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Per una rilettura dell'Oedipus di Seneca

Pena e punizione: il sostantivo femminile poena

Nell'Oedipus senecano il più immediato tra i termini inerenti ai concetti di pena, punizione, espiazione è, naturalmente, poena, ricorrente innanzitutto al verso 529 (Ulline poena vocis expressae fuit?), in cui Edipo tenta di rassicurare Creonte sul fatto che non lo punirà per un discorso pronunciato sotto dura estorsione – sebbene, in seguito, la pena avrà comunque luogo –. Fare, quem poenae petant, viene poi esortato Tiresia, al verso 292, affinché riveli a Edipo chi possa essere passibile di punizione.

In questo momento, il re si mostra sussiegoso nei confronti dell'indovino, che vede ancora quale interlocutore privilegiato delle divinità: Sacrate divis, proximum Phoebo caput, lo appella infatti nel verso precedente (291), con un termine di valore sacrale – sacratus divis – e la sineddoche – parte per il tutto – caput. Troviamo poena, inoltre, al verso 222 (ut poenas luat), al 976 (iam iusta feci, debitas poenas tuli) e ai versi 936-7 (breves / poenas sceleribus solvis), con un enjambement tra aggettivo e sostantivo e il termine, già analizzato, scelus.

Se poenam ferre equivale a scontare una pena, così come poenam luere, poenam solvere indica invece un'espiazione, esattamente come il verbo expio, anch'esso presente nell'Oedipus (247: expietur, 217: expiari). Morte ed esilio, ben documentati nell'Oedipus, erano pene realmente trascritte nei codici giuridici sia in ambito greco che latino; in essi, manca però l'accecamento, presente tuttavia in svariate opere quale terribile punizione. Basti pensare all'Ecuba euripidea, in cui lo strisciante traditore Polimestore viene crudelmente accecato dalla devastata regina e dal suo seguito di schiave troiane.

Se per Edipo il pensiero di non scorgere più i familiari riesce, per quanto possibile, a mitigare vergogna e dolore, per Polimestore il non poter più osservare i figli è fonte di lancinanti sofferenze, tanto più pungenti in quanto l'ultima scena da lui visionata fu l'assassinio dei fanciulli da parte delle risolute schiave capitanate dalla regina decaduta. Riportiamo qui il passo in questione, in cui spiccano, in analogia con la vicenda di Edipo, oltre al desiderio di vendetta e alla cecità come punizione, il fatto che le colpe dei padri ricadano sulla prole, l'impossibilità di rivedere i propri familiari e il fatto che colui che è appena divenuto cieco, uscito da un edificio, venga visto da altri mentre barcolla sofferente (1035-55):

Polim: Ah, ah! Mi accecano, ah, la luce dei miei occhi.
Co: Avete sentito, l'uomo di Tracia, come grida?
Polim: Basta, basta, i miei figli, è orribile il massacro.
Co: Amiche, là dentro succede qualcosa di spaventoso.
Polim: Non riuscirete a sfuggirmi, per quanto corriate
Spacco tutto, qui dentro, con i miei colpi.
Co: Senti che colpi violenti? Non vogliamo intervenire?
È il momento di dare man forte a Ecuba e alle Troiane.
Ec: Spacca, distruggi tutto, butta già le porte!
Non l'avrai più, la bella luce degli occhi,
non potrai più vedere vivi i figli. Io li ho uccisi.
Co: Ti sei vendicata dello straniero, padrona, hai vinto
su di lui? Hai fatto davvero quello che dici?
Ec: Lo vedrai presto, qui davanti, brancolare cieco,
con passi da cieco: e vedrai anche i suoi figli, cadaveri.
Io li ho uccisi, io e le migliori fra le Troiane. Ha saldato
il suo debito, Polimestore. Eccolo, è là che viene fuori. Io mi
allontano, cerco un riparo dal furore straripante di quel disperato.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Per una rilettura dell'Oedipus di Seneca

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Informazioni tesi

  Autore: Jennifer Bertasini
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Pisa
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filologia e Storia dell'Antichità
  Relatore: Rossana Mugellesi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 273

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