5
Il pluriennale rapporto con la RAI (come orchestrale,
sceneggiatore, quadro e, infine, dirigente) inizia nel 1951 – l’anno
in cui Rosso si trasferisce a Roma, dove vive tuttora – per
concludersi soltanto nel 1990.
Dopo la Musica e la Filosofia, la Letteratura: è il 1956, e Rosso
(che l’anno prima aveva già pubblicato una novella) nei corridoi
della RAI conosce Carlo Emilio Gadda, al quale sottopone il
racconto Breve viaggio nel cuore della Germania. Gadda apprezza
l’opera e dà il manoscritto a Giorgio Bassani, che lo pubblica sulla
sua rivista, “Botteghe Oscure”.
L’adescamento, raccolta di tre racconti (Breve viaggio nel cuore
della Germania, Una lontana estate, L’adescamento), pubblicato
da Feltrinelli nel 1960, tradotto in varie lingue e vincitore del
premio “Puccini-Senigallia”, è il primo grande successo del
giovane Rosso. Verrà ristampato da Einaudi nel 1975.
L’opera che è forse il capolavoro della narrativa di Rosso, La dura
spina, viene pubblicata da Feltrinelli nel 1963 (ristampata da
Mondadori nel 1982 e da Garzanti nel 1989. È stata anche finalista
al premio Strega). Segue, nel 1967, Sopra il museo della Scienza,
pubblicato da Feltrinelli, vincitore del Premio Sila.
Nel 1968 ha inizio l’attività drammaturgica : la commedia La
gabbia, però, rappresentata dal Teatro Stabile di Genova, con la
regia di L. Squarzina, non ottiene successo. Rielaborata, e con il
nuovo titolo Un corpo estraneo, verrà messa in scena, tra 1984 e
1986, da Alvaro Piccardi, il regista più affezionato alle commedie
di Rosso, questa volta con grandi consensi.
Da qui in poi, narrativa e teatro procedono paralleli nella
produzione rossiana. Escono ancora Gli uomini chiari (pubblicato
nel 1974 da Einaudi), Il segno del toro (Mondadori, 1983), Le
6
donne divine (Garzanti, 1988. Premio Selezione Campiello), Il
trono della bestia (Piemme, 2002) e La casa disabitata (Aragno,
2003), mentre si fa più costante l’interesse per il teatro.
Nelle stagioni 1978/79 e 1979/80 il Gruppo della Rocca, con la
regia di Piccardi, mette in scena il più grande successo teatrale di
Rosso, Esercizi spirituali ovvero Il concerto, pubblicato da Einaudi
insieme a Un corpo estraneo, nel 1975.
Seguono Il pianeta indecente, interpretato da Giulio Brogi, regia di
Roberto Guicciardini, nel 1983/84 e Gli illusionisti, pubblicato da
Sellerio nel 1999, che ha vinto il Premio Pirandello nel 1983, ma
che, con grande rammarico dell’autore, non è stato ancora
rappresentato (“Provi a indovinare quanti direttori di teatri o registi
me l’hanno chiesta in visione ! Nessuno.”, mi confidava Rosso,
aggiungendo amare considerazioni sull’attenzione riservata agli
autori contemporanei nel teatro italiano).
Pino Micol, interprete e regista, nel 1991/92 mette in scena, con la
compagnia del Venetoteatro, Edipo (già vincitore del premio
Riccione nel 1979 con il titolo Il rifiuto della parte assegnata),
originale riscrittura del mito sofocleo, pubblicata da Viviani
editore nello stesso anno.
L’imbalsamatore è, per ora, l’ultimo successo teatrale di Rosso:
messo in scena dalla Compagnia del Teatro Stabile di Genova nel
1997/98, interprete Vittorio Franceschi ; ridotto a libretto, in lingua
inglese, e musicato da Giorgio Battistelli, è stato rappresentato nel
2002 al teatro Almeida di Londra.
Le ultime commedie, Cassandra e Per solitudine e amore, sono
state pubblicate dalla rivista “Primafila”, rispettivamente nel 1996
e nel 2003, ma mai rappresentate.
7
Inoltre, Renzo Rosso mi ha parlato di sei commedie inedite, tra cui
Il copione (molto apprezzata dal compianto Vittorio Gassman, che
purtroppo, però, non potè metterla in scena), Da una commedia
all’altra e I sogni e le ombre di un solstizio d’estate.
Vanno poi ricordate le sceneggiature: Una storia milanese (1960,
film per la regia di Eriprando Visconti), Gli indifferenti (da
Moravia, 1961, film per la regia di Francesco Maselli), Abramo
Lincoln (1967, sceneggiato televisivo per la regia di Daniele
d’Anza), L’Odissea (la celebre versione televisiva del 1968, con
Irene Papas, regia di F. Rossi), I vecchi e i giovani (da Pirandello,
1976, in collaborazione con Marco Leto. Sceneggiato televisivo
per la regia di M. Leto). L’attività da pubblicista: con “Il Corriere
della Sera”, “La Repubblica”, “Sipario”, “Nuovi Argomenti”,
“L’illustrazione italiana”, e varie altre riviste inglesi, francesi,
svedesi e russe. Le traduzioni o adattamenti da Witkiewicz (Mister
Price, 1985), Seneca (Medea, 1989), Kleist (La marchesa di O.,
1990), Strindberg (Il padre, 1995). Ma soprattutto: la curatela del
volume Carlo Goldoni, pubblicato in 3000 esemplari numerati
dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1996, per la collana
“Cento libri per mille anni” – cui Rosso è particolarmente
affezionato – e le opere di drammaturgia radiofonica.
Tra queste ultime ce ne sono di contemporanee all’esordio
letterario, e perciò precedenti di molti anni l’attività
drammaturgica vera e propria
1
: Un servizio di guerra (1956,
interpretato, tra gli altri, da R. Valli e R. Falk) e La visita (1959,
interpretato da L. Brignone e S. Randone). Più recenti sono
1
Il dramma radiofonico Assalto al deposito (1954), scritto per una scommessa tra amici e poi
trasmesso con successo – così mi raccontava Rosso – precede addirittura la prima opera
letteraria. Ma Rosso non lo ricorda con piacere.
8
L’avvento (1994), La donna che frequentava il tempo (1995) e Un
animale domestico allevato bene (1996) – tutte trasmesse dalla
RAI.
* * *
Roberto Rebora ha espresso la (condivisibilissima) opinione che
“Rosso […] non decide dall’esterno di dare una dimensione
teatrale (parola ambigua teatralità, pronta anche ad ingannare se
stessa) a precedenti dimensioni che potrebbero essere anche
narrative
1
”. In definitiva : “Il suo teatro […] non è la trascrizione
scenica di occasioni narrative ma, prima di tutto, l’individuazione
di un rapporto o di rapporti che […] nel loro luogo si
rappresentano.
2
”
Rosso, dunque, conferma nella pratica della scrittura per la scena
ciò che teorizzava in un breve saggio sulla differenza tra narrativa
e teatro : una differenza che definiva “assoluta
3
”. Salvo poi
smorzare i toni, precisando che si tratta di una diversità sostanziale,
non assoluta, poiché queste tecniche sono comunque imparentate.
Due modi di raccontare che nascono entrambi dalla scoperta della
“parola nella sua sostanza vera, […] che fa cominciare la
distinzione della nostra stirpe dalla stirpe degli animali, [cioè] il
fatto di poter raccontare qualcosa che è avvenuto nel passato.
4
”
1
R. REBORA, Il teatro-scrittura di Rosso, in Novecento, a cura di G. Grana, Milano,
Marzorati, 1980, vol. VIII, p. 7969. Già apparso in “Rivista italiana di drammaturgia” I, I,
Roma 1976.
2
Ibidem, p. 7970.
3
R. ROSSO, Narrativa e teatro : una differenza assoluta, in Scrivere il teatro, a cura di F.
Angelini, Bulzoni, 1990, p. 19.
4
Ibidem, p. 19.
9
Il teatro si differenzia dal narrare nel corso della sua evoluzione,
quando alla magia della “sensazione del racconto” (una “forma di
ipnosi”, “un potere
1
”), già propria di chi, individualmente, si
elevava sulla vita degli altri per raccontare una storia, aggiunge
l’effetto “della ricreazione, della ripetizione di un dialogo.
2
”
(corsivo mio). Dialogo che si sviluppa nello spazio e che richiede
sempre e comunque la presenza di un pubblico, cioè di quella
stessa società della quale, in scena, si discutono i problemi –
laddove la narrazione, nel momento in cui si fa scrittura, nasce
dalla solitudine dell’autore (“Quando si narra […] io sono sempre
profondamente solo
3
”) e non ha un diretto interlocutore.
A tal riguardo, è sbalorditivo che Rosso, sulle prime classificabile
come scrittore prestato al teatro, sottolinei la maggior efficacia
dell’affabulazione teatrale rispetto al racconto scritto, alla
“scrittura nel silenzio
4
”. Ne L’adolescenza del tempo, opera
autobiografica quindi retrospettiva per definizione, tira le somme
di una vita spesa tra narrativa e teatro, concludendo:
“Se potessi farlo, saltando la realtà, preferirei proporre a
ciascuno dei miei ipotetici lettori una narrazione viva, a
braccio, di ciò che mi accingo a mettere per iscritto, […]
perché un racconto autobiografico avrebbe molto da
guadagnare dai segni ausiliari del viso delle mani e della
voce, che contraddicendo spesso le parole pronunciate
aggiungono alla loro superficie il profilo complesso degli
impulsi più intimi
5
”.
1
Ibidem, p. 19.
2
Ibidem, p. 20.
3
Ibidem, p. 20.
4
Ibidem, p. 20.
5
R. ROSSO, L’adolescenza del tempo, Frassinelli 1991, p. 1
10
Ma questa stimolante possibilità di un surplus semantico non
verbale ha un alto prezzo, che molti scrittori – soprattutto in Italia,
a detta di Rosso – hanno dovuto pagare, quando si sono cimentati
nella scrittura drammaturgica. Infatti “non è facile per uno
scrittore, per un narratore entrare nella dimensione teatrale […]. Il
romanzo ha tutta una lunga serie di informazioni narrative […]. Il
teatro non ha questa informazione narrativa e il suo dialogo, quello
che è la sua natura di rapporto interpersonale recitato,
l’informazione narrativa la deve riassumere dentro questa forma
diversa.
1
”
Rosso stesso ammette di aver faticato molto per giungere alla piena
padronanza della teatralità. Lo scotto pagato dalla commedia La
gabbia, che non ha ottenuto consensi finchè, anni dopo (e dopo la
raggiunta maturità di Esercizi spirituali), Rosso non l’ha
rielaborata in Un corpo estraneo, è stato istruttivo in tal senso. Il
successo è arrivato quando l’autore ha capito che “nelle maschere
deve concentrarsi tutto ciò che nella scrittura narrativa è invece
disteso e cammina su altri terreni.
2
”
C’è anche un’altra possibilità che il teatro offre in più rispetto alla
narrativa. Non se ne fa cenno nel saggio cui abbiamo finora fatto
riferimento, ma ecco cosa troviamo in calce al testo de La gabbia :
“NOTA DELL’AUTORE : questa edizione presenta
alcune modifiche rispetto al testo recitato nelle
rappresentazioni genovesi, ed è da considerarsi
definitiva.
3
”
1
R. ROSSO, Narrativa e teatro : una differenza assoluta, in Scrivere il teatro, a cura di F.
Angelini, Bulzoni, 1990, p. 20.
2
Ibidem, p. 25. A proposito di maschere, a p. 21 Rosso parlava del “grande sorriso di Dario
Fo : l’occhio sbarrato e la bocca aperta in quel sorriso che vuol dire tutto fuorchè un riso”.
Questa immagine, per Rosso, è “l’essenza stessa del teatro”, e da qui, indubbiamente, viene
quel carattere “clownesco” rilevato dalla critica a proposito di certo suo teatro.
3
R. ROSSO, La gabbia, in “Sipario”, sett. 1968, p. 50. In realtà neanche questa stesura sarà
definitiva, come sappiamo.
11
Con la commedia La gabbia–Un corpo estraneo, il “narratore”
Rosso si ricollega a una gloriosa tradizione del teatro italiano, della
quale fanno parte Dario Fo, Eduardo De Filippo e, ancor prima,
l’amato Goldoni : teatranti che scrivono per il teatro e considerano
conclusa la maturazione di una pièce solo dopo il collaudo sul
palcoscenico. Così il pubblico stesso ne è un po’ l’Autore.
Se, come dicevamo, Rosso non fa cenno di tutto ciò nel saggio, è
perché questa esperienza è rimasta isolata nella sua produzione
1
.
Per quale motivo – viene da chiedersi – un autore che, pur
partendo dalla narrativa, si mostra così interessato alla dialettica
cui il teatro obbliga (il confronto del drammaturgo con il pubblico
e con gli stessi interpreti della sua pièce), poi vi rinuncia?
Perché tornare alla solitudine, alla “torre d’avorio” (seppur munita
di ampie finestre spalancate sulla realtà) anche nello scrivere le
opere teatrali? Questione di carattere, certo (“un orso in gabbia
contento di esserlo”, così si autodefiniva Rosso parlandomi della
sua poca predisposizione alle pubbliche relazioni,
all’autopromozione) ; com’è certo che non ci sono più stati
insuccessi allarmanti come quello de La gabbia – né una temperie
culturale “partecipativa” come quella del ’68, anno in cui quel
testo nasceva – a spingerlo a rimettersi in gioco. O forse questa
ostinazione a restare fuori dall’ambiente teatrale (Rosso non
partecipa mai alle prove dei suoi lavori, per esempio) è il suo modo
per rispondere alla scarsa attenzione che da quel mondo è stata
rivolta – a torto – a lui e alla sua opera?
1
Eccetto una recente esperienza (da dimenticare, in verità) con L’imbalsamatore. Così la
descrive Franco Quadri in un articolo su “La Repubblica” del 14 / 04 / 97 : “Mal consigliato
dagli artefici, l’autore ha anche scritto, appositamente per lo spettacolo del Teatro di Genova,
un prologo […] che suscita solo imbarazzi e contraddizioni con la vitalità del seguito […]
l’amputazione è vivamente consigliabile.” Non ho potuto leggere questo brano aggiunto, ma,
stando all’autorevolissima opinione di Quadri, Rosso sarebbe incappato in un tipico
inconveniente dettato dalle “convenienze teatrali”.
12
Comunque, il Teatro ha pieno titolo per essere annoverato tra la
svariate coordinate estetico-culturali cui accennavo (Musica,
Filosofia, Letteratura), che sono alla base della composita poetica
di Renzo Rosso. E, per chiudere il discorso sulla relazione tra
narrativa e teatro nella produzione del Nostro, noterò en passant
che, a fronte di un teatro pienamente “teatrale”, ci sono, piuttosto,
molte influenze del teatro sulla narrativa – sappiamo che nel
Novecento, del resto, svecchiamenti della tecnica del romanzo
operati attingendo ad altri generi o altre arti sono stati ben accolti,
mentre, giustamente, il teatro deve rimanere svincolato dalla
letteratura.
Si vedano, per citare solo gli esempi più significativi, il caso del
racconto Patria, in cui l’effetto straniante del modo verbale
(congiuntivo), all’inizio :
“L’ambiente sia vasto, accidentato, con ampie finestre
polverose […], che passi la luce esterna per spiragli e ne
trasmetta tuttavia il clamore pacato e l’indulgenza…
1
”
si chiarisce dopo qualche riga, quando scopriamo che questo
racconto non è altro che una lunga e dettagliata didascalia da teatro
naturalistico, riletta in chiave grottesco-beckettiana da Rosso :
“I paesaggi stiano fuori, dietro le quinte…
2
” (corsivo
mio)
Oppure il vezzo “goldoniano” di porre un elenco dei personaggi
all’inizio di ognuna delle scene che compongono il romanzo La
casa disabitata :
“Camera da letto
(Persone : Floriana, cameriera ; Donna Barberina Grassi
di Montecaro ; il Nobiluomo Gioacchino di Montecaro)
3
”
1
R. ROSSO, Patria, in Gli uomini chiari, Einaudi 1974, p. 101.
2
Ibidem, p. 101.
3
R. ROSSO, La casa disabitata, Aragno 2003, p. 13.
13
Né mancano, nello stesso romanzo, spunti tematici che rimandano
a grandi classici del teatro : il “mal francese” come metafora della
degradazione dell’istituto familiare
1
(Spettri di Ibsen,
naturalmente), o il rapporto omosessuale più o meno latente tra
padrona e serva
2
(un capolavoro della cultura teatrale veneta
cinquecentesca: La venexiana ; forse anche Genet).
1
Ibidem. Si veda l’episodio La camera delle figlie, p. 61.
2
Ibidem. Si veda l’episodio Camera da letto, p. 13.