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L'arte nell'era digitale: la Pixel-Art

La Pixel-Art

La prima volta che fu utilizzato il termine pixel-art risale al 1982 quando venne usato in una pubblicazione di Adele Goldbert e del Centro di Ricerca Xerox di Palo Alto.
Già alcune forme d'arte tradizionale, come il mosaico, erano simili alla pixel-art sotto l'aspetto della costruzione dell'immagine per mezzo dell’uso di piccole unità colorate analoghe all'uso dei pixel nel mondo digitale.
La pixel-art, o per meglio dire quella tecnica da cui essa stessa deriva, ha le sue fondamenta negli anni ‘80 e più precisamente all’interno dell’ampio mondo dei videogiochi di quel tempo.
In quel periodo erano le scarse capacità di visualizzazione dei computer ad imporre ai grafici l'utilizzo di un numero molto limitato di colori; questo condizionava fortemente la quantità dei pixel con i quali, come si farebbe con le tessere di un mosaico, comporre le immagini.
Ricordate le immagini ad angolo retto dei primi videogiochi come "Pong", "Pacman" o "Space Invaders"? Erano l‟avvio di una rivoluzione grafica che ha segnato una generazione.
I primi esempi di pixel-art sono quindi un risultato necessario e non una scelta stilistica deliberata; le limitate capacità di creazione e visualizzazione di immagini di sintesi costringevano gli artisti e i programmatori ad accettare un compromesso tra espressione creativa e leggibilità iconografica.
Gli sviluppatori, costretti a scendere a patti con questi quadrettini, che caratterizzavano in modo così ingombrante l'aspetto visivo delle loro produzioni, si ingegnarono in ogni modo per celarli. A tale scopo, appena le caratteristiche hardware delle macchine da gioco lo consentirono, venne introdotta la tecnica dell'antialias, che consiste nell'inserire tra i contorni delle figure e gli sfondi, dei pixel di colori intermedi atti ad addolcirne i bordi spigolosi consentendo passaggi cromatici più morbidi.
Con la definitiva affermazione della grafica tridimensionale, questa propensione ad occultare i pixel, conforme al pensiero del videogiocatore medio, portò all'applicazione di effetti di sfocatura delle immagini (texture40) che rivestivano le forme poligonali.
Da lì in poi la pixel-art cadde in disgrazia, l’innovazione tecnologica aiutò l’immagine videoludica ad evolversi rapidamente intraprendendo un cammino rivolto alla ricerca spasmodica del fotorealismo, che da un lato cerca di occultare le peculiarità dei dispositivi mediante i quali il videogioco viene realizzato e fruito, dall'altro ne celebra le potenzialità tecniche.
I game designer, mediante un severissimo processo di selezione naturale, impararono in tempi record a confrontarsi con il nuovo paradigma della tridimensionalità; il bacino di utenza dei videogiochi intanto si ingrandiva a dismisura.
Il pixel, espressione di un‟estetica “povera”, scomparve progressivamente dagli schermi lasciando spazio a poligoni e alle texture.
Il suo ritorno, atteso e glorioso, è riconducibile da un lato al sentimento di nostalgia di una generazione di artisti e giocatori cresciuti negli anni ‘80; dall’altro all’apparizione di dispositivi tecnologici paradossalmente limitati come telefoni cellulari, tamagotchi a bassa risoluzione, console portatili ecc. che utilizzano forme di visualizzazione primitive.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'arte nell'era digitale: la Pixel-Art

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Informazioni tesi

  Autore: Luca Marini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2008-09
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Comunicazione Pubblicitaria
  Relatore: Anna Maria Ambrosini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 52

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