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Pensiero e scrittura in Blanchot: il mito filosofico della saggezza e la follia che non è possibile evitare

La scrittura può affermare il suo sapere solo rinunciando a essere riconosciuta come portatrice di verità universale

Colui che scrive si può mettere all’opera senza domandarsi perchÈ lo faccia, ma questa domanda sorge, se giunge ad interrogarsi, mentre scrive. La domanda è inevitabilmente contenuta nel fatto stesso di scrivere perchÈ si tratta di una domanda rivolta al linguaggio, al di sopra di chi scrive e chi legge.

Secondo Blanchot è proprio per il fatto di essere domanda che caratterizza la letteratura, essa è una domanda che lavora silenziosamente nell’animo dello scrittore sin dall’inizio, prima ancora che comincia a scrivere, e diventa tanto più presente man mano che l’artista procede nello scrivere perchÈ si inoltra nelle regioni in cui il linguaggio lo ‘attira’ dentro di sÈ e lo rende manifesto in quanto scrittore nel mondo.

È possibile immaginare, se non provare, una situazione del mondo in cui non ci siano più domande da porre: è tuttavia quella configurata da KojÈve, che, se certo, non comporta la fine della letteratura, può solo pensarla come esercizio ludico delle possibilità del linguaggio.

Le condizioni di una tale eventualità sono state chiarite: entrare nell’eternità circolare della natura e in un mondo in cui l’azione umana si trovasse infine sottoposta alle regole certe di una forza universale di diritto, non più passibile di domande sull’universalità e del senso.

Ma è proprio nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, con uno spostamento di ottica rispetto al luogo di lettura di Kojève, che Blanchot trova di che pensare una situazione caratterizzata insieme dalla domanda sul senso e dall’impossibilità di darvi risposta in un significato di verità.

Mentre la lettura di Kojève trasforma la sintesi religiosa, che in Hegel è sintesi di finito e infinito, in una sintesi disgiuntiva tra finito umano e infinito naturale, Blanchot dirige la propria lettura nel luogo della Fenomenologia di Hegel in cui, in assenza di una sintesi divina, ancora a venire nella dimostrazione di Hegel, si tratta per una moralità storica di trovare in se stessa la verità della sua esigenza, e che per questo è posta in relazione alla riflessività della ragione che interroga la possibilità dell’universale a partire da una molteplicità di individui separati.

In questo momento della Fenomenologia dello spirito, ‘Il regno animale dello spirito’, momento del capitolo sulla ‘Ragione’, Blanchot racchiude la sua lettura, che si risolve nell’eterno ritorno dell’impossibilità dell’universale, e quindi nella impossibilità dello scrittore a essere assunto senza questo riferimento alla perturbante impossibilità del suo riconoscimento, che fa dell’universale riconoscimento della molteplicità degli uomini nel desiderio della verità il riconoscimento di una mancanza alla verità e non riconoscimento nella reciprocità della verità.

Hegel non vi parla propriamente dell’esperienza dello scrittore, se non nella misura in cui sembra impossibile descrivere un’azione umana che possa prescindere, nel senso più lato, dalla letteratura. Di qui l’importanza di interrogare la posizione dello scrittore, o meglio dell’interrogarsi dello scrittore dalla sua peculiare situazione.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Pensiero e scrittura in Blanchot: il mito filosofico della saggezza e la follia che non è possibile evitare

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Informazioni tesi

  Autore: Sabina Caserio
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2004-05
  Università: Università degli Studi di Pavia
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Mario Antomelli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 128

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Parole chiave

blanchot
dialettica
fenomenologia dello spirito
filosofia
fine della storia
follia
hegel
kojève
saggezza
sapere assoluto

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