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Prassi e contemplazione in Hannah Arendt

La «banalità del male»: il caso Eichmann

Nel 1961 Hannah Arendt seguì, come inviata del settimanale New Yorker - rivista non ebraica - le centoventi sedute del processo ad Eichmann, gerarca nazista che, pur occupando il semplice grado di colonnello, aveva svolto un ruolo chiave per la politica del regime: aveva coordinato infatti i trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. Rifugiatosi in Argentina dopo la caduta del nazionalsocialismo, fu catturato da agenti israeliani nel 1960 e condannato a morte per impiccagione; la sentenza fu eseguita il 31 maggio 1962.
La Arendt pubblicò il resoconto del processo sulla rivista ed espose in seguito le sue considerazioni nell'opera Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male. Si accorse sorpresa che «le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso». Nel corso del processo l'imputato tenne infatti a precisare che si era occupato «soltanto di trasporti», limitandosi ad obbedire a degli ordini.
La Arendt provava disagio di fronte a quest'individuo mediocre, perfetto burocrate del male, intrappolato in cliches e in un linguaggio standardizzato che gli impedirono di prendere coscienza dell'atrocità delle proprie azioni. Egli dichiarò di aver praticato, da buon tedesco, i principi dell'etica kantiana; davanti alla corte di Gerusalemme, in una sorta di «macabra commedia», si mise a recitare una definizione stravolta dell'imperativo categorico: «Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese».
Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità, ma qualcosa di altro, cioè l'incapacità di pensare: prima ancora che poco intelligente, egli non aveva idee originali e non voleva correre il rischio di averne. Entrò nel partito nazista austriaco nel 1932, senza troppa convinzione, seguendo il consiglio del suo amico Ernst Kaltenbrunner «mi chiese “perché non entri nel partito nazista?” – e io risposi “già, perché no?». Non aveva mai letto il Mein Kampf (come nessun altro libro), giustificava il proprio impegno politico asserendo di non accettare le condizioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles (1919) e volerle cambiare.
Quasi senza accorgersene, Eichmann finì per diventare amministratore della macchina organizzativa: requisiva treni e pianificava gli spostamenti in base alla capacità dei campi di concentramento, organizzava tra i vari campi il trasporto degli ebrei, i quali accettavano senza ribellioni e pronti a collaborare, tranquillizzati dai capi delle comunità ebraiche – che avevano salva la propria vita e quella di altri ebrei illustri in cambio del silenzio.
Per avere un quadro più dettagliato dell'imputato, la corte prese in considerazione il suo comportamento alla fine della guerra: fu catturato dagli Alleati ma non identificato, riuscì ad evadere dal carcere dov’era stato rinchiuso, per poi fuggire in Argentina sotto il falso nome di Ricardo Klement, divenne quindi capomeccanico alla Mercedes di Buenos Aires e si costruì una casa in una zona senza luce né acqua corrente. Disseminò numerosissimi indizi, come risposarsi e pubblicare un necrologio col cognome Eichmann; inoltre, egli era così affranto dalla sua “piccolezza” che non perdeva occasione per rivivere i fasti del Reich, così accettò di buon grado di farsi intervistare dall’ex SS Sassen. Quando si rese conto di essere pedinato dai servizi segreti israeliani, si lasciò catturare senza opporre resistenza, esaltandosi perché con la sua condanna a morte avrebbe espiato i peccati della Germania nazista.
La sentenza lo riconobbe responsabile di crimini contro gli ebrei - ne avrebbe favorito lo sterminio, facendoli vivere in condizioni disumane, causando danni psicologici e fisici - e crimini contro l’umanità. Fu accettata la tesi secondo cui egli avrebbe “solo” reso possibile il genocidio, ma non lo avrebbe messo in atto personalmente.
Secondo la Arendt, questo è un punto fondamentale per capire come sia stato possibile l’olocausto: nessuno era responsabile, o meglio, nessuno si sentiva tale; tutti facevano solo il proprio lavoro. Lo stesso Adolf Eichmann si sentì vittima di un'ingiustizia: dopotutto, lui era solo un burocrate che faceva il proprio lavoro, ed incidentalmente questo coincideva con un crimine.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Prassi e contemplazione in Hannah Arendt

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Informazioni tesi

  Autore: Cecilia Renzi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2005-06
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Francesco  Totaro
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 105

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