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Inflation targeting e politica dei redditi in Italia

L’evoluzione del sistema di relazioni industriali dal dopoguerra alla stagione “calda”

Come spiegato da Giugni (2006), nel decennio immediatamente successivo alla caduta del regime corporativo fascista, il sistema contrattuale era fortemente centralizzato, essendosi appena ricostituito un sindacato – fino ad allora clandestino – a partire dai suoi vertici e dunque a livello interconfederale. La centralizzazione fu massima fino alla metà degli anni ‘50 e rimase elevata anche quando a negoziare i minimi retributivi furono le federazioni di categoria, che tra l’altro mostrarono inizialmente un potere contrattuale assai debole. La contrattazione aziendale, d’altra parte, non trovava alcun riconoscimento formale. A livello aziendale, le commissioni interne, spogliate di qualsiasi potere contrattuale, svolgevano funzioni di mero controllo sull’applicazione dei contratti nazionali di categoria e di composizione delle controverse aziendali.
Alla fine degli anni ‘50 il boom economico e il conseguente aumento dell’occupazione invertirono i rapporti di forza in favore dei sindacati e il contratto nazionale di categoria divenne il fulcro della struttura contrattuale dei rapporti di lavoro. Nel 1962 le federazioni di categoria dei metalmeccanici firmarono con l’Intersind e l’Asap – rappresentanti delle aziende a partecipazione statale – un accordo che diede vita alla c.d. contrattazione articolata. L’intesa prevedeva tre livelli di contrattazione – nazionale di categoria, di settore e aziendale – collegati gerarchicamente tra loro attraverso un sistema di clausole di rinvio previste dal contratto nazionale che di volta in volta determinava materie e funzioni specifiche da assegnare ai livelli gerarchicamente inferiori.
Tuttavia, la nascente società dei consumi, anziché tendere all’integrazione delle classi subordinate, innescò un ritorno al protagonismo collettivo – ben colto da Crainz (2003) – che presto scardinò lo scenario consolidatosi negli anni ‘50. I conflitti che cominciarono a ripetersi numerosi nelle fabbriche verso la metà degli anni ‘60 avevano cause eterogenee tra loro ma certo ricorrenti: condizioni di lavoro insostenibili, orari di lavoro troppo lunghi o addirittura prolungati arbitrariamente dai datori di lavoro, discriminazioni, assenza totale di tutela legislativa del lavoratore, enorme sproporzione tra i profitti delle imprese e i salari degli operai.
La nuova classe operaia, costituita principalmente da giovani proletari occupati nelle linee di assemblaggio dei grossi impianti industriali del Nord Italia, spesso con un bassissimo livello di formazione e specializzazione, rifiutava finalmente - come Crainz (2003) ha sottolineato - “l’etica del sacrificio” e le tradizionali forme di subordinazione imposte dallo sviluppo della società borghese, chiedendo a gran voce riforme strutturali in netta opposizione rispetto all’ordine costituito.
La contrattazione collettiva non poteva non subire il peso di questi turbamenti sociali: la rigidità del mercato del lavoro, caratterizzato da una situazione di tendenziale piena occupazione e le forti esigenze salariali degli operai comuni, dopo la crisi economica del 1964-65, avviarono un nuovo e conflittuale ciclo contrattuale, che questa volta traeva il proprio humus non dalle federazioni nazionali, ma direttamente dalle fabbriche. Nei luoghi di lavoro si costituirono, infatti, già dal 1967, nuove forme di rappresentanza spontanea dei lavoratori e presto la diffusione capillare della contrattazione aziendale soverchiò quella nazionale di matrice sindacale. Il conflitto industriale ebbe il suo culmine nel più caldo degli “autunni caldi”, quello del ‘69 (Sarcinelli, 2006). L’occupazione era cresciuta rapidamente e quell’anno si contavano circa 6.850.000 lavoratori nel settore industriale; le ore perse a causa di scioperi o scontri furono quasi 230.000.000, una cifra cinque volte superiore rispetto all’anno precedente (Sarcinelli, 2006).
All’interno delle fabbriche, “delegati” e “consigli di fabbrica” si sostituirono alle vecchie commissioni interne, determinando in molti casi una rottura più o meno coerente con le direttive dei sindacati nazionali. Gli operai chiedevano più salario ma anche un maggior rispetto per la dignità dei lavoratori e le proposte venivano direttamente dai loro rappresentanti, mentre i sindacati osservavano inermi una situazione in divenire sulla quale avevano perso ogni controllo. Si determinò così uno sconvolgimento degli schemi contrattuali precedenti, come dimostra il contratto nazionale dei metalmeccanici del dicembre ‘69, in cui veniva meno il coordinamento tra i vari livelli contrattuali e crollava dunque il sistema della contrattazione articolata. Ad essa si sostituiva una “contrattazione non vincolata” (Giugni, 2006), un sistema nel quale ciascuno dei due livelli - nazionale di categoria e aziendale - era autonomo dall’altro e la contrattazione aziendale poteva essere aperta in qualsiasi momento, a prescindere quindi dalla vigenza di un contratto nazionale, e su qualsiasi materia. Da un sistema fortemente accentrato si era giunti al massimo decentramento contrattuale, che disegnava il prototipo di un sistema “bipolare” in cui mentre il livello aziendale si espandeva, quello nazionale copriva le aree di lavoro non sindacalizzate, piccole e medie imprese in primis, e settori non industriali.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Inflation targeting e politica dei redditi in Italia

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Informazioni tesi

  Autore: Marilù Iorio
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2008-09
  Università: Seconda Università degli Studi di Napoli
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Scienze giuridiche
  Relatore: Francesco Pastore
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 110

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