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INTRODUZIONE
La legge fallimentare del 1942 prevedeva due procedure
diverse dal fallimento: l’amministrazione controllata ed il
concordato preventivo. La prima era destinata alle imprese
che si trovavano in una situazione di temporanea difficoltà ad
adempiere ai propri debiti e per le quali sussistevano
possibilità di risanamento. Il concordato, invece, era lo
strumento a disposizione dell’imprenditore insolvente per
evitare il fallimento, salvo che questi possedesse i necessari
requisiti soggettivi e fosse considerato meritevole di accedere a
tale procedura.
Con il passare del tempo si è percepita però l’esigenza di
apportare un’incisiva riforma al sistema normativo
concorsuale non soltanto in relazione alle nuove prospettive
imprenditoriali che si sono delineate in un mercato produttivo
globale, ma anche avendo riguardo alla necessità di assimilare
le nostre regole a quelle degli altri Paesi della Comunità
europea.
Le ragioni di una riforma della legge fallimentare sono,
quindi, diverse: l’evoluzione della Comunità europea, la
necessità di un allineamento del nostro ordinamento alle
legislazioni degli altri Paesi, l’eccesiva durata dei nostri
procedimenti, l’opportunità che il rimedio della crisi
imprenditoriale operasse speditamente.
Si è posta, inoltre, una nuova concezione del fallimento,
non più considerato come una sanzione per l’imprenditore
fraudolento o colpevole del dissesto, ma come un rimedio per
determinare la liquidazione dell’impresa nel modo meno
traumatico alla quale era opportuno affiancare altre soluzioni
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della crisi. Soprattutto era sorta l’esigenza di un recupero dei
valori aziendali.
Occorreva, quindi, prima di tutto diffondere una nuova
cultura d’impresa e con essa anche la fiducia dell’imprenditore
nelle soluzioni preventive della crisi. In tale ottica il rimedio
concorsuale avrebbe dovuto essere estremamente operativo ed
efficace, rimettendo allo stesso imprenditore ed ai creditori la
ricerca di soluzioni appropriate; se necessario, la gestione
della procedura andava affidata a persone esperte, lasciando
al giudice il controllo della legittimità degli atti assunti e la
decisione sulle pretese violazioni dei diritti delle parti.
I tentativi di realizzare questo programma legislativo
sono stati innumerevoli, ma altrettanto inidonee sono risultate
le formule impiegate e con esse il risultato perseguito.
Ad un decreto legge (n.35/2005) che ha modificato
parzialmente l’istituto della revocatoria fallimentare e quello
del concordato preventivo regolati dal R.D. 16 marzo 1942 n.
267 (la c.d. “legge fallimentare”) ha fatto seguito una legge di
conversione che sostanzialmente ha lasciato immutato il
contenuto del provvedimento urgente, ma ha inserito alcuni
principi di legge delega che avrebbero dovuto completare il
programma di riforma. In verità così non è stato, ma,
addirittura, è rimasta vigente una parte della precedente
disciplina che mal si conciliava con le innovazioni, creando
vuoti legislativi inopportuni ed imponendo una ricostruzione
interpretativa difficoltosa ed incerta.
La disciplina del fallimento e delle altre procedure
concorsuali è rimasta, quindi, per circa sessanta anni in gran
parte invariata fino all’inizio del 2005. La riforma attuata a
partire da tale anno è stata realizzata attraverso due tipi di
intervento: il primo, finalizzato ad una disciplina degli accordi
con i creditori, che ora possono essere tanto in forma
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giudiziale (concordato preventivo), quanto in forma giudiziale
attenutata (gli accordi di ristrutturazione); il secondo tipo di
intervento ha riguardato la revocatoria fallimentare, con una
riduzione degli atti revocabili.
Dopo la riforma del 2005, in un primo momento
l’interprete ha dovuto fare i conti con le difficoltà di
coordinamento dovuta al fatto che le nuove norme sono state
innestate nella vecchia legge fallimentare e, con l’entrata in
vigore della riforma della legge fallimentare, l’interprete è
costretto a coordinare il vecchio ordinamento con le nuove
regole sul fallimento. Tutto questo aveva creato un grande
disagio, in virtù del quale prima si è avuta una riscrittura
delle norme sul concordato preventivo avvalendosi della
decretazione d’urgenza, e poi è stata riformata, con un decreto
legislativo, l’intera legge fallimentare, con l’eccezione
dell’istituto del concordato preventivo, ancora una volta senza
effettuare alcuna “sutura” tra il vecchio e il nuovo
ordinamento fallimentare.
Sulla scia di tale difficoltà normativa, sono intervenuti il
D.lgs. 5/2006 e il decreto correttivo del 2007.
Il filo conduttore comune a tutte le modifiche normative
consiste in una evidente privatizzazione dell’insolvenza, con
una riduzione del ruolo e del potere di intervento del giudice e
con l’introduzione di una nuova figura di esperto che deve
intervenire obbligatoriamente al fine di attestare la veridicità
dei dati contabili esposti dal debitore e, più in generale, la
sostenibilità del piano di ristrutturazione.
Lo scopo della riforma è quello di spostare il punto
centrale della procedura dal giudizio finale del magistrato agli
accordi raggiunti dal debitore con le varie categorie di
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creditori, e, quindi, nel segnare la nuova procedura con
un’impronta decisamente privatistica.
Con la legge 80/2005 ed il successivo d.lgs. 5/2006 (e
infine il decreto correttivo 2007) il quadro è radicalmente
cambiato: l’istituto dell’amministrazione controllata è stato
abrogato, mentre è stato ridisegnata la struttura del
concordato preventivo.
Nel concordato preventivo sono stati eliminati il
presupposto oggettivo dell’insolvenza, sostituito con “lo stato
di crisi”, e i requisiti soggettivi di ammissione alla procedura,
ovvero l’iscrizione nel registro delle imprese per un periodo
minimo di tempo, il non essere stato dichiarato fallito o
ammesso a concordato preventivo nei cinque anni precedenti,
nonché l’assenza di condanne per bancarotta o per delitti
contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica,
l’industria o il commercio.
È scomparsa allo stesso modo la previsione in base alla
quale il debitore doveva garantire che i creditori chirografari
fossero soddisfatti in misura almeno pari al quaranta per
cento dell’ammontare delle loro pretese.
Risulta, infine, fortemente valorizzato il ruolo dei
creditori, a cominciare dalla notevole autonomia delle
pattuizioni concordatarie, mentre le funzioni del tribunale
sono state sensibilmente ridimensionate lungo tutto l’arco
della procedura, dalla fase di ammissione a quella
dell’omologazione.
In passato, il concordato preventivo rappresentava il
modo per l’imprenditore “onesto ma sfortunato” di evitare il
fallimento. Il vecchio art. 181 l.f., infatti, richiedeva che, ai fini
dell’omologazione del concordato, il tribunale valutasse,
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unitamente alla sussistenza di una serie di elementi, la
“meritevolezza” del debitore in relazione alle cause che
avevano provocato il dissesto ed alla condotta di questi. La
giurisprudenza, però, in realtà, si era progressivamente
orientata nel senso di affermare che la conservazione
dell’impresa, lungi dall’essere la prioritaria finalità perseguita
dalla legge, andava sempre considerata in funzione della
convenienza per il ceto creditorio, essendo la finalità del
concordato prettamente liquidatoria.
Nel nuovo sistema, il concordato preventivo si incentra
sull’accordo fra l’imprenditore in crisi e la maggioranza dei
suoi creditori. Tale schema depone a favore della natura
prevalentemente contrattualistica del concordato.
Tuttavia, non si può equiparare il nuovo concordato ad
un contratto dato l’effetto esdebitativo dell’omologazione nei
confronti della generalità dei creditori (art. 184 l.f.), che
costituisce una deroga ad un principio cardine in materia
negoziale quale la relatività del contratto.
Deve inoltre escludersi che il ruolo del tribunale sia
divenuto di tipo meramente “notarile”, in quanto l’autorità
giudiziaria conserva pur sempre poteri di intervento tutt’altro
che trascurabili, non solo nella fase iniziale, ma durante
l’intero corso della procedura, come dimostra il disposto
dell’art. 173 l.f., lasciato inalterato dalle leggi del 2005 e del
2006 e solo parzialmente modificato dal recente d.lgs del
settembre 2007 c.d. “decreto correttivo”.
Lungo la direttrice della privatizzazione della gestione
della crisi d’impresa si colloca l’introduzione, da parte del
legislatore, di un istituto nuovo per il nostro ordinamento: gli
accordi di ristrutturazione dei debiti, i quali presentano una
natura ibrida, giacché, per un verso, sono affidati alla
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contrattazione stragiudiziale delle parti, per l’altro,
necessitano sempre dell’imprimatur del tribunale ai fini
dell’esenzione da revocatoria degli atti posti in essere in
esecuzione dell’accordo omologato.
Mentre il concordato preventivo è stato modificato
principalmente con la legge n. 80 del 2005, l’impianto
originario degli accordi di ristrutturazione è stato stravolto dal
decreto correttivo del 2007 (d.lgs. n. 169/2007). Il legislatore
delegato del 2007 ha inteso rimaneggiare l’istituto in piena e
consapevole adesione alla tesi autonomistica.
Nonostante le modifiche apportate, costituisce un
enorme limite della riforma fallimentare il non aver previsto
delle norme in materia penale al fine di armonizzare i nuovi
istituti come modificati dalla novella normativa con la
disciplina sanzionatoria vigente.
Tale mancanza dipende dal fatto che sotto la legislatura
passata fu proposto un disegno di legge che, insieme ad una
apprezzabile riscrittura delle norme, volta a meglio
circoscrivere l’ambito delle condotte punibili in relazione alla
reale offensività delle stesse, prevedeva una drastica riduzione
delle elevatissime pene previste nel nostro ordinamento per i
reati di bancarotta, con una clamorosa violazione dei principi
di proporzionalità e ragionevolezza, laddove si attribuiva una
pena più grave ai fatti di bancarotta compiuti
dall’imprenditore, mentre si riservava una pena più blanda
alle condotte poste in essere dai preposti ad una società
commerciale.
Di fronte alle proteste il legislatore ha lasciato cadere il
progetto di riforma, anche se sarebbero bastati pochi ritocchi
per rendere il disegno di legge equilibrato sotto il profilo
sanzionatorio.
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Per poi esaminare i riflessi penali della nuova disciplina
del concordato preventivo e delle composizioni extragiudiziali
della crisi di impresa è necessario tener sempre presente tre
aspetti già menzionati sopra:
a) la libertà di contenuto che caratterizza i nuovi istituti
del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione
corrisponde ad una privatizzazione della procedura
concorsuale minore, sospinta in una dimensione
contrattualistica, in contrasto con le tradizionali concezioni
pubblicistiche e processualistiche;
b) i nuovi istituti si collocano in una logica volta a
sostituire alla prospettiva fondamentalmente liquidatoria della
legislazione del 1942, una diversa strategia conservativa;
c) la produzione legislativa di riforma del diritto
fallimentare si è manifestata in modo disordinato. Questo è
dovuto dal succedersi dei diversi testi legislativi, ma anche
dalla scelta degli strumenti di legiferazione. In tal modo si
sono creati i presupposti per la nascita di continui problemi
interpretativi di difficile soluzione. Difficoltà che accresce a
proposito del coordinamento tra la disciplina civilistica e le
norme penali fallimentari che si sono invece volute mantenere
invariate, nonostante i molteplici tentativi di riforma degli
ultimi anni.
Con la modifica della legge fallimentare si è rilevata,
quindi, la sostanziale inadeguatezza delle disposizioni penali
dell’attuale normativa fallimentare, che non risulta più
coordinata con le novità della disciplina sostanziale. Questo
rende, da un lato, necessario un intervento di coordinamento
e, dall’altro, pone il problema di evitare possibili interferenza
con la vecchia normativa penale fallimentare in tema di
bancarotta, specie di tipo preferenziale.