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Le immagini "agenti". Una riflessione critica sul ruolo dell’Agency nell’arte.

La risposta all’Art and Agency di Gell

Dalla sua pubblicazione, nel 1998, l’Art and Agency di Alfred Gell è stata salutata sia come un intervento originale sia come un punto di partenza nel campo dell’antropologia dell’arte. Nonostante è stato respinta come un complicato, se non ingannevole, “gioco di spirito”, la complessità della teoria gelliana affascina i lettori come le canoe Trobriandesi, delle quali Gell analizza gli effetti che queste avevano sugli spettatori in Polinesia. L’enchantment nello scritto di Gell risiede principalmente nel considerare le opere d’arte gli equivalenti delle persone, pertanto queste vengono considerate in termini performativi come sistemi di azioni destinate a cambiare il mondo. Tutte le immagini, per quanto diverse nell’origine, in natura e scopo, sono “Agenti” che intrappolano e catturano l’attenzione dello spettatore; perciò, una tale teoria, complessa e generale, potrebbe trovare fortuna se “abdotta” dalla storia dell’arte.

Il corposo volume di Alfred Gell si colloca in un ampio campo di studi che va dall’antropologia alla storia dell’arte, tuttavia le risposte all’Art and Agency sono state di natura critica. In primo luogo, sono state avanzate robuste critiche sull’aspetto teorico dell’analisi del materiale etnografico di Gell, in particolare da studiosi come Bodwen, il quale afferma che paradossalmente, a dispetto del titolo, il libro di Gell non è un testo sull’arte, dal momento che considera i manufatti artistici di qualunque tipo esclusivamente come oggetti che consentono l’abduzione di un’agency. Al di là di una tale critica, brevemente, potrebbe risultare interessante far luce su un importante teorico che negli anni ’70 scriveva:

«Supponiamo che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture. Accettare questa premessa significa semplicemente far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose. Ciò apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’ “uso”, giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la “desiderabilità” delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care».

Esponeva così la sua tesi George Kubler nell’introduzione di “La forma del Tempo”. Per molti aspetti Gell sembra essere vicino alle posizioni di Kubler. La “storia delle cose” è per lui una antropologia delle tecniche, interessata al “processo che trasforma ininterrottamente le capacità sensoriali umane e il sapere mediante scoperte continue”.

È utile quindi riunire idee e cose sotto la rubrica di “forme visive”, includendo in questo termine sia i manufatti che le opere d'arte, le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni, in breve, tutte quelle materie lavorate dalla mano sotto la guida di idee collegate e sviluppate in sequenza temporale. Scienza e arte si occupano ambedue di certi bisogni umani che la mente e le mani soddisfano producendo cose. Arnesi e strumenti, simboli ed espressioni corrispondono ugualmente a determinati bisogni e tutti devono essere prima progettati e poi eseguiti.

Oggi appare di nuovo chiaro che l'artista è un artigiano e che egli appartiene a un raggruppamento umano distinto quale homo faber, il cui compito è quello di evocare un perpetuo rinnovamento di forme della materia. Inoltre, concentrandosi sulla storia delle cose nei loro rapporti di influenze e filiazioni nel tempo, Kubler critica la nozione kantiana di contemplazione disinteressata e il culto dell'autorialità e dell'opera unica, tipico della cultura euro-americana degli ultimi secoli. Molti degli aspetti chiavi sembrano essere stati ripresi nella teoria di Gell ma, nonostante tutto, non sembra esserci alcun riferimento nelle pagine del volume gelliano.

Ma tornando alle risposte che sono seguite all’Art and Agency, oltre a Bowden si aggiungono anche le critiche di Layton (2003) e Morphy (2009). Anche nel campo della storia dell’arte si è cercato di fornire, attraverso una serie di applicazioni della teoria gelliana, un adeguato quadro analitico – Pinney, Thomas (2001) e Rampley (2005) - ma, complessivamente, queste opere costituiscono delle importanti incursioni nel lavoro di Gell che tuttavia mettono a dura prova l’applicabilità e l’utilità analitica della teoria dell’Art and Agency.

Se c’è stata una certa considerazione per tale teoria il merito va agli storici dell’arte antica, in particolare Robin Osborne e Jeremy Tanner (il primo è docente di Storia Antica all’università di Cambridge, il secondo di Archeologia Classica e Arte Comparata all’University College di Londra). Entrambi organizzarono già nel 2000, a poca distanza dalla pubblicazione del libro di Gell, un seminario a Oxford per aprire un confronto su di esso.

Seguì a distanza di tre anni un secondo seminario a Cambridge, i cui atti sono stati pubblicati nel 2007 col titolo Art’s Agency and Art History. Il volume contiene saggi che vanno dall’Egitto faraonico all’età elisabettiana, passando naturalmente per la Grecia e per Roma. Nonostante la straordinaria ricchezza del volume, al termine di tutti i saggi viene ammessa una certa insufficienza dello schema gelliano o, comunque, sembra che per questi studiosi la teoria di Gell non ha portato novità di rilievo per l’antropologia dell’arte antica e tanto meno per la storia dell’arte antica.

Credo, in primo luogo che si potrebbe riconoscere a questo studioso un certo merito nell’elaborazione di un modello originale e potente da collegarsi con una contemporanea theory-building del sé e delle relazioni tra soggetti e oggetti, utilizzando una innovativa e preziosa terminologia. Tuttavia, vi sono limiti nel modello empirico e analitico che pesano all’interno della teoria di Gell e di cui bisogna tener conto.

Si presenta una situazione paradossale nell’attuazione della teoria gelliana: da un lato, teoricamente sembra condurci lontano nel tentativo di elaborare una vera e propria teoria dell’arte per cui l’antropologia ne fornisce un’importante chiave di lettura; dall’altro, il rifiuto totale dell’iconografia e dell’approccio estetico comporta restrizioni metodologiche con le quali lo stesso Gell si trova, in un certo senso, a fare i conti dal momento che nella risposta emozionale all’artefatto le qualità formali o i contenuti simbolici giocano un ruolo importante.

Si potrebbe mostrare una certa validità nella teoria dell’Art and Agency se considerata all’interno di una rotazione teorica in cui la prima parte del testo dove Gell descrive il suo metodo utilizzando una certa terminologia per gli esempi artistici potesse essere, per cosi dire, salvata all’interno della seconda parte e in particolare sul concetto di distributed personhood, che risulta essere più proficua.

Alla luce di queste considerazioni, credo che il programma di Gell vada rivisto sullo sfondo delle tendenze dominanti dell’antropologia e dell’antropologia dell’arte contro le quali stava reagendo. Una volta inserito in questo contesto si possono dimostrare caratteristiche significative in comune con alcuni dei più importanti interventi critici nell’ambito della storia dell’arte.
Alfred Gell, fortemente preoccupato a prendere le distanze dall’imputazione che l’arte è come il linguaggio inteso a comunicare significati simbolici, assume una posizione critica contro l’antropologia strutturalista degli anni ’70 del Novecento.

Art and Agency, ricordo brevemente, è un tentativo di analizzare i contesti in cui avvengono le relazioni sociali che sono oggettivate in forma indicale negli artefatti. Gli Indici motivano le inferenze abduttive circa l’artista, il prototipo e il destinatario che sono i protagonisti delle azioni svolte in prossimità dell’oggetto artistico, per questo un “oggetto sociale”. Un tale metodo supportato da una serie di termini e interrelazioni si presenta in una promettente esplorazione del dominio di interazione che contestualizza l’oggetto d’arte e lo trasforma in un agente d’azione e strumento di scambio intersoggettivo. L’utilizzo di tali termini come “indice”, “abduzione” e l’analisi schematica delle opere nella tabella dell’ Art Nexus (fig.1) offrono un potente strumento per l’analisi storica e comparativa.

Tuttavia, emerge una situazione paradossale dal momento che l’antropologo utilizza una terminologia proveniente dal campo di studi che volutamente intende provocare e rifiutare. Sembrerebbe che Gell abbia voluto intenzionalmente utilizzare le stesse “armi” di un nemico che per troppo tempo ha dominato la scena dell’antropologia strutturalista, ma anche della semiotic turn nella storia dell’arte.

Gran parte degli strutturalisti che studiavano l’arte hanno considerato una particolare tipologia di oggetti come forma di comunicazione, nel tentativo di risolvere “simbolicamente” le contraddizioni esistenziali della vita e tendevano a rimarcare il potere conoscitivo dell’antropologia a scapito di concezioni native e del riconoscimento di un’agency storicamente collocata. Paradossalmente alla radicale presa di posizione da parte di Gell contro gli strutturalisti, lo studioso è mosso da intenzioni che lasciano trasparire la propria formazione che originariamente si è venuta a costituire, appunto, all’interno di questa tradizione di studi che lui stesso tende a rifiutare. Così, le questioni riguardanti l’“arte” affrontate da Alfred Gell sembrano prendere la stessa forma delle questioni affrontate da Lévi-Strauss sul totemismo.

Quest’ultimo prende in considerazione varie definizioni di totemismo e sottolinea che non solo sono tutte differenti, ma che non esiste una ragione particolare per sceglierne una piuttosto che un’altra. Dopo tutto il totemismo non è altro che ciò che i diversi autori classificano con questo termine. Sarebbe tuttavia ingiusto dire che parlano di qualcosa che non esiste, non fosse altro perché si ritrovano fenomeni simili nel mondo e che ciò richiede una spiegazione. Quella data da Lévi-Strauss è che tutti i fenomeni sono manifestazioni non universali di una caratteristica umana che, però, è universale e che spiega la ricorrenza dei fenomeni di tipo totemico e di molti altri che si potrebbero classificare con lo stesso termine. Lo studioso ha perciò spiegato cosa significa totemismo, pur negando la validità del termine in quanto strumento d’analisi. Per ragioni più o meno simili Gell vuole spiegare i fenomeni di tipo artistico senza perdere tempo a definire l’arte in quanto tale, ma le cose non sono così semplici come questo lavoro, appunto, lascia intendere.

Le critiche di Gell riguardanti l’estetica hanno un preciso obiettivo antropologico, ma nella sua trattazione vengono richiamate sia l’ estetica sia la comunicazione simbolica anche se in un modo che, in linea di principio, pone l’enfasi sull’agency sociale e la cognizione percettiva. I motivi decorativi, che non si riferiscono a nient’altro che a se stessi, offrono un terreno particolarmente favorevole per sviluppare la sua argomentazione. Nel sesto capito dell’Art and Agency, “La critica degli Indici”, Gell sostiene che i modelli delle arti decorative hanno una “vivacità” intrinseca in virtù delle interrelazioni tra motivi confinanti.

Le quattro trasformazioni planari - (1) riflessione, (2) traslazione, (3) rotazione e (4) Glissoriflessione - operano su motivi costituenti che costruiscono la base di tutti i modelli, generando rapporti complessi che sono indecifrabili e rallentano la scansione percettiva dello spettatore intrappolato nello scambio continuo con l’oggetto decorato. Tuttavia, ad esempio nel caso dei labirinti Celtici, Gell è obbligato a riconoscere che i significati simbolici e le modalità di comunicazione sono essenziali all’analisi stilistica tanto che è costretto ad esporre un modello iconografico.

Tali problematiche emergono più chiaramente nell’analisi estetica dello stile nell’arte delle isole Marchesi in Polinesia, in particolare nell’analisi del tatuaggio. In questo ambito, l’antropologo si concentra su un particolare motivo, “Etua”, e mostra come questo si può trasformare in numerosi altri motivi e non solo. Ne consegue appunto un’inversione di significato dal momento che l’Etua, quale figura divina, può assumere sembianze di altre divinità maschili o femminili e di figure eroiche. I mutamenti formali avvengono secondo principi di ripetizione e selezione con leggi strutturali che informano anche sull’interazione sociale tra i marchesi e i significati simbolici di questi motivi, i quali sono internamente connessi alla funzione “agentiva” del tatuaggio.

Quest’ultima è la creazione di una seconda pelle che si assicura il mantenimento dell’essenza vitale e protegge il portatore dall’invasione di agency esterne, sigillando gli orifizi del corpo. L’iconografia, il significato simbolico e l’estetica svolgono pertanto un ruolo decisivo nell’analisi stilistica dell’arte, anche se confinati all’interno di una robusta sociologia e psicologia cognitiva. In queste posizioni Gell è vicino, non solo al concetto di stile elaborato da Gombrich come ho già rilevato nel capitolo precedente, ma nel tentativo di sovvertire il fondamento teorico dell’antropologia strutturalista è molto vicino anche alle posizioni di importanti storici dell’arte, che già da tempo hanno rifiutato i vecchi paradigmi concentrati solo sulle forme d’arte più “Alta”.

L’antropologo non ha cercato solo una base più ampia che gli permettesse di inglobare delle cose tanto diverse come i feticci africani e i dipinti di Rembrandt, il suo scopo è stato anche quello di spostare la base epistemologica dello studio dell’arte. Ciò è evidente quando dice di essere alla ricerca di una teoria veramente antropologica. Per tale motivo, da un lato spiega l’arte in relazione agli elementi comuni che caratterizzano i membri della specie umana; dall’altro la teoria si fonda sul dato di fatto che gli esseri umani si comprendono tra loro e sono quindi capaci di vivere in società, condizione che per Gell costituisce una loro caratteristica fondamentale.

Ma nell’ambito della storia dell’arte utilizzare la teoria dell’Art and Agency comporta una questione rilevante che non può non tener conto anche del fattore estetico e iconografico dell’oggetto artistico e qui risiede la scelta fallace nell’utilizzo della tabella di relazioni dell’Art Nexus, dal momento che non è possibile rifiutare anche l’aspetto semantico per determinate opere d’arte.

Tuttavia, tali osservazioni non hanno lo scopo di sminuire il valore del libro di Gell, al contrario credo che questo rappresenti un notevole progresso verso la comprensione della forza e del fascino che esercitano su di noi gli oggetti classificati come artistici. Una soluzione sarà, necessariamente, in qualche modo mantenere la capacità che l’approccio estetico ha di illuminare le specifiche caratteristiche oggettive dell’opera in quanto tale, piuttosto che veicolare messaggi estrinseci di natura sociale o simbolica (Panofsky), senza soccombere per questo al fascino che tutti gli oggetti d’arte ben fatti esercitano sulla mente che ne coglie le proprietà estetiche. Credo, pertanto che la teoria dell’Art and Agency possa considerarsi come un’apertura verso ricerche nuove e stimolanti.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Le immagini "agenti". Una riflessione critica sul ruolo dell’Agency nell’arte.

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Informazioni tesi

  Autore: Sara Ponzi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Storia dell'Arte
  Relatore: Cieri Via Cafagna
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 296

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