5
attenzione sulla variabile “umana”, rendendo in tal modo consequenziale il suo
successivo sviluppo e la sua affermazione.
Ci si soffermerà in seguito, sulla varietà degli orientamenti teorici e
metodologici definitisi al riguardo.
Difatti, come per tutte le teorie che assurgano al ruolo di “paradigma” in
una particolare disciplina, anche il modello delle competenze non è esente da
interpretazioni differenti, che talora si discostano anche in maniera piuttosto
significativa, dagli orientamenti prevalenti o da una presunta ortodossia.
Come sempre, la varietà delle declinazioni sta ad indicare il fervore teorico
che ruota attorno a questo fecondo concetto, pertanto nel presente lavoro se ne
vorrà anzitutto considerare il contributo in termini di arricchimento dell’impianto
teorico e metodologico e si vorrà porre l’accento sull’apporto che scaturisce dalla
molteplicità delle esperienze e dalle numerose occasioni di verifica e confronto,
che tale articolato scenario offre agli specialisti del settore.
Il primo capitolo si chiude con un paragrafo dedicato alle finalità ed agli
obiettivi, che una gestione per competenze, è in grado di porsi e di raggiungere.
Nel secondo capitolo ci si soffermerà sugli aspetti metodologici e sulle prassi
applicative riguardanti i momenti cruciali del modello: l’analisi dei ruoli e delle
mansioni; l’individuazione delle competenze; la stesura degli elenchi; il processo
di valutazione.
Si descriveranno gli strumenti e le tecniche di cui gli specialisti ed i gestori del
personale possono disporre per realizzare una gestione per competenze.
Si passeranno quindi in rassegna tutti i settori trasversali di applicazione del
modello ed in maniera particolare, si approfondiranno gli aspetti relativi alla
selezione ed al reclutamento del personale, alla valutazione, alla carriera ed allo
sviluppo.
Su questo versante si cercherà di approfondire le problematiche relative alla
valutazione ed alle condizioni che ne determinano l’efficacia o che ne
compromettono l’oggettività e la validità.
6
Particolare riguardo sarà dunque riservato alle implicazioni di carattere socio-
psicologico che intervengono nel processo, sia dal punto di vista del valutatore,
che da quello del valutato.
Il terzo capitolo invece, sarà dedicato ad una serie di argomenti strettamente
interrelati al modello delle competenze e di grande interesse sotto il profilo socio-
organizzativo.
Il capitolo si apre con un paragrafo dedicato al tema del cambiamento, che
rappresenta l’indiscusso leit-motiv attorno al quale ruotano tutte le analisi degli
specialisti del settore.
Verranno quindi discussi alcuni concetti chiave e paralleli al costrutto delle
competenze: quelli dell’apprendimento continuo (“long-life learning”); della
società della conoscenza (“knowledge society”) e dell’organizzazione che auto-
apprende (“learning organization ”).
Daremo quindi un rapido sguardo ai concetti di “market driven” ed alla
metafora della “doppia presenza” per capire anche attraverso le più recenti
indicazioni dei teorici del marketing e del management, quali possano essere le
ripercussioni sulla GRU.
Si cercherà inoltre di capire, per quanto possibile, quali sono gli scenari che si
profilano nell’immediato futuro, in particolare nel nostro paese ed in Europa, ed in
quale misura “il bilancio di competenze” può essere messo in relazione con il
modello delle competenze, propriamente detto.
I paragrafi successivi saranno dedicati ad un approfondimento su una materia
che ad una prima lettura, potrebbe apparire come una divagazione dal tema
centrale.
Essa in realtà, contiene spunti di riflessione di particolare interesse e si rivela
strettamente connessa alla tematica delle competenze, in special modo sul piano
socio-psicologico: quali sono le conseguenze sulla qualità della vita e sul
benessere psicologico degli individui, dovute al clima di competitività talvolta
esasperato che le teorie organizzative contribuiscono a determinare nei luoghi di
lavoro ?
7
La parte finale di questa tesi sarà dedicata ad una breve analisi del contesto
organizzativo delle Aziende di Credito e ad allo studio di un caso attraverso la
descrizione del modello di competenze professionali adottato dall’azienda per la
quale lavoro.
Si cercherà pertanto di individuarne i principi ispiratori discutendone
l’impostazione nei suoi aspetti di maggiore interesse.
Successivamente si passerà alla presentazione di una ricerca sperimentale
condotta nella stessa azienda mediante la somministrazione di un questionario e
volta a cercare di ottenere informazioni sul vissuto psicologico dei soggetti
lavoratori e sulle opinioni che hanno questi ultimi, sulle strategie di GRU.
L’ultimo paragrafo sarà dedicato a qualche riflessione, sulla distanza che
molto spesso è dato riscontrare, tra il piano delle dichiarazioni formali di intento
da parte delle direzioni delle Risorse Umane e le concrete prassi operative che si
osservano nelle organizzazioni in materia di GRU, nelle quali intervengono, in
maniera significativa, le dinamiche interattive di tipo “informale” che vengono a
stabilirsi tra i soggetti.
8
Capitolo I
L'APPROCCIO TEORICO DELLE COMPETENZE: NASCITA
E SVILUPPO DI UN MODELLO IN COSTANTE ESPANSIONE
Abstract
In questa prima parte del lavoro approfondiremo gli aspetti di natura
teorica e le discussioni che hanno accompagnato la nascita e successivamente lo
sviluppo e la diffusione del modello delle competenze.
Ci soffermeremo in primo luogo, sui fattori “storici” che hanno creato le
condizioni per affermare la centralità del “soggetto” nella gestione delle risorse
umane, per poi analizzare le premesse teoriche che hanno favorito la comparsa del
modello sul panorama delle strategie organizzative.
Una breve rassegna delle diverse definizioni del costrutto di “competenza”
fornite da alcuni autori che ne hanno fatto l’oggetto dei loro studi o delle loro
pubblicazioni, ci aiuterà in seguito a specificare in maniera appropriata il quadro
concettuale di riferimento e ci chiarirà i motivi della centralità di tale approccio,
nelle pratiche di gestione delle risorse umane nelle odierne organizzazioni.
Passeremo poi ad analizzare la varietà dei modelli interpretativi
soffermandoci dapprima sulla vivacità del dibattito teorico, per poi analizzare in
successione nello specifico, le caratteristiche fondamentali dei tre approcci più
diffusi e citati: quello individuale/psicologico, lo strategico/razionale ed il
cognitivo.
In ultimo, avremo modo di mettere a fuoco le finalità che si propone una
gestione “per competenze”: di che natura sono le conseguenze strutturali sulle
organizzazioni in seguito alla adozione di tale modello, quali sono gli obiettivi
strategici che è possibile perseguire, quali erano le alternative strategiche a
disposizione delle organizzazioni e per quali motivi essi si sono rivelati inefficaci.
9
1.1 Eclissi del modello taylor-fordista. La centralità del soggetto nelle
organizzazioni “knowledge based”
Nell’apprestarci ad effettuare una analisi a 360 gradi sul modello delle
competenze, è utile ricorrere ad un brevissimo excursus storico che ci consenta di
ripercorrere idealmente i passi compiuti dalle teorie organizzative negli ultimi
decenni e di cominciare ad inquadrare le attuali condizioni di contesto.
Sul finire degli anni ‘60 entra definitivamente in crisi il modello
organizzativo Taylor-fordista fino ad allora imperante, che faceva riferimento alla
cosiddetta “Organizzazione scientifica del lavoro”.
Esso consisteva per l’appunto, in un metodico e sistematico sezionamento
di tutte le fasi del processo produttivo, che sfociava in una rigida divisione dei
compiti lavorativi.
Tale rigida divisione, specificava minuziosamente la prestazione richiesta
ai soggetti che ne prendevano parte e quantificava in maniera rigorosa tempi di
esecuzione e standard di prodotto atteso.
In quest’ottica, ogni iniziativa dei soggetti non conforme a quanto
prescritto, determinava una diminuzione del livello di efficienza del sistema e
andava considerata come una devianza da reprimere.
La “one-best way” fordista mirava pertanto a de-contestualizzare gli
ambienti organizzativi e ad annullare gli effetti dei differenti modelli socio-
culturali con i quali l’impresa era chiamata a confrontarsi, avendo come finalità la
costruzione di un modello universale di riferimento, nel quale ogni variabile
doveva poter essere “sotto controllo”.
La realizzazione di questo “idealtipo” doveva necessariamente svilupparsi
all’interno di un percorso stabilito a priori e specificato in ogni suo dettaglio.
Il valore predominante all’interno di tale concezione era evidentemente il
comportamento conforme, ed il raggiungimento di tale obiettivo passava, com’è
logico supporre, attraverso una sistematica compressione della soggettività.
10
In questa chiave, il contributo dell’individuo all’impresa poteva esprimersi
unicamente nei termini della pura omologazione, della stretta adesione agli
stereotipi comportamentali.
Anche le prospettive di crescita professionale assumevano scarso valore,
considerato che la elevata parcellizzazione delle attività e la divisione spinta del
lavoro
1
, non lasciavano intravedere particolari utilità nei percorsi di
apprendimento e di emancipazione delle maestranze.
In conclusione, vi era una forte correlazione tra la scomposizione
sistematica del processo produttivo ( e quindi nella sostanziale “riproducibilità”
dello stesso, in quanto processo codificato) e la sempre maggiore
meccanizzazione ed automazione del lavoro.
Tale complesso di circostanze determinò la centralità strategica dei mezzi
di produzione, portando ad una situazione nella quale i beni strumentali ed il
capitale “fisico” delle imprese, oltre a diventare perfetti sostituiti del capitale
“umano”, affrancavano le imprese anche dalla necessità di gestire e negoziare la
conflittualità.
Questo tipo di organizzazione, strettamente deterministico, aveva risposto
dunque fino ad allora in maniera funzionale, alle necessità delle imprese, in
quanto esse dovevano misurarsi con un ambiente relativamente stabile, all’interno
del quale era possibile prevedere in anticipo le dinamiche in atto e procedere per
adeguamenti ed aggiustamenti successivi.
La fine del modello di crescita costante dei mercati, dei consumi e dei
volumi produttivi ed il contemporaneo emergere di una offerta differenziata dei
prodotti e con essa la tensione verso la ricerca della qualità, comincia a decretare
la fine di tale modello e l’affermarsi della centralità della risorsa umana quale
variabile fondamentale nel determinare il vantaggio competitivo delle imprese sul
mercato.
1
Il classico esempio della fabbricazione degli spilli di smithiana memoria rappresenta un
riferimento obbligato e di indubbia efficacia al riguardo
11
Sul piano delle idee e delle teorie, la nascita del movimento delle
Relazioni Umane rappresenta un po’ lo spartiacque tra due concezioni, per certi
versi antitetiche, delle organizzazioni produttive.
Comincia con esso a farsi strada una concezione che vede l’uomo non più
determinato dalle organizzazioni, ma in grado di apportare un contributo
fondamentale ad esse in termini di autonomia, crescita e sviluppo.
In maniera solo apparentemente paradossale, i primi pionieristici studi di
Mayo e Roethlisberger
2
coincidono con il periodo di massimo fulgore del
paradigma taylor-fordista.
Tuttavia nei decenni a venire ed in conseguenza di quegli studi e di quelle
riflessioni teoriche, coloro i quali si occupano di gestire il personale nelle
organizzazioni, cominciano ad avvertire la necessità di spostare il baricentro dei
propri interessi dagli angusti limiti delle attività amministrative e di controllo
disciplinare, ad attività più impegnative e coinvolgenti, basate su conoscenze e
sull’approfondimento di tematiche di natura psicologica e sociologica
3
.
La variabile fondamentale per osservare ed analizzare il comportamento
organizzativo dei soggetti diverrà sempre più, a partire da allora, l’atteggiamento
individuale, a sua volta influenzato da variabili di tipo diverso quali, la
motivazione, la qualità delle relazioni sociali nell’ambiente di lavoro con colleghi
e superiori, la storia personale, il clima organizzativo.
L’apporto del movimento delle Relazioni Umane consiste in particolare
nell’aver messo in luce la natura sociale e relazionale del comportamento
organizzativo ed i meccanismi fondamentalmente emotivi ( e non razionali) che lo
governano.
2
I lavori sperimentali alla Western Electric di Chicago, dove venne teorizzato il famoso “effetto
Hawthorn” che mise in luce il peso delle relazioni informali nell’ambiente di lavoro
sull’andamento produttivo di un reparto, risalgono infatti alla fine degli anni Venti.
3
Cfr. Bolognini B. “Comportamento organizzativo e gestione delle risorse umane” ed. Carocci,
Roma 2001
12
L’opera e gli scritti di Chester Barnard contribuiranno poi, negli anni a
venire, a diffondere l’immagine dell’organizzazione come sistema cooperativo ed
alla conseguente necessità di comprendere i moventi che spingono l’individuo ad
adottare comportamenti coerenti con le necessità dell’organizzazione.
Sarà attraverso la comprensione di tali meccanismi (dei quali viene
sottolineata la natura informale) che sarà possibile attuare una efficace azione di
management attraverso l’esercizio della funzione di “coordinamento”.
Verranno poi negli anni ’60 i “guru del management” (Likert, McGregor,
Argirys solo per citarne qualcuno) che svilupperanno ulteriormente le premesse
teoriche delle Relazioni Umane, in particolare con le loro ricerche sugli stili di
leadership.
Nel corso degli anni dunque, ad una immagine dell’organizzazione come
una macchina, dove le persone che ne fanno parte rappresentano ingranaggi, leve
e meccanismi di trasmissione (ne costituisce appunto un simbolo- fortemente
radicato nell’immaginario collettivo- l’operaio alla catena di montaggio), va
sostituendosi una visione dell’Organizzazione come un sistema spontaneo,
adattivo, influenzato dai soggetti che vi prendono parte e dal contesto nel quale
esplicano la propria attività.
Ad una visione del tutto meccanica se ne sostituisce una che è possibile
definire organica o organicista.
Ciò che può determinare il successo di un’impresa diventerà sempre più a
partire da allora, non più la sua capacità di aderire strettamente ad un modello
rigidamente predeterminato mediante comportamenti diligenti e codificati, quanto
la sua capacità di adattarsi rapidamente ed efficacemente ad uno scenario globale
in costante e perenne trasformazione.
A partire dagli anni ’80 si sviluppa in ambito teorico un forte interesse
sulle tematiche del clima organizzativo e della cultura organizzativa
4
, con i
4
Intesa come un sistema di significati e di valori condivisi nell’ambito di una determinata
organizzazione
13
cosiddetti “approcci morbidi”, incentrati su concetti come il “sensemaking”
5
di
Weick o la strutturazione di Giddens
6
.
Si afferma l’idea della cultura come “attrezzo manageriale” e
dell’esercizio dell’azione manageriale come “azione simbolica”.
Con l’avvento del nuovo millennio vanno pertanto assumendo sempre
maggiore importanza le variabili soft (know how, skills, cultura d’azienda,
competenze) rispetto alle variabili hard (mezzi tecnici, strumenti, tecnologia etc).
Si afferma l’idea che siano gli “invisibile assets”
7
, i fattori immateriali,
quelli determinanti per il raggiungimento ed il mantenimento del vantaggio
competitivo.
Essi sono rappresentati dal sapere tecnologico, dalla immagine aziendale,
dalle conoscenze strategiche accumulate sul mercato e sui consumatori, dal potere
di controllo e di influenza esercitati sul sistema distributivo, dalla cultura
d’impresa, dalle abilità manageriali.
In una parola dal patrimonio di conoscenze, abilità, skill, valori, detenuto
da un’impresa e dalla sua capacità di mobilitarlo in maniera efficace.
E’ questo lo scenario lucidamente descritto dalla “resourced based view”
8
,
che descrive il vantaggio competitivo come il prodotto dell’acquisizione e dello
sfruttamento di risorse interne differenziate rispetto a quelle accessibili ai
concorrenti e trasformate, in forza di questa specificità in “competenze distintive”.
Compaiono parallelamente i concetti di long-life learning, learning
organization e knowledge society che incontreremo più avanti, tutti accomunati
dall’idea di organizzazione “knowledge based”, vale a dire fondata sul bagaglio di
conoscenze disponibili e sulla sua capacità di gestirlo ed implementarlo.
5
Il concetto fa riferimento al complesso dei processi cognitivi, mediante i quali ciascun individuo
attribuisce un senso alla realtà circostante.
6
La struttura deve essere concepita, nella teorizzazione di Giddens, come un mezzo che consente
di organizzare ricorsivamente (cioè in maniera ripetuta e stabile) le condotte umane, ma che al
tempo stesso è un risultato di quelle stesse condotte.
7
Cfr Itami “Mobilizing invisibile assets” Ed Harvard University Press, 1987
8
Cfr Costa, Giannecchini “Risorse umane. Persone, relazioni, valore” Ed Mc Graw Hill
14
La centralità del soggetto nelle organizzazioni acquista così un rinnovato
impulso attraverso la conferma del ruolo preminente occupato oggi, dalla cura e
dallo sviluppo del portafoglio delle “competenze” interne, nelle strategie di
gestione delle imprese.
1.2 La genesi del concetto di competenze
Gli studi precursori sulle competenze, prendono il via negli Stati Uniti
nella seconda metà anni 50, quando David McClelland avviò uno studio sui
processi motivazionali che influenzano il comportamento degli individui e ne
determinano le prestazioni in ambito scolastico e lavorativo.
Le discipline che si erano impegnate nella ricerca di segnali predittori
efficaci, in grado di fare ipotesi attendibili sui livelli di performance espressi
nell’esecuzione di un compito o di una mansione da parte dei soggetti, avevano
fatto ricorso fino ad allora prevalentemente ai test psico-attitudinali e psico-
fisiologici.
Erano questi, strumenti con i quali abitualmente venivano misurate
attitudini, facoltà, capacità intellettive e livelli di attivazione-risposta (tempi di
reazione, abilità manuali, abilità percettive etc.) di un soggetto dato.
L’assunto di partenza era che esistesse una correlazione diretta tra il Q.I.,
le attitudini psico-fisiche, il livello di scolarità di un individuo ed il grado di
efficacia della sua prestazione lavorativa.
McClelland osservò al riguardo che questo tipo di approccio, limitandosi a
registrare la presenza di un potenziale in un soggetto, senza verificarne nel
concreto l’effettivo utilizzo nel contesto lavorativo, non potesse rappresentare un
metodo in grado di consentire anticipazioni realmente attendibili sul livello di
prestazione atteso, in quanto quest’ultimo era soggetto a variabili di tipo diverso e
15
di natura strettamente individuale, quali ad esempio la motivazione od i
comportamenti.
Gli strumenti fino a quel punto utilizzati pertanto, non erano in grado di
rilevare alcune componenti fondamentali nella performance efficace, quali
appunto potevano essere, la motivazione od i comportamenti.
Inoltre, soprattutto se si restringeva il campo di indagine alle mansioni
superiori e più qualificate, si incappava nel fenomeno cosiddetto della “banda
ristretta”
9
.
Ai livelli superiori infatti, quasi tutto il personale possiede una ottima
laurea conseguita in una università prestigiosa ed un Q.I. superiore a 120 e quindi
il possesso di tali requisiti di base non rappresenta più una discriminante efficace.
Pertanto né i test, né le interviste ed ancor meno le modalità di screening e
di selezione tipiche dei concorsi manifestavano efficacia nel distinguere i soggetti
più capaci da quelli meno capaci, ma soprattutto nel pronosticare in maniera
attendibile una performance eccellente.
Oltre a dimostrare l’infondatezza di una relazione diretta tra i risultati ai
test ed i comportamenti lavorativi, McClelland esprime le sue riserve su ogni
valutazione che si limiti a considerare la quantità di conoscenze possedute e che
comunque non venga messa direttamente in relazione con il comportamento
soggettivo nelle concrete situazioni di lavoro.
Egli non si limita inoltre ad osservare l’inappropriatezza degli strumenti
fino ad allora utilizzati, ma ne sottolinea al contempo anche la implicita sensibilità
ai pregiudizi e la loro scarsa democraticità; i test penalizzerebbero le minoranze,
le donne, i ceti meno abbienti essendo conformati su modelli culturali e cognitivi
più consoni a quelli posseduti dai soggetti già avvantaggiati da una posizione di
privilegio sociale
10
.
9
Cfr. Roberto Serpieri “Leadership senza gerarchia” contributo di Immacolata Romano
10
Cfr. Spencer & Spencer in “Competenze nel lavoro. Modelli per una performance superiore”
Franco Angeli 1993, Milano
16
E’ lo stesso McClelland che nella prefazione ad un altro dei classici di
riferimento del modello, Competenze at Work (Spencer & Spencer 1993) fa
risalire alla pubblicazione di un suo articolo nel 1973 (dal titolo più che eloquente
“Testing for competence rather than intelligence”) la nascita del “movimento”
delle competenze.
McClelland, in collaborazione con il gruppo Mc Ber/Hay, metterà a punto
la metodologia JCA (Job Competency Assessment) che costituirà un punto di
riferimento assolutamente privilegiato per l’approccio classico alle competenze ed
al quale ad esempio faranno specificamente riferimento Spencer e Spencer nel
loro successivo Competenze at Work del 1993.
Il concetto di competenze, è un concetto che al di là della massiccia
diffusione che ha conosciuto nello specifico ambito delle teorie organizzative e
delle pratiche di gestione delle risorse umane è indiscutibilmente polisemico, ed in
ragione di ciò, sensibilmente esposto al rischio di generare equivoci ed
incomprensioni.
Vedremo in seguito come la ricchezza degli apporti teorici, la varietà delle
declinazioni, nonché i diversi livelli interpretativi ed i modelli applicativi che nel
concreto ne derivano, contribuiscano, oggi più che mai, a rendere vivo e fecondo
questo campo di indagine e di discussione.
Svilupperemo in maniera più organica ed articolata i presupposti teorici
dell’approccio di tipo classico, altrove definito americano o ancora
psicologico/individuale, comunemente riferito a quelli che sono riconosciuti dal
mondo accademico come i padri dell’approccio; i già citati McClelland e Spencer
unitamente a Richard Boyatzis.
Ancora più chiari potranno apparire in seguito i fondamenti teorici del
modello, così come la specificità dell’impalcatura metodologica necessaria per la
sua applicazione e le finalità che esso si propone, se confrontati con gli approcci
che da questa tradizione teorica si discostano in misura significativa.
Oggi sembra addirittura scontato nel mondo del lavoro e delle professioni
ragionare e pianificare in termini di competenze, ma nonostante ciò è utile
17
ricordare, che il concetto di competenza si è definitivamente affermato in ambito
organizzativo in un epoca decisamente non lontana, pressappoco all’inizio degli
anni 90, quando la scena mondiale dell’economia cominciò ad essere dominata da
organizzazioni “ad alta intensità di conoscenza” o knowledge based, nella
terminologia ricorrente tra gli specialisti del settore.
1.2.1 Le diverse definizioni della competenza
Tra le tante voci ed opinioni tutt’altro che univoche e concordi sulla
interpretazione del modello, non se ne registra però nessuna che non segnali in
maniera decisa al giorno d’oggi, la imprescindibilità di un approccio alla gestione
delle risorse umane basato sulle competenze.
Il concetto richiamato sembra rappresentare in ogni caso un “must”
assoluto, un percorso obbligato per tutte le organizzazioni che abbiano la necessità
di confrontarsi con le regole ferree di un mercato sempre più competitivo ed in
perenne mutazione.
E’ indispensabile allora, partire da una descrizione di cosa si intenda per
competenze, cominciando da quelle rinvenibili nell’approccio classico,
comunemente riferito a McClelland, Boyatzis, Spencer & Spencer.
Una definizione comunemente accettata di competenza, che viene in
generale richiamata da tutta la letteratura specialistica è la seguente: “una
caratteristica individuale causalmente correlata ad una performance efficace o
superiore in una mansione o in una situazione, che è misurata sulla base di un
criterio prestabilito”
11
.
Molto vicina a questa definizione è quella proposta da Richard Boyatzis
che descrive la competenza come un “sistema di schemi cognitivi e
11
Cfr. Spencer & Spencer in “Competenze nel lavoro. Modelli per una performance superiore”
Franco Angeli 1993, Milano
18
comportamenti operativi causalmente correlati al successo sul lavoro, a una
prestazione efficace o superiore nella mansione”
12
.
Si tratterebbe pertanto di disposizioni o tratti di natura personale, definibili
come competenza nella misura in cui, il loro possesso, sia in grado di pronosticare
una prestazione lavorativa significativamente superiore alla media.
In entrambe le definizioni ricorre il riferimento alla causalità, che
specifica l’importanza fondamentale assunta dal fatto che il possesso di una serie
di caratteristiche individuali, deve spiegare l’eccellenza dei risultati.
Un altro assunto di base è che le competenze, vanno rintracciate nei best
performer, vale a dire quelle risorse che all’interno dell’organizzazione, si
distinguono per l’efficacia della loro prestazione lavorativa e che presentano
differenze significative se rapportate a soggetti che rientrano nella media.
Le competenze vengono inoltre rappresentate come caratteristiche
intrinseche dell’individuo, il che equivale, nella definizione di Guion, a prendere
in considerazione componenti stabili della personalità di un individuo, che siano
in grado di manifestare la loro presenza e la loro efficacia in situazioni e contesti
anche diversi fra loro e che perdurino per un periodo di tempo ragionevolmente
lungo.
In quanto solo ad azione compiuta possiamo inferire il possesso di
competenze, per cui la competenza può rivelarsi tale soltanto se agita.
Per quanto scontato appaia, è senz’altro utile precisare che un presupposto
fondamentale della competenza resta la motivazione, come vedremo in seguito
con Spencer e come specifica Krompee nella sua definizione “le persone agiscono
in maniera competente in una situazione data soltanto se sanno come agire e se
sono interessate alle conseguenze delle loro azioni”.
La competenza viene concepita come un insieme articolato di elementi da
Levati e Saraò : capacità, conoscenze, esperienze finalizzate
13
.
12
Cfr. R. Boyatzis “The competent manager. A model for effective performance” 1982
13
Cfr. Levati, Saraò “Il modello delle competenze” ed. Franco Angeli, Milano 1998