2
Seppur vero che ogni attività umana è caratterizzata dall’avere un inizio e una
fine, è evidente come quando un impresa muore, gli effetti immediati di tale
decesso giuridico, rilevino nel fatto che sussistono tutto un insieme di diritti che
non possono più essere esercitati, e rilevino interessi tra gli attori del gioco che si
pongono in uno stato di conflitto.
Di pari importanza è comprendere le condizioni economiche, finanziarie e
giuridiche che rendano possibile un efficiente risanamento
1
, che riduca al minimo
possibili dissesti nel gia precario equilibrio in cui versa il sistema industriale
italiano.
Vero è che seppure un impresa non è morta, è parimenti vero, che l’eventuale
stato premorienza, o di coma irreversibile, determina innegabilmente situazioni di
squilibrio economico per il sistema industriale, finanziario e sociale, nonché si
rileva l’imbarazzante inidoneità dell’impianto normativo ad intervenire.
Si consideri come, quelle che si sono definite le regole del gioco, tocchino
l’interesse dei diversi attori, tali regole però palesano una generale insoddisfazione
di questi, cosicché l’analisi delle stesse, deve partire dalla condivisa idea del
“fallimento” della legge fallimentare, sia nelle sue figure tecniche e specifiche
(amministrazione straordinaria), sia nel suo impianto generale.
A dimostrazione di tale affermazione, si considerino le grandi società
commerciali, dove le procedure giudiziali, dal punto di vista degli azionisti di
1
L’idea del risanamento aziendale ha costituito uno dei principali obiettivi dei diversi legislatori.
In particolar modo, l’affermarsi dello stato sociale e la necessareità della conservazione dei livelli
occupazionali, ha costituito una delle principali preoccupazioni delle diverse Commissioni
preposte alla riforma della legge Fallimentare. FRESCAROLI SANTI , La crisi dell’impresa e la
soluzione nel welfare: è possibile un ipotesi concreta? , in Il Diritto Fallimentare 2002, 215-216
3
maggioranza, tendono a creare forti barriere all’uscita
2
; effetto immediato è il
ricorso alla cd. opacità fiscale e contabile o all’occultamento di sintomi di crisi.
Secondo gli azionisti di minoranza e più in generale, i soggetti erogatori di
credito, le procedure di crisi giudiziale appaiono insufficienti a garantire la tutela
dei propri diritti e la relativa conservazione dei valori patrimoniali.
Per quanto attiene le banche, queste hanno maturato la convinzione che, in caso di
crisi d’impresa gestita con soluzioni giudiziali, il recupero dei crediti sia di durata
e ammontare massimamente incerto.
In tale ottica, va inquadrata l’esplorazione di nuove forme di
autoregolamentazione tra banche, che aumentino le probabilità di successo delle
soluzioni stragiudiziali, che, inquadrate nell’ottica dei rapporti tra imprenditore e
creditori, a detta di autorevoli autori, presentano noti vantaggi, essenzialmente
individuabili nell’assenza di schemi rigidi, che consentano di considerare le
diversità degli interessi in gioco, e ancora mancando di vincoli precostituiti
rilevano una maggiore flessibilità e rapidità nella realizzazione dell’obiettivo delle
parti
3
. A sostegno dell’idea anzidetta della preferenza per le soluzioni
stragiudiziali, Cavalaglio
4
, avverte come lo stesso rapporto del giudice con una
materia talmente magmatica, dovrebbe ispirarsi a una saggia opera di
2
Schlesinger , in più scritti, pone un forte accento critico sulla condizione di grave disfunzione
dell’apparato giudiziario e dell’amministrazione della giustizia in generale. In particolare rileva
l’inidoneità degli organi giurisdizionali a porre rimedio alle situazioni di crisi d’impresa:
SCHLESINGER, Crisi d’impresa e nuove regole:esigenze dell’economia, in JORIO, Nuove regole
per le crisi d’impresa, Il Fallimento,155
3
A. Patti, argomenta, che concordando sui vantaggi derivanti dal ricorso alle definizioni
stragiudiziali per la risoluzione delle situazioni delle crisi, evidenzia tuttavia la necessità di una
protezione e di una stabilità degli accordi conclusi tra il debitore e il proprio debitore. A. PATTI,
Crisi d’impresa: definizioni stragiudiziali, Ipsoa 5/2003, 485-486.
4
CAVALAGLIO, Nuove regole per la crisi d’impresa tra giurisdizione, amministrazione e
soluzioni stragiudiziali, in Nuove Regole per la crisi d’impresa a cura di Jorio, Milano,2001,247
ss.
4
armonizzazione di giurisdizione e autonomia privata, e quindi all’utilizzo di una
procedura finalizzata a scopi di riorganizzazione dell’impresa, gestendo i singoli
casi nella duplice consapevolezza che risanare l’impresa è un compito estraneo
alla toga, ma che egli stesso può gestirne le forme e i ritmi delle procedure,
consentendo alle diverse forze che interagiscono nel mercato di decidere sulla
irreversibilità o meno della crisi di una data azienda. Per chiarezza però si tenga in
considerazione come il tema delle soluzioni stragiudiziali incontra la naturale
fragilità e precarietà di queste, che sono essenzialmente rimesse al consenso
unanime dei creditori, spesso artefici di non opportune o indebite pressioni, al fine
di ottenere un migliore trattamento
5
.
5
JORIO, Le crisi d’impresa, Il Fallimento, 68.
5
2. Breve quadro sulle cause delle crisi d’impresa negli anni ’90.
Cronologicamente dobbiamo, al fine di comprendere il quomodo la crisi
d’impresa (intesa come fenomeno) abbia insistito sul sistema industriale e dei
mercati finanziari, porre la nostra attenzione, o in via metaforica aprire la nostra
finestra di studio, tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, entrando in
quest’ultimi e individuando quelle che possono essere definite le cause della crisi
d’impresa.
Tale periodo storico è infatti noto per la cd. finanza facile , ovvero per
l’indiscriminata facilità con cui grossi gruppi finanziari, o di imprese, ottenevano
danaro, a titolo di prestito o di capitale, per progetti la cui valenza era quantomeno
dubbia.
In tale ottica va inquadrata anche la riforma dei mercati e l’introduzione in essi di
nuovi strumenti finanziari, che ebbero come effetto degenerativo un crescere
generale dell’economia “di carta” rispetto a quella “vera”
6
.
Primo elemento che viene in rilievo è la produzione di effetti punitivi per talune
imprese e premiativi per altre, a causa dell’uscita della lira dallo S.M.E.
7
Vero è che in tale quadro si avevano due categorie di imprese, le prime indebitate
in valuta con attività prevalentemente in lire che hanno registrato effetti disastrosi
sia sulla propria struttura economica sia su quella finanziaria, le seconde che
6
Secondo i dati della Banca d’Italia, raffrontando le relazioni annuali del 1991 e del 1993, emerge
come l’entità dei crediti in sofferenza delle aziende di credito era di 32.613 mldi e le partite
incagliate erano 9.448 mldi; insieme esse rappresentavano il 7,38% del totale degli impieghi. Nel
1993 l’entità dei crediti in sofferenza era di 46.335 mldi (+42%) e le partite incagliate erano
30.875 mldi (+326%); insieme esse rappresentavano il 12,04% del totale degli impieghi. Fonte
Banca d’Italia – relazioni annuali, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni
7
A. TEDESCHI, crisi d’impresa tra sistema e management, EGEA, 1993,
6
seppure indebitate in lire, con fornitori italiani e con una buona percentuale di
export in valute forti, hanno avuto effetti straordinariamente positivi.
Se questo avveniva sul piano prettamente aziendale, su di un piano più generale,
si registrava la crisi di alcuni enti pubblici (es. EFIM e FEDERCONSORZI) o la
trasformazione di questi in S.p.A. , interrompendo cosi la “naturale” copertura
delle perdite di tali enti da parte dello Stato e, determinando come conseguenza
fisiologica, lo scaricare sui fornitori degli stessi enti, per la maggiore imprese
private, i problemi delle ex aziende pubbliche, realizzando cosi un effetto domino
di crisi.
Poiché all’inizio abbiamo sostenuto che, tra le cause della crisi d’impresa vi sia il
ricorso a nuove forme di attività sui mercati finanziari, sicuramente, incidenza
rilevante, ha avuto l’uso distorto del Leverage buy-out (L.B.O.), utilizzato non
tanto per vendere a soggetti terzi la propria azienda, ma addirittura per venderla a
se stessi, incassando il relativo prezzo fissato dalle banche, e caricare l’azienda in
vendita di maggiori oneri finanziari e ammortamenti, attraverso la fusione della
società vecchia con la nuova costituita ad hoc
8
.
In tale quadro individualizzante le cause della crisi d’impresa, si alloca anche
l’assenza nei primi anni ’90 tra le banche di un serio sistema di controllo dei rischi
a livello di un singolo gruppo di imprese
9
.
Ora, oltre alle cause esterne anzi presentate, è opportuno rilevare come queste si
accompagnino sempre a cause interne all’azienda, ovvero si pensi a scelte erronee
di azionisti, o managers per le imprese di rilevanti dimensioni. Oltre a queste vi
8
A. MORANO, Acquisto di azioni tramite LBO, in Le Società 9/1989, 793 ss
9
A. BISACHI, Delle crisi d’impresa e delle procedure fallimentari, in Riv. Diritto Commerciale.
1994, 279-321
7
sono poi cause oggettive e soggettive, quali ad esempio la tecnologia inadeguata
dell’impresa rispetto alle esigenze del mercato
10
Taluni, osservano, come sia essenziale tenere presente una null’affatto priva
d’interesse distinzione, ossia: impresa vera e impresa non vera, o meglio sarebbe
dire, impresa produttiva e impresa sanguisuga.
Particolare pesa per l’economia generale del Paese, hanno assunto i tristi esempi
d’imprese “fantasma”, la cui presenza sul territorio si era essenzialmente collegata
all’elargizione di benefici che, come è noto, hanno comportato finanziamenti a
fondo perduto per un’alta percentuale delle realizzazioni che i nuovi insediamenti
industriali operavano. Abbiamo visto numerose imprese entrare in crisi e fallire,
talvolta prima del completamento degli opifici e, talvolta poco dopo l’avvio della
produzione (peraltro priva di quei requisiti organizzativi e strutturali che
l’erogazione del finanziamento supponeva, con conseguente decadenza dagli
“aiuti”).
Altra tipologia è quella delle imprese che si organizzano per raccogliere
risparmio, “cavarlo dalla tasca” di tanta gente semplice, allettata dalla promessa
di miracolosi interessi, e poi dissiparli o distrarli per iniziative “personali”, del
tutto estranee alle finalità dell'impresa finanziaria.
A questa categoria d'impresa “negativa” appartiene l'impresa camorristica o
mafiosa, destinata spesso ad investimenti, la quale opera in funzione del
riciclaggio di danaro sporco da attuare in un arco di tempo limitato, ovvero con
finalità di preordinato inadempimento alle obbligazioni.
10
sul punto ancora A. TEDESCHI, Crisi di impresa e management, EGEA, 1993, 98
8
Per tutte queste tipologie d’imprese, la crisi si concretizza rapidamente e si
manifesta non appena “l’operazione” ha dato i propri preordinati “frutti”. In questi
casi, ovviamente, la crisi è assolutamente irreversibile, perché si tratta d’imprese
destinate ad entrare in crisi proprio per disegno dell’imprenditore, rispetto alle
quali, quindi non si può neppure ipotizzare un risanamento, o un salvataggio. Per
queste imprese, sovente chiaramente identificabili ab initio, la vera esigenza è
quella di creare un cordone sanitario preventivo, che, abbia la capacità, la forza e
l’idoneità di evitare che si costituiscano; ovvero, che, una volta costituite ed
entrate nel mercato, perseguano fino in fondo il loro “criminale” disegno. A tal
proposito deve darsi certa rilevanza a quella attività di rilevazione di fenomeni
anomali (per natura dell'attività, provenienza dei soggetti, dimensione del
capitale) da parte degli organi di polizia tributaria e non.
Una particolare attenzione nella fase dell’insediamento certamente almeno
scoraggerebbe certe iniziative o le terrebbe lontane da una determinata area
geografica. Ovviamente più complicato è il discorso per le imprese, costituite
altrove, che si trasferiscono nel territorio “da conquistare”. In tal caso, operando
un ragionamento pro futuro, diventa importante l’attenzione per certi fenomeni
economici da parte delle forze di polizia, le quali dovrebbero essere sensibilizzate
ad operare verifiche e controlli in situazioni che si presentano non omogenee
all’ambiente nelle quali trovano estrinsecazione (così, per esempio, l’operatività di
società finanziarie o di altri enti che più o meno surrettiziamente raccolgano
risparmio e/o erogano prestiti o finanziamento dovrebbe indurre a tempestive
verifiche).
9
Quindi, per queste imprese vi sono dei problemi particolari, che nascono dalla
loro più che probabile pericolosità.
In tal guisa, detti problemi specifici che hanno fatto da sfondo alla storia
giuridica, per le conseguenze normative da queste derivate, e sociali, per gli ovvi
riflessi determinati, nonché economici, si potrebbero definirsi come concause a
quelle anzi esposte
11
.
Dato cenno ad una categoria d’imprese del tutto peculiare, l’attenzione deve
spostarsi sull’impresa “positiva”, ossia l’impresa produttiva, l’impresa creata per
la produzione di beni o di servizi, la quale può entrare in crisi per una serie di
ragioni.
Si afferma che in determinati casi la crisi può risolversi all’interno dell’impresa
stessa; ciò accade quando gli elementi di rottura non sono particolarmente gravi,
ovvero investono l’impresa per un breve periodo, ovvero perché l’imprenditore
tempestivamente ha la capacità o la prontezza di adottare le opportune misure di
recupero. Diversamente dalle ipotesi anzi esposte, la crisi si risolverà in uno stato
d’insolvenza, eventualmente all’inizio non manifesto, ma successivamente
emergente da episodi isolati, e infine platealmente conclamato. La crisi può
dipendere da fattori endogeni o da fattori esogeni
12
.
11
M. SANDULLI, Crisi dell’impresa e alternative al fallimento, in Il Fallimento – Dottrina:
http://www.ilFallimento.it.
12
il riferimento alle due tipologie di fattori, endogeni ed esogeni, non necessariamente comporta
un out out degli stessi, difatti, spesso le due cause si sommano ed assumono il potere di un
moltiplicatore, incidendo non solo sulla gravità della crisi, quanto, soprattutto sulla concreta
possibilità, o meglio, probabilità di riequilibrio economico dell’impresa nel quadro dei propri
rapporti e nel mercato. M. MARIGNANI, Risanamento e conservazione dell’impresa in crisi fra
utopia e realtà, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2002, 1481/I.
10
Con riferimento alle vicende interne all’impresa, la prima causa di crisi va
ricercata nei problemi finanziari in cui il complesso aziendale (fisiologicamente)
può incorrere.
Il nostro sistema giuridico non richiede alcun livello di capitalizzazione per
l’imprenditore individuale e per le società di persone; una capitalizzazione
irrisoria per le società cooperative; una capitalizzazione oggettivamente “minima”
per le società per azioni, a responsabilità limitata e in accomandita per azioni.
Può dirsi, insomma, che un dato generalizzato, al riguardo, è la
sottocapitalizzazione
13
. Da ciò discende, che quando l’effettiva capacità
produttiva non riesce a coprire, oltre i costi di produzione, gli elevati costi
finanziari, l’impresa si viene a trovare rapidamente in difficoltà.
Tale situazione incide sulla crisi, aggravandola per quanto attiene i suoi effetti per
i creditori, anche sotto altro angolo visuale, e ciò a cagione del “normale”
comportamento del ceto bancario.
Infatti, in presenza di questo insufficiente livello di capitalizzazione, mentre il
fornitore fa credito essenzialmente facendo affidamento sul patrimonio
dell’imprenditore debitore, ma ancor più sulla sua capacità imprenditoriale e
correttezza commerciale, la banca per lo più fa credito fondando sul patrimonio di
un terzo fideiussore o di un terzo datore di ipoteca. Per cui abbiamo che,
l’imprenditore di fatto riceve credito, quindi assume debiti, per un valore
eccedente il valore del suo patrimonio.
13
M. SANDULLI, Crisi d’impresa e alternative al fallimento, op.cit. – L’autore, in tema della
minima capitalizzazione o sottocapitalizzazione, come causa del fenomeno crisi, avverte come, un
dato comune per tutti è l’assenza di un rapporto legale (di tipo normativo o di tipo amministrativo)
tra capitale e/o patrimonio e giro d’affari. A questo fanno eccezione al riguardo essenzialmente
solo le società che operano nel settore finanziario, quali banche e società assicurative.
11
Questo quadro comporta che necessariamente l’imprenditore avrà assunto
impegni superiori alle proprie forze, rispetto ai quali il ceto bancario è protetto, in
quanto gode oltre che della garanzia patrimoniale del debitore, della garanzia di
un terzo. Gli altri creditori, invece, vedono concorrere sull’unico patrimonio
responsabile anche la banca, che comunque, gode anche di garanzie estranee.
Altro diffuso elemento di crisi è costituito dall’incapacità dell’imprenditore di
organizzare, in forme efficienti la propria azienda, così da produrre ad un giusto
livello di economicità.
Massimamente, con riferimento alla piccola impresa, abbiamo talvolta bravi
operai o bravi artigiani, i quali diventano “imprenditori”, pur essendo privi di
qualsiasi nozione (o qualsivoglia istruzione) per potere applicare corretti principi
o regole d’impresa. In questi casi il mancato riferimento ad un valido esperto
aziendalista diventa essenziale per l’impresa, sia per quanto attiene
l’organizzazione dell'azienda sia, per quanto attiene la struttura finanziaria.
Al riguardo va anche ricordato il fenomeno della sottrazione dei fondi d’impresa.
Spesso, infatti, l’imprenditore pensa che “il ricavo” sia “l’utile”. L’ignoranza dei
principi giuridico-economici, fa si che taluni imprenditori di piccolo-media
dimensione diventano insolventi perché con i ricavi d’impresa si spingono in
acquisti incauti. Potremo quindi convenire con chi ritiene che l’assenza
all’educazione a comprendere quale debba essere la destinazione dei ricavi; e,
quindi, quale debba essere il rapporto tra il prelievo che fa l’imprenditore e la
parte che, invece, egli deve necessariamente lasciare nell’impresa, costituisca a
12
tutti gli effetti una causa della crisi di una singola impresa, per lo più medio
piccola.
Con riferimento ai profili esogeni, può ricordarsi che la crisi dell’impresa può
derivare da, una crisi generale del sistema economico, da una crisi sviluppatasi in
una determinata area geografica, da una crisi di settore specifico, nel quale la
stessa impresa opera, oppure, e forse è questa la causa più frequente, da limiti o
incapacità propria dell’imprenditore ad adattarsi ai fattori ambientali esterni.
Ancora, può accadere che l’imprenditore perda canali o fonti di lavoro che in
precedenza riusciva ad utilizzare
14
; oppure a causa della prima ricordata carenza
di capitalizzazione iniziale dell’impresa stessa, e di una correlata “incapacità” di
poter far ricorso al credito.
Tali elementi sono tra quelli che in via autonoma, o in connessione tra loro in
tempi medio-brevi, riducono l’impresa in difficoltà.
In teoria, secondo una certa dottrina, in un mercato a concorrenza perfetta
l’insolvenza dell’impresa non costituisce un grave danno, in quanto all’impresa
insolvente si sostituirà l’impresa sana; quindi, non si produce alcun pregiudizio al
sistema economico globale che conserva la propria potenzialità produttiva, né alle
energie lavorative, che si trasferiranno nella impresa che, nel sistema, sostituirà
quella decotta.
Nella realtà, a parte che il sistema di concorrenza perfetta non esiste, è noto come,
proprio negli ambienti economici più deboli, l’insolvenza di un’impresa è una
perdita secca per la collettività, non recuperabile, o quantomeno difficilmente
14
questo potrebbe qualificarsi come un sotto-problema. In realtà, ai fini dello studio delle possibili
soluzioni della crisi d’impresa, sarebbe più che opportuno necessario, indagare su come
l’imprenditore avesse acquisito i canali o le fonti di lavoro.
13
rimediabile. L’insolvenza è una distruzione di ricchezza, in quanto gli strumenti
organizzati, le attrezzature, i macchinari, alla fine non saranno più utilizzati come
potenzialmente avrebbero potuto esserlo; allo stesso tempo, la mano d’opera non
viene subito riassorbita in iniziative alternative. Tutto questo comporta che, oltre
la mancata utilizzazione di professionalità, c’è un massiccio ricorso al sostegno
pubblico, che proprio per l’impossibilità del mercato di dare accesso a
collocazioni alternative nel mondo dei lavoro, è destinato ad essere utilizzato per
numerosi anni, anche attraverso “l’invenzione” di sempre nuovi strumenti
15
.
15
In ragione di quanto esposto, a fini esemplificativi si consideri come nelle zone più povere si ha
un ricorso, talvolta inappropriato, ai c.d. ammortizzatori sociali, sovente ben oltre il termine
massimo di diciotto mesi previsti dall'art. 3 L. 223/91. Questi infatti, nella più volte ritardata
riforma della materia, si sono allontanati dalla loro originaria funzione, definendosi quali
ammortizzatori di conflitti sociali.
14
3. Il dubbio amletico della crisi d’impresa: liquidazione o conservazione?
Seppur brevemente, abbiamo evidenziato come la crisi d’impresa, generalmente
intesa, comporti una distruzione di valore, il cui livello e distribuzione, dipende
essenzialmente dalle regole del gioco che in ogni Sistema-Paese governano le
procedure di gestione e di uscita dalle crisi; a tali regole, possiamo affermare che
si chiede di creare una sorta di cornice che governi in modo efficiente ed equo la
tutela dei diritti contrapposti e i relativi conflitti d’interesse. Se questo avviene, ne
trae beneficio tutto il sistema che regola i rapporti dell’impresa con i suoi
principali interlocutori, rappresentati dai fornitori degli imput produttivi: capitale
di credito, capitale lavoro, e quelli propri di ogni impresa.
L’analisi, anche generica, delle carenze sul piano delle finalità e degli strumenti,
dimostrate nel tempo non solo dal fallimento ma anche dalle procedure
concorsuali ad esso alternative, dimostrano l’esigenza di capire e definire
l’amletico dubbio tra la conservazione dell’impresa e la liquidazione della stessa.
Quest’ultima infatti è procedura propria del fallimento, ponendosi come soluzione
alternativa alla conservazione nelle ipotesi di amministrazione straordinaria, cosi
come prescritto nel D. lgs. 8 luglio 1999, n° 270.
L’aver individuato l’esistenza nella crisi d’impresa di interessi confliggenti, rileva
al fine di comprendere le scelte legislative e i diversi orientamenti dottrinali nella
scelta degli strumenti di legge che i diversi stati ad economia di mercato hanno
realizzato per perseguire l’idea conservativa o liquidativa dell’azienda.
15
Procedendo per linee principali di pensiero, possiamo recuperare una,
quantomeno simbolica, distinzione in due correnti di pensiero:
a) Impostazione privatistica che tende a trattare il fenomeno della crisi
d’impresa ponendo come punto focale la tutelae creditorum, per lo più
preferendo procedure d’impronta liquidatoria sull’impresa, o sul
patrimonio dell’imprenditore;
b) Impostazione pubblicistica tende a trattare le crisi d’impresa
salvaguardando in primis l’interesse pubblico (su tutti l’aspetto
occupazionale) mediante il ricorso a procedure tendenti alla continuazione
e al risanamento dell’azienda.
Tali due impostazioni prettamente dottrinali, però non sono da considerare tout
court, in quanto se è vero ciò che affermano, è parimenti vero che una maggiore e
migliore tutela del diritto di credito la si può ottenere, tanto con una procedura di
liquidazione del complesso aziendale, quanto attraverso la continuazione
d’impresa. Si consideri come, in taluni casi, il valore di un’impresa in
funzionamento sia superiore rispetto ad una in stato di liquidazione
16
.
È evidente come, lo studio del dubbio amletico cui si faceva riferimento nel titolo
del paragrafo, debba considerare, come le diverse organizzazioni statuali abbiano
16
In tal senso, M. BELCREDI, Le ristrutturazioni stragiudiziali delle aziende in crisi nei primi
anni ’90, WP, 1996, 6 . Secondo la teoria delle opzioni (Black-Skoles: “The price of optino and
corporate liabilities” Journal of Political Economics, 1973) in caso di responsabilità limitata degli
azionisti, i proprietari dell’azienda sono i creditori. La teoria infatti evidenzia come agli azionisti
sia riconosciuta una option call, e non un obbligo di acquisto; tale opzione ha come scadenza, il
termine del debito e come valore nominale il valore del debito stesso. Alla fine, se il valore
dell’opzione è positivo, ovvero, se il valore dell’impresa è superiore al valore totale dei debiti, essi
potranno esercitare il proprio diritto, altrimenti i creditori resteranno proprietari. I creditori cosi,
potranno decidere cosa fare, ovvero liquidare o continuare.