiche interne a un’azienda. Ad esempio, per comprendere i processi di decision making di un’impresa gestita da un CEO accentratore e con un forte potere decisionale, è opportuno capire quali sono i suoi obiettivi ed il suo modo di ragionare. Altrimenti, se le decisioni sono prese in maniera collegiale, è più utile individuare l’orientamento prevalente del management, nonché le coalizioni dominanti presenti al suo interno. Analizzando poi la distribuzione del potere fra le diverse strategic business units e all’interno dei singoli team di progetto è possibile avere un grado di conoscenza delle dinamiche aziendali ancora maggiore. Finkelstein individua quattro componenti principali del top manager’s power:

* Ownership power: è dato dalla quantità di azioni detenute dal manager o da eventuali legami familiari con i proprietari dell’impresa.

* Structural power: è strettamente correlato al precedente e consiste nella posizione gerarchica ricoperta dal manager all’interno dell’azienda.

* Expert power: comprende sia il livello di istruzione del manager, sia le sue esperienze lavorative passate, in particolare all’interno del business in cui opera l’azienda. Il grado di esperienza manageriale dovrebbe essere direttamente proporzionale alla sua capacità di gestire l’incertezza ambientale; tale componente risulta però meno influente delle altre nel determinare il potere del management. Similmente, Lussier (1995) individua perfino una relazione inversa fra l’istruzione dei manager e il loro grado di “education”, mentre la loro esperienza sembra avere un impatto leggermente positivo.

* Prestige power: il prestigio dei manager risulta influire notevolmente sulla performance d’impresa. Se il management gode di una buona reputazione presso gli stakeholders, aumenta la capacità dell’impresa di intrattenere buone relazioni con i partner commerciali.

Su quest’ultimo aspetto si esprime anche il celebre economista Richard D’Aveni (1990), il quale compie un’analisi sul rapporto fra il “managerial prestige” e tasso di default delle imprese. L’obiettivo della sua analisi è duplice: in primis si vuole capire in che modo, analizzando il prestigio dei manager, sia possibile migliorare le previsioni sulla probabilità di fallimento delle imprese. L’analisi mostra che, all’aumentare del prestigio manageriale, migliorano sia le relazioni economiche sia quelle politiche intrattenute dall’impresa. In secondo luogo viene studiato come cambia il supporto degli stakeholders quando i manager di maggior prestigio abbandonano l’azienda. Per quanto concerne quest’ultima circostanza, l’esodo dei manager più prestigiosi (soprattutto se avviene durante un periodo di difficoltà economica) è solitamente un segnale di non ripresa, pertanto diminuisce la fiducia degli stakeholders. Dal paper appena citato, emerge una funzione simbolica del management, ovvero quella di accrescere la fiducia da parte dei soggetti con i quali si relaziona l’impresa. Una delle principali categorie di stakeholders con le quali le aziende devono interfacciarsi è rappresentata dagli istituti di credito, soprattutto in contesti economici bank-oriented come quello italiano. Si tratta di un aspettoparticolarmente critico in particolare per le società non quotate, le quali hanno un accesso limitato al capitale di rischio. In linea generale, quanto migliore è la reputazione di un’impresa, tanto minore sarà il premio per il rischio richiesto dai finanziatori e, di conseguenza, il tasso di interesse applicato. Berger e Udell (1995) compiono un’analisi particolarmente approfondita sulle relazioni di credito, analizzando un campione di 3400 piccole imprese americane. Alle imprese oggetto di studio viene somministrato un questionario di circa 200 domande, gran parte delle quali riguardano il loro utilizzo del capitale di credito e le loro relazioni con le istituzioni finanziarie; l’obiettivo ultimo di questa analisi consiste nell’individuare le variabili aziendali che incidono maggiormente sul premio per il rischio richiesto dai prestatori di capitale. Secondo i due autori, le due variabili più importanti in questo senso sono la “age” e la “relate”. La prima consiste semplicemente nell’età dell’azienda: solitamente le banche applicano un tasso d’interesse inferiore a un’azienda più matura rispetto a quello applicato a una start-up, poiché la solvibilità di quest’ultima è soggetta ad un maggiore grado di incertezza. I risultati empirici mostrano che un’impresa di undici anni paga mediamente il 33% di interessi in meno rispetto a una di un anno. La “relate” fa invece riferimento alla durata della relazione fra banca e impresa; anche in questo caso i risultati mostrano una relazione inversamente proporzionale fra la durata e il tasso di interesse. Si tratta di una variabile ancora più determinante sul premio per il rischio richiesto dai creditori: un’azienda di undici anni paga mediamente il 48% in meno rispetto agli interessi pagati da un’azienda di un anno. La fiducia ottenuta dagli istituti di credito risulta essere un fattore di primaria importanza per le piccole imprese: poiché la loro trasparenza informativa è generalmente minore rispetto alle grandi società quotate, per ottenere un tasso d’interesse contenuto devono fare in modo che i finanziatori non percepiscano un rischio troppo elevato. Petersen e Rajan (1994) arrivano alla stessa conclusione: “The empirical results suggest that the availability of finance from institutions increases as the firm spends more time in a relationship, as it increases ties to a lender by expanding the number of financial services it buys from it, and as it concentrates its borrowing with the lender”.In questo senso non dobbiamo sottovalutare il ruolo del rapporto “personale” fra la banca e il piccolo imprenditore; mentre però fino a pochi decenni fa questo tipo di rapporto aveva un ruolo di primaria importanza, in tempi più recenti tende ad essere sostituito dai modelli di rating e dai “collaterals”. Sebbene la reputazione di un’impresa sia già di per sé una garanzia, Berger e Udell mostrano che i collaterals possono ridurre notevolmente il premio per il rischio richiesto. Anche in questo caso però la durata della relazione banca-impresa incide notevolmente: infatti, non solo i “borrowers” con una relazione più stabile e duratura pagano meno interessi, ma solitamente gli intermediari finanziari richiedono loro meno garanzie.

Questo brano è tratto dalla tesi:

I drivers della performance d’impresa: un’analisi sui “campioni” toscani

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Informazioni tesi

  Autore: Luca Mugelli
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli Studi di Firenze
  Facoltà: Economia
  Corso: Governo e Direzione d'Impresa (management)
  Relatore: Francesco Ciampi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 238

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