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IA. Una critica fenomenologica al concetto di intelligenza artificiale

L’età dell’''androide''

Arrivati quasi fino alle soglie del duemila, è emerso come la robotica, ottenendo successi in tutti i suoi differenti ambiti di applicazione, sia riuscita a sviluppare tanto dei bot parlanti, come ELIZA, capaci di rispondere a domande, quanto robot semoventi in grado di costruire automobili e perfino riparare altri robot, in caso di necessità. È in questi decenni, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, che le maggiori domande a proposito della robotica vengono poste ed è sempre in questi anni che sono stati girati alcuni dei più importanti film di fantascienza, come 2001: Odissea nello spazio e Blade Runner, i quali, molto più che semplicemente “narrare delle storie di fantascienza”, hanno influito pesantemente sulla cultura del robot anche a livello scientifico. Eric “Astro” Teller, ironicamente, ha voluto definire la robotica come «il tentativo di far fare alle macchine quello che vediamo loro fare nei film». Tuttavia, occorre approfondire alcuni aspetti di una figura fondamentale per lo sviluppo della robotica, che finora è stata trattata in maniera parziale, e una data mancante collegata a questa figura. Il nome in questione è quello di Alan Turing, che abbiamo visto essere tra gli sviluppatori di Colossus, nonché il risolutore del codice criptato dalle macchine Enigma, tedesche, durante la Seconda Guerra Mondiale; la data è il 1950, l’anno di pubblicazione di un articolo di Turing, On Computing Machinery and Intelligence, pubblicato sulla rivista di filosofia «Mind». Come altre figure già incontrate, anche Turing viene spesso riportato come “il padre dell’intelligenza artificiale”, mentre i nomi di Shaw, Newell e Simon, per quanto altrettanto importanti, sono spesso conosciuti soltanto dagli esperti del settore in questione. Come mai? Questo accade perché Turing è sì l’iniziatore di una delle epoche fondamentali nello sviluppo della robotica, ma non di un’epoca che lo segue immediatamente in termini cronologici: lo scritto di Turing che fa iniziare la quarta fase della storia della robotica, l’articolo testè citato, non evolve direttamente nel corso del Novecento, ma apre un’epoca nella quale noi siamo ancora immersi e che, anzi, si potrebbe considerare iniziata proprio negli anni ’90 quando i diversi ambiti di applicazione della robotica hanno iniziato a fondersi tra di loro generando qualcosa che è più di un robot, nel senso in cui il ’900 ha imparato a pensare questo termine. Questo “qualcosa più di un robot” viene qui definito come androide. L’“età dell’androide” è quella in cui noi siamo appena entrati: non può essere descritta, ma solo accennata, poiché la stiamo vivendo. “Androide” è una parola ad etimologia greca, significante “che assomiglia all’uomo”. La cosa più vicina all’androide tra quelle descritte finora è certamente il cyborg, nel senso di un robot, talvolta semovente, talvolta ancorato in un luogo fisso, capace di “guardarsi attorno”, letteralmente, operando nell’ambiente circostante tramite la sollevazione e lo spostamento di oggetti, talvolta persino in grado di rispondere ad alcune precise domande poste da un operatore. Un androide è tutto ciò, ma a questo aggiunge qualcosa in più: la somiglianza – reale o pretesa -con l’essere umano. Sophia è un androide. La posizione di questa somiglianza rispetto all’essere-umano è ciò che ci introduce al 100% nel presente della robotica ed è la direzione verso cui gli attuali (e i futuri) sviluppi di questa disciplina si stanno orientando. Turing introduce e annuncia quest’epoca, l’epoca verso cui la fase del robot era indirizzata, con una domanda posta in apertura del suo articolo del 1950, On computing machinery and intelligence: «I propose to consider the question: can machines think?». L’ambiguità della quesitone posta da Turing dipende dalla natura “anfibia” della domanda, posta chiaramente sul filo che separa una scienza, la robotica, da una disciplina molto più magmatica e informe, la filosofia. Turing è consapevole di questo, ed è consapevole anche di tutte le difficoltà implicite nel porsi una domanda del genere: […]
La domanda posta da Turing, una volta che ci si renda conto della difficoltà di dover rispondere, dovendosi rifare a questo scopo ad un utilizzo “tradizionale” dei termini machine e think, viene immediatamente riformulata, come dice Turing, in modo da essere posta in altri termini, molto più chiari e che permettano una risoluzione più efficace del problema. Volendo precisare: Turing non vuole dare una soluzione definitiva al problema, anche se protende verso una risposta affermativa alla domanda ed è convinto che “entro la fine del secolo parlare di macchine pensanti non sarà poi così assurdo”. Ciò che importa a Turing è principalmente porre la domanda, far riflettere su questa possibilità, estrema negli anni ’50, se le macchine, col tempo, avrebbero effettivamente potuto sviluppare una coscienza e quindi un pensiero, oppure no.
[…]

Il Test di Turing consiste nel porre un individuo, un soggetto giudicante, a un capo di un terminale in una stanza, e due individui, di cui uno è una macchina (un robot) all’altro capo, in un’altra stanza, di modo che il giudice non sappia chi sta scrivendo cosa dall’altra parte del terminale. Il giudice pone una domanda ora all’uno, ora all’altro dei due individui, sapendo che uno di questi è una macchina: se, quando interrogata, la macchina risponde senza essere scoperta come tale, allora ha passato il test, e può essere considerata intelligente, altrimenti no. Qui non vogliamo discutere nel dettaglio gli aspetti filosofici del Test di Turing: questi, insieme ad altri, verranno esaminati nel secondo capitolo, che vedrà un’analisi delle due fazioni contrapposte a proposito della possibilità di realizzare effettivamente l’intelligenza artificiale (il che fornirà anche il contesto di base in cui la fenomenologia, come orientamento critico nei confronti delle pretese dell’Intelligenza Artificiale, potrà essere collocata). Ciò che preme porre in evidenza in questa sede è l’importanza del test per lo sviluppo della robotica. Più che effettivamente aver realizzato un programma o aver elaborato un algoritmo adeguato a risolvere questa o quella situazione, l’importanza di Turing per la storia dell’intelligenza artificiale è stata culturale, nel senso che il lavoro di Turing e soprattutto questo articolo hanno finito col dare una direzione di sviluppo ad un movimento che fino ad allora era andato sviluppandosi in maniera piuttosto impressionistica, anche dopo la conferenza di Darthmouth voluta da McCarthy: ciò che Turing ha introdotto col suo test è stata la possibilità di sviluppare dei robot dotati di un pensiero, di un linguaggio, di un modo di parlare. L’intera fantascienza contemporanea, Rachel del film di Blade Runner tratto dal romanzo di Philip K. Dick e Hal di Kubrick, dal romanzo di Arthur Clarke, sono tutte figure debitrici della possibilità aperta da Turing con la sua domanda: can machines think?. L’epoca che inizia con Turing ha un inizio ritardato rispetto alle altre. L’articolo è del 1950, ma soltanto con l’arrivo degli anni ’90 si può dire essere veramente arrivata l’era dell’androide. L’era dell’androide non è l’epoca in cui gli umani devono effettivamente fare i conti con gli androidi, ma quella in cui la possibilità dell’androide diventa reale, a partire dalla sua realtà come possibilità, come meta ideale di un percorso di sviluppo scientifico. Ciò che prima di Turing ci si aspettava da una macchina pensante era una capacità di “calcolare e risolvere” un problema, un aspetto della questione che sicuramente è presente anche in Turing, il quale concepisce il pensiero come calcolo – e vedremo quanto questa concezione sarà fondamentale per lo sviluppo dell’attuale nozione di intelligenza, e quindi di intelligenza artificiale; e tuttavia, è solo con Turing che appare chiaramente nella storia la possibilità che le macchine pensino, non più solo come capacità di svolgere un compito o risolvere un problema, ma come possibilità generica di pensare, il che richiede il previo sviluppo di una coscienza, di una percezione, di una volontà. Chiedere se le macchine possano pensare significa chiedere se le macchine possano sviluppare una coscienza, o se ne possiedano già una. A testimoniare la validità di quanto detto a proposito dell’importanza della domanda di Turing per gli attuali sviluppi della robotica, è sufficiente analizzare alcuni dei campi in cui questa scienza si sta sviluppando nel mondo di oggi. Per farlo utilizziamo soprattutto il giù citato manuale di Luger, Artificial Intelligence: Structures and Strategies for Complex Problem Solving, tenendo presente che, contemporaneamente, con quest’ultima analisi usciamo dal campo meramente “storiografico” per avvicinarci a quello più propriamente filosofico, sviluppato maggiormente nel secondo capitolo. Il passato infatti sta lentamente portando la tesi a slittare verso il presente e quelli che erano dati “certi”, fissati nel tempo in date precise, iniziando a diventare “sviluppi correnti”, i quali di giorno in giorno portano nuovi risultati e nuove alterazioni nel mondo della robotica.
[…]

Il primo di questi campi di ricerca attuali è quello del linguaggio, o meglio, del natural language understanding. Si è già detto come in quest’ambito la robotica abbia dato diversi ottimi risultati: ELIZA di Weizenbaum, Ramona di Ray Kurzweil e altri chatterbot hanno dimostrato la possibilità per dei robot di “comprendere” in maniera più o meno adeguata espressioni umane e di tradurle in risposte sensate, che diano perlomeno l’impressione di una certa coerenza. Questo, specifica Luger, è stato fatto, però, soltanto per domini specifici di linguaggio (ad esempio, il lessico di ELIZA è ristretto a quello necessario in una seduta di psicologia) mentre si ottengono risultati molto meno impressionanti quando si tenta di estendere il dominio linguistico di un robot all’intero campo del linguaggio, spaziando tra lessici differenti di domini lontani tra di loro. Questo problema è strettamente collegato ad un altro, che viene riportato quasi sempre nei resoconti di esperti nella ricerca sui sistemi intelligenti, ed è il problema del cosiddetto buonsenso. La qualità più diffusa tra gli uomini, le macchine sembrano non esserne dotate.
[…]

Riuscire a comprendere la dinamicità intrinseca al linguaggio umano, che è inseparabile dalla varietà dei suoi possibili utilizzi, dei diversi contesti in cui i giochi linguistici prendono forma, sembra essere un problema analogo a quello di riuscire a dare alle macchine la cosa che per l’uomo è la più scontata in assoluto, il buon senso, quell’insieme sterminato di piccole presupposizioni che costituiscono la base delle basi per apprendere anche il più piccolo dei processi immaginabile, ad esempio quello di cambiare una lampadina: «Capire come si possano produrre macchine in grado di costruire reti simili all’interno di se stesse mi pare il problema di ricerca più stimolante del nostro tempo».
Un altro dei problemi collegati a quello del linguaggio e del buonsenso, è quello del cosiddetto environment, l’ambiente, che potrebbe anche essere definito il “mondo-circostante” (Umwelt) con il linguaggio della fenomenologia, e la difficoltà di assegnarne uno ad un robot, ovvero la difficoltà di far sì che un robot possa comprendere il suo mondo-circonstante e riuscire a spostarvisi all’interno come se vi si trovasse a proprio agio. Si è accennato a SHRDLU e della sua capacità di riconoscere diversi colori elementari, nonché di afferrare blocchi di un certo colore e di spostarli verso zone macchiate da un colore diverso. Tuttavia, ancora negli anni ’70, per funzionare, il “mondo” di SHRDLU doveva essere ridotto al minimo al fine di non generare un sovraccarico di informazioni che non sarebbero potute essere elaborate correttamente dalla macchina. Altri tentativi in questo senso sono stati vari robot semoventi sviluppati soprattutto al MIT e alla Stanford University, come ad esempio Shakey, rimasto famoso proprio grazie alle “scosse” (shakes) con cui si muoveva in un ambiente spoglio e privo di ostacoli. Ancora oggi si continua su questa strada. […]Il problema di dover dare un mondo-circostante a una macchina offre la possibilità di fare diverse osservazioni a riguardo. La prima, la più ovvia e forse la più importante è questa: prima che le venga assegnato da un software adeguato, la macchina non ha un Umwelt, un mondo a lei circonstante. Il secondo punto da sottolineare è lo stretto rapporto tra questo problema e quello del linguaggio: dare un mondo ad una macchina significa averle dato, preventivamente, un linguaggio in cui quel mondo deve essere tradotto. Più è complesso il mondo, più deve essere complesso il linguaggio che la macchina deve saper comprendere, con il che però si torna al paragrafo precedente, in cui si parlava proprio della difficoltà per questi robot di comprendere un linguaggio che sia più generale di quello di uno specifico dominio loro assegnato. Per risolvere questo problema e altri analoghi, sono in corso tentativi come quello di Doug Lenat, chiamato CYC (riduzione di “encyclopedia”), un progetto open-source che offre a chiunque lo voglia la possibilità di partecipare per unire in un solo lessico generale lessici-specifici generati da ricercatori di tutto il mondo. CYC è ancora aperto e in fase di sviluppo. Gli ultimi due problemi lasciati aperti dall’attuale ricerca nel campo della robotica sono quello dell’apprendimento, ovvero della possibilità di dare alle macchine la facoltà di imparare – una prerogativa che sappiamo essere dell’uomo e, in parte, degli animali – nonché quello della simulazione del comportamento umano, cioè il poter attribuire agli automi un savoir faire un po’ più umano e un po’ meno robotico. A causa del loro interesse e della grande quantità di implicazioni che ciascuno di questi punti comporta, non verranno trattati qui, ma nel prossimo capitolo, a seconda della direzione da cui proverrà di volta in volta il fuoco di fila degli autori presi in questione: da una parte i sostenitori di una IA forte (il movimento detto “Intelligenza Artificiale” in senso vero e proprio), dall’altra i detrattori di questa possibilità.
Con quest’ultima sezione, quindi, si è tentato più che dare un semplice quadro storico della ricerca nel campo della robotica. Individuando i punti fondamentali della ricerca contemporanea, si è voluto contemporaneamente dare un’idea preventiva di quali saranno i punti presi in questione dall’attuale dibattito a proposito dell’intelligenza artificiale: quale forma dovrà avere questa intelligenza, e che cosa significa essere intelligenti? È possibile reale per l’IA quella di sviluppare, un giorno, macchine veramente intelligenti, oppure è soltanto una chimera, una fantasia?

Questo brano è tratto dalla tesi:

IA. Una critica fenomenologica al concetto di intelligenza artificiale

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Informazioni tesi

  Autore: Valfredo De Matteis
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Verona
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Davide Poggi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 165

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