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Stile e canone in Robert Bresson

La cinepresa frammenta lo spazio: un film di oggeti, un film dell'anima

La macchina da presa non si muove quasi mai, se lo fa è solo per seguire brevemente l’azione; anzi, in un’inquadratura straordinaria il movimento è dato dall’immobilità della macchina stessa: cinepresa fissa sino alla dissolvenza; Fontaine seduto in macchina, dietro, vicino alla portiera; Fontaine tenta la fuga dall’auto; scompare dal campo visivo - rumore di spari; dal lunotto posteriore si vedono confusamente tre figure che tornano verso l’auto; Fontaine si siede; l’autista lo colpisce col calcio della pistola – dissolvenza.

Questa soluzione è uguale a quella di Diario di un curato di campagna: camera fissa sino alla fine della scena su banco in chiesa con sopra un libro di canti; il curato è in piedi davanti al banco, con la lettera; confronta la calligrafia della lettera anonima con il libro di Louise – dopo un paio di secondi si sente il rumore della porta; il curato esce di campo - rumore di tacchi; si siede Louise; prende il libro. O in Perfidia, il dialogo finale tra Jean ed Hélène, in cui la cinepresa fissa sulla donna riprende le manovre in retromarcia dell’auto che entra ed esce dal campo visivo per tre volte. Questo procedimento, propriamente dell’assenza, del movimento dato dal suono, dall’immobilità della cinepresa e dalla circolarità dell’azione è Bresson, ed è cinema in forma pura; si tratta dell’utilizzazione piena del linguaggio. Le inquadrature del film hanno uno strettissimo rapporto di omogeneità.

I colori sono delicati, il contrasto è sfumato, le immagini chiare, a differenza dei film precedenti; i volumi che riempiono lo schermo sono equilibrati, i soggetti hanno una dimensione simile all’interno del campo visivo, la mano del condannato come una figura intera. L’aspetto più significativo è la determinazione della ripresa all’interno dell’ambiente.
La cella 107 non si vede mai totalmente; nonostante sia il set più frequente nel film, non ci sono due inquadrature uguali. La somma di diversi parziali della cella, ma anche del lavatoio, del cortile e dell’esterno durante l’evasione, creano un’armonia di spazi, danno continuità. Non è importante determinare l’ambiente in sé, ma il campo dell’azione, se non si vuole cadere nella fotografia o perdere ritmo; la determinazione dell’ambiente si ha dalla somma delle immagini e lo spazio che non si vede (non sappiamo nulla della struttura del carcere fino alla fuga, lo spazio viene scoperto con il condannato) crea tensione.

In questa frammentata dimensione spaziale i protagonisti sono gli oggetti; per questo non penso si possano definire propriamente dei dettagli le riprese strette sulle mani che lavorano col cucchiaio. In precedenza alla lavorazione del film, Bresson dichiarò: “Desidererei realizzare, nello stesso tempo, un film di oggetti e un film dell’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli (…). Vorrei mostrare il miracolo degli oggetti e una mano invisibile sulla prigione che dirige gli accadimenti e fa si che questa o quella cosa riesca ad uno e non all’altro (…). Il film è un mistero (…). Il vento soffia dove vuole.”

Questo brano è tratto dalla tesi:

Stile e canone in Robert Bresson

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Informazioni tesi

  Autore: Alberto Tamburelli
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2006-07
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Lettere
  Corso: Lingua e cultura italiana
  Relatore: Samuele Wurtz
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 53

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