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Politica economica e sostenibilità del debito pubblico italiano

Gli ultimi decenni: da Maastricht alla situazione attuale

L’ultimo periodo di cui ci occuperemo, costituito da poco meno di trent’anni, è quello che partendo dal 1991 ci riconduce fino ai giorni nostri. Tale lasso di tempo è colmo di eventi di politica economica nazionale ed internazionale che hanno inciso notevolmente sulla dinamica del rapporto debito pubblico/PIL.
Nei primi anni del ’90 diffusa era la preoccupazione per come l’Italia sarebbe arrivata alla conferenza di Maastricht del 1992, in particolare da parte del ministro del Tesoro, Guido Carli. Il rapporto debito/PIL era costantemente superiore al 95% e le aspettative non erano delle più rosee.
L’Italia, insieme ad altri 11 Paesi, firmò, il 7 febbraio 1992, il Trattato di Maastricht, ufficialmente definito come Trattato sull’Unione europea che avrebbe condotto attraverso un lungo processo politico e diplomatico alla creazione dell’Unione economica e monetaria, da concludersi con l’adozione della moneta unica europea, dando vita alla cosidetta Eurozona. Come vedremo, tale Trattato, entrato in vigore ufficialmente nel 1993, influenzerà notevolemente negli anni a venire la politica economica e la finanza pubblica degli Stati firmatari, tra cui l’Italia stessa.
In quegli stessi anni, i continui attacchi speculativi alla lira con conseguente crisi valutaria (1992) colsero alla sprovvista la classe dirigente italiana, turbata dagli scandali di Tangentopoli, questo costrinse l’Italia a svalutare e ad uscire dal Sistema Monetario Europeo. Terminò così il periodo della “Prima Repubblica”.

Tra il 1992 e il 1994, i governi tecnici, prima quello Amato e poi il governo Ciampi iniziarono a porre le basi per un riequilibrio finanziario che interessò il perido successivo, tuttavia fino al 1996, invece, si assistette ad un drastico aumento del rapporto debito pubblico/PIL. Nel 1994 il rapporto superò il 121% dopo ben settant’anni. La causa principale fu una vera e propria esplosione della spesa per interessi, infatti, nonostante dal 1992 i governi mantennero la spesa primaria al di sotto delle entrate primarie, il debito pubblico continuava a crescere per effetto degli interessi stessi. L’incidenza di tale spesa sul debito raggiunse il 12% del prodotto interno, vale a dire in termini assoluti, pari ad un costo di circa 140-150 miliardi di euro l’anno (rivalutando i valori passati per l’inflazione per renderli equivalenti agli euro di oggi). A tutto ciò, contribuì ovviamente il “divorzio” dalla Banca d’Italia che sottrasse una fondamentale componente della domanda dei titoli di Stato, motivo per cui i tassi offerti sul debito schizzarono verso l’alto e di conseguenza anche il debito pubblico stesso, vanificando gli sforzi in termini di avanzi primari.

A partire dal 1996 la situazione del bilancio subì dei miglioramenti, infatti, i tassi di sviluppo ricominciarono a salire e soprattutto i tassi d’interesse offerti sul debito calarono drasticamente mentre il saldo primario rimase costantemente in surplus, con valori medi attorno al 5% del PIL tra il 1996 e il 2001. Questo fu dovuto ad una riduzione della spesa pubblica e all’aumento delle tasse sotto la spinta di un obiettivo strategico: rientrare tra i criteri di convergenza previsti dal Trattato di Maastricht. Il presidente del consiglio Prodi e il ministro del Tesoro Ciampi attuarono una maxi-finanziaria nel 1997, con cui la pressione fiscale salì di 2 punti rispetto al Pil. Fu grazie a questa abile mossa che l'Italia poté chiedere il rientro nello Sme. Questa decisione era necessaria per rispettare un preciso criterio di Maastricht, che prevedeva la partecipazione allo Sme nei due anni precedenti l'Unione monetaria.

Nel 1997, inoltre, per giungere alla fase conclusiva della creazione dell’Unione economica e monetaria con la conseguente introduzione dell’euro, venne sottoscritto il Patto di Stabilità e Crescita che rimarcava due importanti parametri di convergenza:
° un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL (rapporto deficit/PIL < 3%);
° un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL (o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro) (rapporto debito/PIL < 60%).

Avendo un debito pubblico notevolmente superiore rispetto al parametro sopra indicato, i governi hanno condotto delle politiche tali da realizzare una graduale diminuzione del rapporto debito/PIL, che all’inizio del nuovo millennio registrava dei valori di poco superiori al 100%. Nel frattempo, il percorso di integrazione europea fu portato al termine: venne istituito il Sistema Europeo delle Banche Centrali e la Banca Centrale Europea, fu introdotto l’euro tra il 1999 e il 2002 per cui l’Italia cedette la sua sovranità monetaria nazionale.
L’introduzione della moneta unica ebbe come conseguenza la stabilizzazione dei tassi di cambio, che in un contesto di tassi d’interesse sul debito bassi, oscillanti tra il 2% e il 3%, insieme alla presenza costante di un saldo primario nel pieno rispetto dei parametri di Maastricht, fecero sì che il rapporto debito/PIL, entro il 2007, fosse sempre vicino al 100%.

Tuttavia, anziché sfruttare il periodo favorevole per abbattere ulteriormente lo stock nominale del debito, si aprì una fase di eccessivo ottimismo che portò ad allentare gli sforzi degli anni precedenti: le spese ritornarono ad aumentare di pari passo con il reddito e il surplus primario cominciò a scendere. Questo fece sì che il nostro Paese fu particolarmente esposto alle correnti speculative del tempo ed a trovarsi poco preparato nell’affrontare l’imminente crisi internazionale finanziaria ed economica del 2007-2008, generata dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti.
La crisi si è riflettuta drasticamente sia sul valore del PIL arrestandone la crescita e sia attraverso una diminuzione delle entrate tributarie. La riduzione del PIL reale è stata messa in risalto dai quasi 9 punti di crescita perduta dal 2008 al 2014, incrementando così il valore del rapporto debito/PIL dal 102% del 2008 a più del 132% nel 2014, la soglia più alta che sia stata superata nella storia italiana. Nonostante in questo arco temporale i governi abbiano condotto delle politiche di austerità che hanno contribuito a migliorare il saldo primario, tranne nel 2009 quando le spese primarie hanno superato di 1 punto le entrate primarie, il debito ha continuato inesorabilmente ad espandersi per via della spesa per interessi, la cui percentuale sul PIL era pari in media al 5%.

Ulteriori difficoltà sono derivate dagli impegni dettati da alcuni trattati europei, come il Six Pack (2011) che ha rafforzato il Patto di Stabilità e Crescita introducendo un sistema di sorveglianza dei dati macroeconomici di ciascun paese, e il Fiscal Compact (2012) che contiene alcune regole vincolanti per il principio dell’equilibrio di bilancio, tra le quali riportiamo le seguenti:
° obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio da recepire nel diritto nazionale (Costituzione) da raggiungere con un saldo strutturale delle amministrazioni pubbliche pari all’obiettivo di medio termine del Paese, come definito nel Patto di Stabilità e Crescita;
° se (debito/PIL)>60% obbligo di non superamento della soglia di deficit pubblico strutturale superiore allo 0,5% del PIL;
° significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL.

Mentre l’Europa subiva le conseguenze degli anni di crisi e versava in una situazione di estrema instabilità, la BCE nel 2015 decise di attuare un piano di alleggerimento quantitativo, meglio noto come Quantitative Easing, consistente in uno stimolo monetario concretizzatosi nell’acquisto di titoli del debito pubblico per diversi miliardi di euro al mese con lo scopo di immettere liquidità nel sistema, incentivare i prestiti bancari verso le imprese e i cittadini, far crescere l’inflazione verso l’obiettivo del 2% scongiurando il pericolo della deflazione e far diminuire i tassi d’interesse.

Per far capire l’ampiezza della strategia messa in atto dalla BCE basti dire che alla fine del 2016 l’ammontare di debito acquistato nell’Eurozona era pari a 1.933 miliardi di euro, che rapportato al debito pubblico totale dell’area rappresenta circa il 23%. Inoltre, un recente studio di “Economia Reale” ha messo in evidenza un dato eclatante, ovvero che senza la spinta del Quantitative Easing il rapporto debito/PIL del nostro Paese nel 2017 sarebbe potuto arrivare fino al 157% circa, causando una rottura dall’euro.
A partire dal 2018 la BCE dimezzerà gli acquisti dei titoli di Stato, per poi pian piano cessare definitivamente verso il finire dello stesso anno e questo deve essere recepito con particolare attenzione da parte del Governo italiano dal momento che l’Italia è ancora una delle economie peggiori dell’area euro e in assenza dello stimolo monetario potrebbe cadere fortemente in una nuova crisi del debito, con tassi d’interesse e relativa spesa per interessi elevatissimi.
Le stime per gli anni successivi rivelano in realtà un lieve miglioramento dei valori, ma questo non deve farci cadere in facili entusiasmi: se il miglioramento ci sarà, sarà un percorso lento e travagliato negli anni a venire.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Politica economica e sostenibilità del debito pubblico italiano

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Informazioni tesi

  Autore: Mirko Lezzi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Università del Salento
  Facoltà: Economia
  Corso: Economia e Finanza
  Relatore: Felice Russo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 79

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Parole chiave

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sostenibilità
debito pubblico italiano
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