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sociale che può concorrere a svolgere questa funzione. Il Centro Servizi per il Volontariato, nell’ambito di
un progetto con l’Amministrazione Provinciale ed in collaborazione con Confcooperative sta elaborando un
disegno di ricerca che tematizzi le questioni e le fatiche che hanno connotato questa fase
programmatoria.
In questo scenario si è svolto il tirocinio del master in Social Planning, ed è stato, come per me tutto il
corso, un’occasione per cercare di frapporre qualche distanza dall’esperienza: distanza protettiva, capace
di rendere meno duro il confronto con una realtà difficile, che sfida costantemente le capacità
professionali e personali di ognuno; ma anche distanza generativa, capace di lasciar entrare in uno spazio
finalmente possibile i saperi, le esperienze, le storie di altri territori, di altre realtà.
La tesi, infine, è stata occasione di sistematizzazione, di chiarificazione, di studio analitico, di conoscenza.
Benché abbia cominciato a lavorare a questo prodotto già da diversi mesi sono stata seriamente tentata
di chiedere una proroga ai termini di consegna: mi sono accorta di avere un bisogno ancora grande di
approfondire e capire nella distanza spesso impegnativa, ma a suo modo facile della formazione. Ho
desistito solo per un esame di realtà: il sapere è sempre parziale, la comprensione è sempre in divenire.
Non mi basta lo spazio di una tesi per affermare di aver capito, ma mi è certo bastato per cominciare.
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1. QUADRI DI RIFERIMENTO
‘Gli uomini non uccidono soltanto
nella notte delle loro passioni,
ma anche al chiarore delle loro
razionalizzazioni.’
Edgard Morin - Una testa ben fatta
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1.1 Il Welfare mix: oltre l’età dell’innocenza
1.1.1 Tutto il welfare che abbiamo attraversato…
In fondo è proprio questo il nodo: se oggi è difficile iniziare un discorso sulle politiche sociali senza partire
dalla crisi del welfare state, è perché le culture si depositano. Gli apparati normativi, sociali, economici,
ideologici suscitano attese e prefigurazioni, bisogni e aspettative, sentimenti e timori che stratificano e
restano in gioco anche quando il loro ciclo è ormai concluso, e concorrono a generare le diversità che un
discorso culturale sul welfare mix deve oggi cercare di porre a sintesi. Anche per questo vale la pena,
ancora una volta, di richiamarne le coordinate centrali.
Lo stato sociale si afferma, nei paesi democratici ad economia capitalistica dell'Occidente, dal secondo
dopoguerra ed è legato ai processi di modernizzazione sociale. Lo Stato, attraverso il suo sistema politico
amministrativo, si è fatto garante della capacità del sistema sociale di assumere i bisogni fondamentali
dei cittadini in termini di crescita e di stabilità economica, di democrazia politica, di ridistribuzione del
benessere e di integrazione fra le diverse componenti della società. La gestione statale dei servizi ha
assicurato per molti anni ad un numero proporzionalmente elevato di cittadini livelli più che accettabili di
benessere sociale ed economico, ed in questo scenario non sorprende che la riflessione di quegli anni sul
volontariato sia stata parziale, separata e tutto sommato orientata a rimarcarne la subalternità al settore
pubblico.
I primi anni Novanta hanno tuttavia visto la presa d’atto in tutti i paesi occidentali, seppure con differenti
declinazioni, della definitiva fine delle illusioni che vedevano lo stato assistenziale come unico garante
della sicurezza individuale. L'assistenza, la sanità, l'educazione, le garanzie del lavoro e la sicurezza
personale sono oggi, da un lato, sottoposte a misure restrittive e tagli di spesa perché considerate non
più sostenibili, dall'altro sembrano inadeguate rispetto all'entità dei problemi ai quali dovrebbero
rispondere. La crisi del welfare state appare davvero irreversibile, a seguito anche di una serie di
trasformazioni sociali ed economiche che hanno minato alla base la capacità di risposta del welfare state.
Ne citiamo qui solo alcune, che tracciano di per sé la misura della profondità dei cambiamenti:
l'invecchiamento demografico e le profonde trasformazioni sopravvenute nei rapporti familiari che erano
in precedenza legami forti di inclusione; la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro e
i nuovi bisogni di servizi che porta con sé; la crisi del modello economico basato sulla produzione
industriale e la nascita di un modello di sviluppo basato su finanza e terziario che ha profondamente
ristrutturato i modi di produrre e di fruire dei beni o servizi forniti.
La crisi che ha avvolto i sistemi pubblici di protezione sociale appare, nella sua profondità, una crisi della
stessa razionalità pubblica: da un lato si è aperto un dibattito oggi più vivo che mai su quale sia l’effettiva
natura pubblica delle politiche sociali, dall’altro lo Stato ha dovuto misurare su di sé i limiti anche
strutturali ed organizzativi del proprio intervento. Caratteri fondamentali di questa crisi sono stati:
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- il progressivo irrigidimento delle capacità di azione dei servizi pubblici sempre più connotati dalle
disfunzioni tipiche delle strutture burocratiche molto sviluppate (lentezza operativa, inerzia
decisionale, burocratizzazione delle procedure…);
- la riduzione della spesa pubblica che ha richiesto l’attivazione di una pluralità di risposte alla
contrazione delle risorse (accesso a diversi finanziamenti pubblici e filantropici, partecipazione
volontaristica, flessibilità della forza lavoro….);
- la complessificazione della struttura dei bisogni che si definiscono in forma ormai quasi biografica
su fattori multivariabili ed eterogenei tali da chiedere prestazioni sempre più individualizzate;
- il deficit di radicamento democratico dello stato sociale che si è assunto per decenni la delega in
toto di ogni tipo di intervento sociale in nome dell’universalismo e del centralismo
dell’amministrazione pubblica, generando assistenzialismo in luogo di politiche sociali.
L’apertura al terzo settore ha dunque preso vigore in nome di valori e competenze che ad esso erano,
almeno inizialmente, riconosciute:
- flessibilità gestionale, legata a minori vincoli contrattuali, a maggior flessibilità normativa e
maggior capacità di mobilitare e valorizzare le motivazioni e le competenze (non sempre
certificate) delle persone;
- centralità della persona nella gestione degli interventi motivata da quadri di riferimento etici e
valoriali. A tali dimensioni solidaristiche afferisce anche la capacità di intercettare bisogni scoperti
e generare risposte innovative, anche ricorrendo a risorse molteplici non esclusivamente
pubbliche (volontariato, patrimoni propri, liberalità…);
- capacità di coinvolgere attivamente persone ed organizzazioni nei processi di attivazione e
gestione degli interventi, creando più stabili legami con la comunità ed assicurando al sistema
welfaristico l’ancoraggio democratico di fondo (Fazzi 1998).
Si è così aperta, in un modo che solo oggi si mostra in tutta la sua evidenza come strumentale, la fase
dell’esternalizzazione dei servizi, segnando il mutato rapporto tra ente locale e terzo settore che negli
ultimi venti anni è passato da una sostanziale indifferenza politica, che rispecchiava la complementarietà
delle funzioni e degli ambiti, ad un’accesa dialettica ormai quasi mercantile.
Su queste premesse il concetto di welfare mix è semplice ed intuitivo: indica una situazione in cui la
produzione di servizi e politiche sociali e di interesse collettivo è garantita da una pluralità di soggetti
istituzionali (pubblica amministrazione, organizzazioni no profit e imprese for profit), con ruoli
parzialmente sovrapposti e in parte diversi dove, di norma, la pubblica amministrazione svolge il compito
principale, ma non necessariamente esclusivo, di regolatore e finanziatore, e le imprese e le
organizzazioni private svolgono soprattutto quello di produttori. Il terzo settore è individuato come un
attore delle politiche di welfare che concorre in pari grado con le istituzioni pubbliche e le imprese for
profit alla gestione e alla realizzazione dei servizi richiesti dalla cittadinanza. E’ evidente come ciò che è in
gioco non sia una riduzione, ma un cambiamento nella visione funzionale dello Stato. Questi, da ente
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decisore e gestore, diviene pianificatore, chiamato a definire priorità, valutare servizi e politiche,
razionalizzare sistemi di offerta e abbattere sprechi. Le prime esperienze di coordinamento sperimentate
dalla cosiddetta ‘Legge Turco’ (L.285/97) ricercavano di questo approccio il lato migliore: sostenendo
integrazione anche, per la prima volta nelle politiche sociali, sovracomunale; valorizzando la sussidiarietà;
dialogando anche con le famiglie, i cittadini, i servizi.
In questo contesto, che qualcuno definisce virtuosa alleanza, ma altri preferiscono chiamare
privatizzazione strisciante, si colloca la legge 328/00, legge quadro sull’assistenza, che modifica
radicalmente l’impostazione che ha caratterizzato gli anni ‘80 e ‘90. ‘Alla gestione ed all’offerta dei servizi
– scrive la legge - provvedono soggetti pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e
nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della
cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di
patronato e altri soggetti privati’
1
. I soggetti del terzo settore, quindi, non sono più né meri prestatori
d’opera, né erogatori di servizi, ma si qualificano come componenti attive del processo di sviluppo delle
politiche di welfare.
Questo, almeno, è il dettato legislativo. Perché un cambiamento così profondo si attui molti e diversificati
sono però i passaggi che si devono compiere, e oggetto di questo elaborato sono proprio le diverse
declinazioni, gli ostacoli ed i successi, i nodi attorno a cui questo cambiamento si va ora dipanando.
Secondo un’efficace chiave di lettura proposta da Luca Fazzi (Fazzi 1998), un sistema di welfare mix può
evolvere secondo tre prospettive, che in Italia abbiamo anche in parte già sperimentato e che aprono
scenari radicalmente diversi tra loro.
Un primo frame è quello che Fazzi definisce ‘politico’ connotato da relazioni di scambio politico tra enti
pubblici e terzo settore. La strumentalità implicita in questo scenario si basa sull’assunto che nessuna
delle parti cerchi l’altra nella convinzione che il proprio contributo sia strutturalmente insufficiente e si
renda quindi necessaria una collaborazione. Le parti, al contrario, si relazionano in un gioco a somma
zero in cui ciascuno degli attori mira a massimizzare i propri obiettivi. Paradossalmente, per altro, il terzo
settore che pare aver trovato grande vantaggio in questa situazione si trova penalizzato nello svolgere il
proprio ruolo specifico. Laddove, infatti, le coordinate del potere sono nettamente afferenti al solo ente
pubblico che determina i fini dell’intervento, il no profit si trova di fatto ad attuare logiche e modalità di
azione che lo includono nell’ordinamento statale.
La percezione crescente che questa prospettiva associ disfunzioni sostanziali sia sul piano dell’efficacia
che dell’efficienza, ha fatto emergere negli ultimi anni da più parti la domanda di un riordino di questo
rapporto, e si sono delineate due vie da seguire.
1
L. 328/00 art 1 c.5 L. 328/00
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Una è quella del frame economico che considera sostanzialmente le organizzazioni no profit come
organizzazioni con finalità sociali, ma che per il resto devono funzionare come ordinarie imprese
commerciali. Ogni originale contributo che qualifichi la vicinanza del terzo settore ai cittadini è qui
sottostimato o svalutato. Le relazioni tra pubblico e terzo settore sono fatte ricadere in una prospettiva
che ‘premia la produttività intesa in senso economico piuttosto che l’azione solidale in senso lato,
dimostrando di considerare quest’ultima come un comportamento pur apprezzabile e da guardare con
simpatia, ma ancora troppo primitivo per essere integrato con successo nel sistema economico e sociale
più generale’
2
(Fazzi, 1998, Donati 1997). La forza pervasiva di questa lettura è tale che sono frequenti
persino nel terzo settore comportamenti pragmatici che la assumono.
L’altra prospettiva percorribile, alternativa allo scenario economico, è quello del frame culturale, che
individua nel settore no profit un soggetto dotato di autonomie progettuali e comportamentali che si
muove in un sistema che ha interdipendenze sia con il mercato che con lo stato. Qui il terzo settore non è
visto come una risorsa per le sue capacità di realizzare economie o muovere consenso, ma come
soggetto che può dare un contributo al sistema di protezione sociale purché possa salvaguardare le sue
specificità culturali. Il welfare mix come processo di co-costruzione chiede dunque a tutti i soggetti di
valorizzare la propria cultura, ma anche di considerarla interdipendente da quella altrui, lasciandosene
quindi contaminare.
Quale che sia la strada che il welfare mix italiano (anzi, lombardo) si troverà a percorrere, proviamo ad
indagare brevemente i due scenari di regolazione che, a vario titolo, sono stati percorsi nei due decenni
precedenti: quello politico, più connotante gli anni ’80, e quello economico, consolidato nel decennio
successivo.
1.1.2 Collusi o coesi?
‘Noi c’eravamo anche prima che i comuni cominciassero a fare i servizi’ ha orgogliosamente detto un
volontario partecipando ad un dibattito comasco qualche tempo fa. Vale la pena di ribadirlo, in un
momento politico sociale in cui il terzo settore gode fama di gran mercante.
L’Italia si è affacciata già agli anni ’60 con una solida tradizione di impegno sociale, soprattutto di
derivazione politica e religiosa. Nel decennio della contestazione, poi, forti movimenti collettivi, operai e
studenteschi, hanno attraversato il Paese proponendo nuovi attori sociali, non più collaterali ai partiti e
alla Chiesa. La società italiana si è così arricchita di presenze sociali varie ed articolate, molte delle quali
con forte motivazione ed impegno sociale e solidaristico, che hanno sostenuto evoluzioni importanti
anche nel campo dei servizi (un esempio per tutti: il rapporto tra il movimento femminista e la nascita dei
consultori).
2
Fazzi 1998, p. 19