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La tutela penale della prova testimoniale

L’affermazione del falso o la negazione del vero

Per ciò che attiene alla prima forma di realizzazione del reato, quella commissiva, la questione più discussa è stabilire cosa debba esattamente intendersi per «affermazione del falso» o «negazione del vero» ai sensi dell’art. 372 c. p.

Al riguardo, si sono tradizionalmente contrapposte una concezione oggettivistica ed una soggettivistica. Secondo la prima, va preso in considerazione il contrasto tra quanto realmente «accaduto» e ciò che è stato «dichiarato» dal testimone. In base alla seconda concezione, invece, occorre guardare al contrasto tra ciò che il testimone ha dichiarato e quello che egli aveva in precedenza soggettivamente «percepito».

La tesi soggettivistica, risalente a Carrara, è ormai dominante sia in dottrina che in giurisprudenza, ove sono assai numerose le sentenze secondo cui «integra il delitto di falsa testimonianza la volontaria divergenza tra la deposizione del teste e quanto da lui in realtà percepito dei fatti sui quali è esaminato, e non anche la difformità con la verità accertata dal giudice ex post» (fattispecie nella quale il giudizio di responsabilità si è fondato sulla circostanza che il testimone, dopo aver affermato di aver visto una recinzione, aveva riferito di non aver visto due baracche che sorgevano a pochi metri dalla stessa, costruite sicuramente in epoca antecedente al suo sopralluogo).

I principali argomenti su cui si fonda la teoria soggettivistica sono il dato letterale dell’art. 372 c. p. (è punito chi «afferma il falso o nega il vero, ovvero tace ... ciò che sa intorno ai fatti ... »), da cui si deduce che «l’obbligo che la legge prescrive al testimone è di riferire quello che egli ha appreso direttamente coi suoi sensi», e l’osservazione pratica secondo cui «in caso diverso si verrebbero a legittimare le testimonianze create per provare fatti veri, il che per ovvie ragioni non può ammettersi».

La tesi oggettivistica in passato fu patrocinata in particolare da Marsich. La principale obiezione che essa muove alla tesi soggettivistica evidenzia l’aporia cui questa condurrebbe nel caso del falso putativo, ossia nel caso del soggetto che, volendo mentire, rilascia una deposizione contraria a quella che è stata la sua percezione (che era una rappresentazione erronea della realtà), ma inconsapevolmente conforme alla realtà oggettiva.

La teoria soggettivistica – notano gli oggettivisti – condurrebbe all’estremo risultato di punire anche in questo caso, essendovi divergenza tra il dichiarato e il percepito, pur in assenza di offesa all’Amministrazione della giustizia. Inoltre, gli oggettivisti fanno notare che l’espressione «tace ... ciò che sa ... », ex art. 372 c. p., va riferita alla condotta di reticenza.

Di recente una dottrina, inserendosi nel dibattito tra oggettivisti e soggettivisti, ha proposto una terza via per cui, ai fini dell’individuazione della nozione di falsità, sarebbe necessario rapportare al dichiarato ciò che è realmente accaduto ovvero il percepito e rappresentato a seconda che oggetto della deposizione sia un fatto rispetto al quale si possa controvertere sulla sua verificazione oppure sulla sua percezione e rappresentazione.

Invero, come fanno notare taluni, l’importanza pratica della diatriba in cui tanto a lungo si è impegnata la dottrina è piuttosto ridotta. Infatti, se si considera l’ipotesi in cui il teste effettivamente non ha percepito ciò che si è realmente verificato, ma ha dichiarato quanto ha percepito, il reato non sarà comunque integrato: in base alla concezione oggettivistica sarebbe realizzato l’elemento oggettivo (deposizione testimoniale contrastante con la realtà oggettiva), ma mancherebbe il dolo; in base alla concezione soggettivistica, non sarebbe neppure integrato l’elemento oggettivo del reato (perché la dichiarazione corrisponde alla percezione che il teste ha avuto della realtà).

Per quanto concerne, invece, il caso della testimonianza confezionata ad hoc per comprovare un fatto che pure si è oggettivamente verificato – e riguardo al quale il teste, per altre vie, ha maturato la convinzione che si sia verificato – (si pensi, per esempio, alla falsa convalida di un alibi corrispondente al vero), la questione è risolvibile semplicemente ammettendo il principio per cui «l’art. 372 c. p., nel punire la falsità della testimonianza, tutela l’integrale contenuto conoscitivo della dichiarazione, comprensivo tanto del fatto quanto del modo in cui lo stesso è stato conosciuto dal testimone, con la conseguenza che il reato sussiste anche se il testimone, riferendo un fatto vero, affermi il falso circa le modalità con le quali lo ha appreso» (nella specie il teste aveva affermato di aver conosciuto quanto deposto per averne avuto notizia da persona che non poteva avergli riferito i fatti).

Infine, riguardo alla questione del falso putativo, gli oggettivisti (o neo-oggettivisti) pervengono alla non punibilità ritenendo integrati gli estremi dell’art. 49, comma 1° c. p. (il soggetto crede di realizzare l’elemento oggettivo del reato rilasciando una deposizione contrastante con la realtà oggettiva, ma così non è), ma tale soluzione è condivisa anche da taluni soggettivisti e, in ogni caso, il rispetto del parametro del principio di offensività permetterà di rimanere nell’ambito di un diritto penale costituzionalmente orientato. Del resto, trattasi più di un’ipotesi di scuola, come dimostra la mancanza di giurisprudenza in materia.

Piuttosto, il vero punctum dolens sembra di ordine probatorio e concerne l’accertamento di quanto il teste ha effettivamente percepito. Proprio tale accertamento è uno dei presupposti indefettibili – ovviamente, l’altro presupposto è l’accertamento del fatto oggettivamente verificatosi – per stabilire se vi è stato un contrasto tra la deposizione e la precedente percezione della realtà (il contrasto, anche in questo caso, deve essere doloso, ma seguendo la teoria soggettivistica inevitabilmente il dolo perde di autonomia rispetto al fatto tipico che sembra implicarlo di per sé) o, comunque, adottando l’impostazione oggettivistica, per stabilire se la divergenza tra la deposizione e il fatto realmente accaduto è stata sorretta da dolo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La tutela penale della prova testimoniale

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Informazioni tesi

  Autore: Annamaria Taboga
  Tipo: Tesi di Dottorato
Dottorato in Diritto penale italiano e comparato
Anno: 2010
Docente/Relatore: Sergio Vinciguerra
Istituito da: Università degli Studi di Torino
Dipartimento: Dipartimento di scienze giuridiche
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 152

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Parole chiave

diritto
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