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Diritti animali e implicazioni sociali

Allevamento intensivo e problemi inerenti

Il punto in cui è più acuto il conflitto umani-animali non umani è relativo alla zoofagia, ovvero l’uso, da parte degli umani, degli animali come fonte di nutrimento. Questo è ormai un punto fermo della maggior parte degli umani, un punto ormai radicato e secolarizzato nella cultura del popolo occidentale (e non solo, ma prevalentemente), un punto che, però, causa miliardi di vittime (umane e non). La scelta zoofaga, per essere attuabile, ha un’unica necessità imprescindibile: che gli animali siano cresciuti negli allevamenti intensivi. Ed è proprio questo il problema.

Il principale motivo per cui una scelta zoofaga è errata è che l’allevamento intensivo, così come lo definisce l’economista francese Frances Moore Lappé, è "una fabbrica di proteine alla rovescia".
Per spiegare meglio il concetto, si può citare un esempio del chimico G. Tyler Miller, il quale ricorre a una catena alimentare semplificata per spiegare la dispersione di calorie causata dagli allevamenti intensivi. La catena alimentare di Miller consiste di erba, cavallette, rane, trote e uomini. Ad ogni anello della catena, quando la cavalletta mangia l’erba, la rana la cavalletta, la trota la rana e l’uomo la trota, c’è una dispersione di energia nell’ambiente, pari all’80, 90 per cento.
Mentre il rimanente viene assimilato dal predatore. Consideriamo, quindi la popolazione necessaria per mantenere viva la creatura del livello successivo: "Per nutrire un uomo per un anno ci vogliono trecento trote. A loro volta, le trote consumano 90.000 rane, che devono mangiare 27 milioni di cavallette, che divorano 100 tonnellate d’erba".
Oggi, bovini e altri animali d’allevamento divorano gran parte dei cereali prodotti nel mondo. A causa degli allevamenti intensivi, diamo agli animali cibo che noi stessi potremmo mangiare. Ed essi, ovviamente, bruciano calorie per mantenersi in vita (nonostante l’impossibilità di muoversi); inoltre, gli alimenti che assumono andranno a costituire parti non commestibili, come le ossa. E la domanda che, giustamente, P. Singer si pone è: "quanta parte delle proteine contenute nel cibo viene consumata dall’animale, e quanta è invece disponibile per gli esseri umani?" .
E la risposta è la seguente: occorrono dieci chili e mezzo di proteine somministrate a un vitello per produrre soltanto mezzo chilo di proteine animali per gli umani. "Noi" riprendiamo meno del 5 per cento di ciò che abbiamo immesso. Il maiale, ad esempio, che è uno degli animali più "produttivi", ha bisogno di otto chili di proteine per produrne un chilo per gli umani.
Questo per quanto riguarda le proteine, ma se si va a confrontare il totale delle calorie ricavate dai vegetali, con il totale delle categorie prodotte dagli animali, il risultato non cambia. Infatti se si prende la resa di un acro seminato ad avena per l’alimentazione umana, e la resa di un acro impiegato per produrre mangime per il maiale (il più efficiente anche sotto l’aspetto delle calorie), si noterà come il raccolto di avena dà sei volte le calorie contenute nella carne di maiale. Lo stesso vale per il ferro, dove un acro coltivato a broccoli dà ventiquattro volte il ferro ottenibile da un acro impiegato per produrre carne di manzo; e per il calcio, dove i broccoli forniscono cinque volte più calcio del latte.
Le implicazioni che questo sistema ha nella situazione alimentare mondiale sono sconcertanti. Nel 1974 l’ambientalista ed economista Lester Brown calcolò che, se gli americani riducessero il loro consumo di carne del 10% per un anno, si disimpegnerebbero almeno 12 milioni di tonnellate di cereali per il consumo umano – vale a dire una quantità bastante ad alimentare 60 milioni di persone.
È quindi ovvio che se il cibo sprecato con l’attuale alimentazione zoofaga dei paesi ricchi fosse adeguatamente redistribuito per il consumo umano, la fame nel mondo cesserebbe di esistere.
Il secondo punto a sfavore della dieta zoofaga e dell’allevamento intensivo riguarda la distruzione delle foreste, in primis la foresta amazzonica. Dal 1960, più del 25 per cento delle foreste dell’America centrale è stato abbattuto per fare posto a pascoli per mandrie di bovini.
Nel 1966, il governo brasiliano ha avviato un programma chiamato Operation Amazonia, pensato per convertire la più grande foresta pluviale del mondo in terra economicamente produttiva.
Fra il 1966 e il 1983, quasi 100.000 chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati abbattuti. Il governo brasiliano ha stimato che il 38 per cento della distruzione di foresta pluviale in quel periodo sia attribuibile alla creazione di allevamenti bovini su larga scala.
E i dati più recenti non sono di certo rassicuranti.
Secondo i dati del CIFOR (Centro per la Ricerca Forestale Internazionale) e dell'INPE (l'Istituto di Ricerca Spaziale del governo Brasiliano):
- Tra il 1997 e il 2003 (6 anni) c'è stato un incremento del 600% di carne bovina esportata (soprattutto in Europa). L'incremento di popolazione bovina si è avuto per l'80% nella foresta amazzonica.
- Nel 2003 c'è stata una crescita del 40% della deforestazione rispetto all'anno precedente.
- In soli 10 anni, la regione ha perso un'area pari a due volte il Portogallo. Gran parte di essa è diventata terra da pascolo. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Diritti animali e implicazioni sociali

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Informazioni tesi

  Autore: Mario Gino Mazzarella
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi Gabriele D'Annunzio di Chieti e Pescara
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Sociologia
  Relatore: Michele Cascavilla
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 66

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