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Spazio e personaggio nel teatro di Ibsen con riferimenti alla produzione di Munch

La contrazione dello spazio nei drammi sociali di Ibsen

Eschilo e Shakespeare misero in scena eroi, perché vissero in un mondo eroico e tumultuoso, mentre Ibsen vive in mezzo a una grigia vita, dunque la riprodurrà così com’è, e appunto, dalle sue angustie, ricaverà la tragedia.
Ibsen accetterà di sottoporsi a quelle esigenze meccaniche, imposte dal dominio positivista, di quella fissità, e delle condensazioni di luogo e di tempo ch’essa impone. Man mano che si restringe l’orizzonte epico, eroico, leggendario, lo spazio tende a rientrare, a fissarsi nell’immagine del salotto.
Nei primi drammi borghesi, l’esterno resiste, forse disciplinato e più controllato nella misura del giardino, in cui si accede attraverso la classica porta veranda. Così nella Commedia dell’Amore, (1862) e nella Lega dei Giovani (1869), la demeure si alterna con il giardinetto.
Poi, a poco a poco, la compattezza aristotelica dell’intreccio connota una chiusura verso l’esterno, e in compenso le didascalie dell’autore riempiono di oggetti-arredo le stanze. La dialettica spaziale sarà allora minima, tra lo studiolo del personaggio maschile, e il salottino dove si riceve, da Casa di bambola (1879), a Gli Spettri (1881), ad Hedda Gabler (1890). Ecco allora gli immancabili pianoforti, tavolinetti, le poltroncine, i divanetti, le stufe, e sedie a dondolo, i tappeti, le stampe alle pareti, le vetrinette.
In questo caso, però, il fuori coincide, per allusioni, con lo spazio per soli uomini, le serate che avvengono al di là della scena, le riunioni spregiudicate da cui rientrano i personaggi con capelli arruffati e la faccia intontita. [...] Il salotto biblioteca, nella scena ibseniana, non consente l’apparizione titanica dell’Eroe Artista. Il teatro naturalista borghese è perciò, una cornice rigida, che non permette ingrandimenti di nessun genere oltre i confini.
[…]
Presto, tuttavia, nelle opere successive, la Vita pare prendersi le sue vendette sulla Forma, lo spazio esterno travolge quello interno. La demuere si fa travolgere dalla valanga che precipita su Rubek ed Irene di Quando noi morti ci destiamo (1899), dagli abissi, dall’acqua in cui annega Il piccolo Eyolf (1894), dal ponticello sulla roccia da cui si lanceranno Rosmer e Rebekka di Rosmersholm (1886).
In altri termini, l’antico regista è rientrato nella schiera secolare di tutti i poeti drammatici che hanno dovuto subordinare la loro tecnica ai mezzi pratici d’espressione, offerti loro dall’apparato scenico del tempo. […] Ma questo incendio che fuoco propaga?
[…]
Ibsen lascia intendere che l’anima nuova anela alla felicità, e la modernità pare offrirle tutti i mezzi atti alla sua conquista: ma ognuno di noi porta in sé un cadavere, di cui non sa liberarsi. Esso è l’eredità del Passato che ci soffoca, impedendo a ciascuno d’essere se stesso, di vivere con serenità.
Dunque, è per la liberazione dal peso del Passato che, grava su di noi, che Ibsen dichiara la guerra nei suoi tredici drammi borghesi.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Spazio e personaggio nel teatro di Ibsen con riferimenti alla produzione di Munch

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Informazioni tesi

  Autore: Valentina Calabrese
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2008-09
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Lettere
  Relatore: Allì Caracciolo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 159

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