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Alcuni esempi di città nel musical: New York, Los Angeles, Parigi

Broadway

“You belong to Broadway!” è la frase chiave che viene detta a Katherine Hepburn alla fine di Gloria del mattino (Morning Glory, Lowell Sherman, 1933). E come lei, tutta una serie di attori, registi, comparse, cantanti vi appartengono. In passato, il musical è stato identificato con Broadway, il quartiere per eccellenza dello spettacolo, dei teatri e delle scuole di danza.

Se si pensa a questa Avenue, in realtà se ne prende in considerazione soltanto il tratto mediano, quello che corrisponde, appunto, alla Midtown dei teatri e delle piccole attività parallele che garantiscono la sopravvivenza alla moltitudine di persone che aspettano l’occasione giusta per sfondare nello spettacolo.

E a Broadway appartiene il più grande coreografo di musical cinematografici degli anni Trenta: Busby Berkeley. Quando sbarcò ad Hollywood, chiamato da Samuel Goldwyn per dirigere le danze di Whoopee! (Thornton Freeland, 1930), aveva più di dieci anni di lavoro nella capitale del musical teatrale, nei ruoli più disparati di coreografo, impresario e regista. Già in questo film rinuncia alla dinamica dei ballerini per dedicarsi a quella della macchina da presa, apportando delle innovazioni che sovvertono l’ordine dello schermo frontale delimitato nelle sue dimensioni di quadrilatero.

“Berkeley dilatò lo spazio filmico al di là della sua inevitabile teatralità. Mai e poi mai gli spettacoli teatrali messi in scena dai suoi personaggi avrebbero potuto essere rappresentazioni da inscenare in un teatro regolare. Nelle acute parole di Gerald Mast, ‘Berkeley coreographed space, not people’, e in pratica ci ha dimostrato inequivocabilmente che il cinema è inverosimiglianza, che quel che ci mostra (o parte di esso) non potrebbe mai accadere nella realtà. E nel contempo egli fingeva che le sue messe in scena fossero reali.”

Ma è soltanto nel 1933, con 42nd Street (Lloyd Bacon), che Berkeley mostra tutto quello che aveva solo accennato in Whoopee!. Quarantaduesima strada si può considerare un film-manifesto: è la storia di Julian Marsh, interpretato da Warner Baxter, impegnato a mettere in scena l’entertainment, ed è la storia stessa del backstage di un musical. Con questo film la Warner non pensava di segnare la svolta nella storia del musical, ma la sua intenzione era solo di offrire uno spettacolo ottimista che aiutasse a combattere il clima della grande depressione.

Berkeley sfoggia, qui, tutte le sue convenzioni in fatto di danza filmata, liberandosi delle esperienze teatrali, eleggendo la camera e le sue funzioni nella ripresa a ruolo di egemoni. Egli impressiona per la tendenza geometrica e caleidoscopica dei balletti e le ardite angolazioni chieste alla macchina da presa, spesso utilizzata “a piombo” sulle ballerine disposte a corollario o a stella. La Polla afferma che la sua fantasia è fantasmagoria perchè coniuga l’inconiugabile: “giovani donne che vengono non comparate a petali di fiori, ma che sono petali di fiori”.

Più che sequenze di danza sembrano vere e proprie sculture in movimento. Claver Salizzato ricorda, invece, che: “La sua genialità non sta tanto nel costruire elaborati movimenti coreografici, o nel pretendere dai ballerini dei virtuosismi, essa non si applica all’oggetto della visione, ma alla visione stessa.”

Questo brano è tratto dalla tesi:

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Informazioni tesi

  Autore: Fatima Simona Romano
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: DAMS - Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo
  Relatore: Michele Fadda
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 112

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