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L'uso di sostanze psicoattive. Fragilità, libero arbitrio, resilienza

Il libero arbitrio

Lo stupefacente sviluppo delle neuroscienze nel corso degli ultimi 20 anni ha apportato – come già detto nella introduzione – una mole incredibile di conoscenze sul funzionamento del cervello e dei processi cognitivi in termini biologici e fisiopatologici.

Questo sapere ha però inaspettatamente riaperto la discussione sul tema del libero arbitrio e sul determinismo delle nostre azioni. Perché se ci accostiamo al problema delle dipendenze da una prospettiva squisitamente medica inevitabilmente trovano di nuovo spazio molti dubbi non solo in tema di diagnosi e cura ma anche riguardo i risvolti comportamentali, relazionali e comunicativi pertinenti la sfera etica, che tenterò di esaminare qui di seguito.

Sigmund Freud fu il primo ad occuparsi di inconscio come motore dell'agire umano. Qualche decennio dopo l'inconscio – che il padre della psicanalisi leggeva come un qualcosa di dinamico, animato dalle pulsioni e dalle passioni – divenne un costrutto scientifico più stringente, di tipo strettamente cognitivo. Ma in questo passaggio, che 'fisicizza' l'inconscio, si intuisce già un rischio (o, se si vuole, una deriva scientifica) di tipo riduzionistico, che riporta il processo decisionale ad una sequenza di scelte determinate secondo una modalità causa-effetto che esula dalla nostra volontà.

E' giusto ritenere che il nostro comportamento sia riconducibile a una causa pre-derminata – quindi 'meccanicamente' indotto e non più frutto di una libera scelta – di cui il protagonista non è consapevole (l'inconscio), ma che può essere conosciuta da un osservatore esterno? Ed ancora, le sostanze psicoattive possono annullare o indebolire il libero arbitrio agendo su specifiche aree cerebrali coinvolte nei processi di decision making e problem solving?
Si tratta di un dubbio fondato, che preclude la possibilità di un libero arbitrio: un dubbio ulteriormente rafforzato dalle scoperte concernenti la distinzione anatomica tra le aree cerebrali deputate al controllo, rispettivamente, delle funzioni del volere e del piacere, suggerita dagli studi di James Olds negli anni '50 e confermata in tempi più recenti proprio dalle neuroscienze.

Più specificamente, le sostanze d'abuso, interferendo in primis con il sistema dopaminergico, danneggerebbero selettivamente il tessuto cerebrale inducendo lesioni strutturali o malfunzionamenti che renderebbero il consumatore incapace di operare una scelta volontaria tra il drogarsi o meno. Il venir meno del controllo da parte della corteccia che regola il volere rendendo l'individuo succube della spinta pulsionale, controllata dall'area del piacere, rimasta indenne o addirittura potenziata.
In altre parole, tutto si tradurrebbe in una perdita della capacità decisionale – ovvero del libero arbitrio – e quindi in un riduzionismo fisico poggiante su un meccanismo puramente fisiologico. Tutto ciò potrebbe giustificare il ritorno al paternalismo medico e alle cure forzate: sei malato, e quindi 'devi' e 'devo' curarti.
Ma questo cozza con il principio bioetico dell'autonomia della persona: possiamo veramente permetterci di trattare un tossicodipendente contro la sua volontà, assumendo che la sua capacità decisionale sia abbrutita? Come va improntata la relazione medico-paziente e come ci si deve porre nei confronti della legge e delle varie campagne nazionali su droga, alcool, fumo?

Il risvolto bioetico connesso al cambiamento suggerito dal nuovo paradigma scientifico – l'esistenza di un substrato anatomico e/o biochimico e/o funzionale che retrocede il momento della scelta ad un puro meccanismo deterministico – è in definitiva il rovesciamento dello stereotipo del tossicodipendente che, da figura dedita al vizio e pienamente consapevole delle proprie scelte, diventa esclusivamente un paziente, incapace di scegliere razionalmente e bisognoso di cure per recuperare la propria autonomia: quasi un oggetto passivo, perché privato di tutto ciò che esorbita dalla sfera biologica. Alienato da tutto quello che conferisce dignità alla persona, appiattito sulla dimensione fisica, esautorato da ogni prospettiva spirituale e relazionale. Ma questo implica la rinuncia alla visione olistica che anima le posizioni bioetiche più convincenti, come quella, ad esempio, del personalismo ontologicamente fondato.

Ed ancora, si ricade qui nella questione – assai dibattuta – della medicalizzazione della società moderna: perché la negazione del libero arbitrio e della capacità di scelta del singolo, svuotando il concetto di vizio, trasforma la tossicodipendenza in semplice malattia, 'fortunatamente' superabile con il solo trattamento medico (farmacologico o psicologico), che toglie dalla vista un carattere fondamentale dell'esistenza umana, la dimensione relazionale, a cui si riallacciano i temi dell'ascolto e dell'accoglienza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'uso di sostanze psicoattive. Fragilità, libero arbitrio, resilienza

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Informazioni tesi

  Autore: Luigi Olivetto
  Tipo: Tesi di Master
Master in Master Universitario in Bioetica
Anno: 2015
Docente/Relatore: Augusto Consoli
Istituito da: Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 39

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