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INTRODUZIONE
L’idea di questo lavoro nasce da un’esperienza di volontariato che da tre anni sto
portando avanti con la Polisportiva Handicap Biellese come assistente sportiva.
Pratico tennis da diversi anni e affiancare una maestra nell’allenamento di persone
con disabilità intellettiva mi ha permesso di dare un senso al percorso sportivo
intrapreso e di apprendere maggiori nozioni rispetto a questo sport. Gli studi
universitari mi hanno inoltre fornito lenti nuove attraverso cui osservare l’esperienza,
incrementando il desiderio di andare oltre al semplice allenamento sportivo. In questi
anni è così accresciuta in me l’esigenza di approfondire ulteriormente queste
tematiche e di soffermarmi sui benefici fisici, umani e relazionali che questo tipo di
attività concorre a determinare negli atleti, sul senso che può avere per loro, sui limiti
che possono incontrare e sui successi che riescono ad ottenere. Partendo da queste
riflessioni maturate, ho pensato che l’elaborato finale potesse essere un’occasione per
cercare risposte ai miei dubbi e per dare una valenza scientifica al percorso
intrapreso.
L’obiettivo che ha accompagnato il mio lavoro è stato capire il ruolo dello sport nella
disabilità, in particolare indagando i suoi benefici e limiti e soffermandosi sulle
influenze che questo può avere nella costruzione dell’identità di una persona disabile.
L’elaborato è composto da alcuni capitoli introduttivi con un taglio prettamente
teorico su disabilità, identità e sport; argomenti centrali da cui ho preso spunto per
strutturare la ricerca presentata poi nei capitoli successivi.
In particolare nel primo capitolo viene descritto il percorso storico del concetto di
disabilità: dalle prime visioni di inizio secolo fino ad arrivare al modello
biopsicosociale piø in accordo con l’attuale “Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute”. In questo modello i concetti di salute
e malattia sono visti in una relazione circolare e l’individuo è riconosciuto come il
risultato tra la sua condizione di salute, i fattori personali e le circostanze ambientali
in cui vive. Pertanto ci si è soffermati su alcuni degli aspetti che coinvolgono
totalmente l’esistenza di una persona: la qualità della vita, il benessere e le relazioni
interpersonali che instauriamo. Infine, ho scelto di presentare alcune espressioni che
può avere la disabilità, descrivendo in particolare quelle degli atleti che hanno preso
parte alla ricerca.
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Il secondo capitolo si concentra sull’identità e sul concetto di sØ, presentando un
parallelismo sul loro sviluppo in soggetti normodotati e in persone disabili.
Prendendo in esame il concetto di SØ di Sherrill (1993b) possiamo ipotizzare che
esso sia l’insieme delle percezioni e delle valutazioni che ogni individuo si crea
rispetto al SØ, includendo anche credenze, sentimenti e intenzioni. Esso è
multidimensionale e racchiude caratteristiche, competenze, attributi e ruoli. Sono
stati individuati quattro costrutti, significativi anche nell’attività sportiva, che lo
definiscono: la competenza percepita, l’accettazione sociale, l’immagine del corpo e
l’autostima.
Nei capitoli centrali viene affrontato il tema dello sport presentando: in un capitolo
una panoramica della situazione italiana e nell’altro le implicazioni, i benefici e i
limiti intriseci all’attività sportiva. Il terzo capitolo pertanto si sofferma inizialmente
sul percorso storico che ha portato alla nascita dei primi enti sportivi per disabili fino
ad arrivare ai giorni nostri e alla descrizione delle federazioni esistenti a livello
italiano. Sono stati analizzati alcuni tra gli sport praticati, dando particolare rilevanza
alla specificità della singola attività. Infine, si conclude il capitolo con un breve focus
che presenta la società sportiva in cui è stata svolta la ricerca. Il quarto capitolo,
invece, si concentra principalmente sugli effetti della pratica sportiva,
evidenziandone i benefici ma anche i limiti. In particolare, sono stati presentati i
risultati di alcune ricerche sullo sport e sui costrutti multidimensionali dell’identità.
Non poteva mancare, infine, una parte sulla massima espressione dello sport:
l’agonismo. Ho concluso il capitolo riflettendo sul ruolo che può assumere lo sport
per il genitore, i benefici che può trarne come persona e le influenze che può avere la
sua presenza sulle prestazioni dell’atleta.
Gli ultimi due capitoli riguardano la ricerca svolta presso la Polisportiva Handicap
Biellese. Nel quinto capitolo è presentato il lavoro vero e proprio, il gruppo
utilizzato, gli strumenti e le tracce delle interviste, i risultati e le conclusioni a cui si è
giunti. Mentre il sesto capitolo è un capitolo conclusivo in cui sono descritte le
riflessioni maturate nel corso dello studio, le idee e le prospettive future che in
successivo lavoro sarebbe interessante approfondire. Alcune sono piø specifiche per
la realtà biellese, altre si riferiscono a delle ipotetiche linee guida che si potrebbero
delineare per aiutare ad orientarsi nella scelta di una disciplina, altre ancora
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riguardano argomenti sportivi che sarebbe interessante studiare ulteriormente, come
le dinamiche di squadra e l’aspetto della competizione.
In conclusione sono state inserite due appendici in cui si può trovare una breve
spiegazione della notazione utilizzata per la trascrizione e le interviste trascritte.
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CAPITOLO 1: LA DISABILIT`
1 EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI DISABILIT`
Il tema della disabilità per essere introdotto necessita di una riflessione sui termini
utilizzati e sull’evoluzione storica che essi hanno subito nel corso degli anni.
Nell’arco del Novecento, la politica sociale connessa con la disabilità è stata
dominata da due visioni: quella di disabilità intesa come “atto sfortunato” e quella
che la vede in un’ottica prettamente medica. Nella prima essa è la conseguenza di un
danno di cui nessuno ha colpa, è influenzata dall’interazione di numerose condizioni
anche derivanti dall’ambiente sociale. Questa visione comporta una maggiore
responsabilità collettiva della società nei confronti delle persone con disabilità, infatti
le politiche sociali attivate sono di tipo caritativo-assistenziale. L’altra visione,
prettamente medica, riconduce la disabilità a un danno alla salute della persona. In
questo caso nelle politiche sociali assumono un ruolo cruciale l’ambiente medico-
sanitario e i centri riabilitativi e specializzati.
Mossa dalla consapevolezza della necessità di un linguaggio comune, appropriato e
scientifico tra i professionisti dell’handicap, nel 1980 l’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) decise di pubblicare “International Classification of Impairment,
Disabilities and Handicaps (ICIDH)”; un manuale per la classificazione e la
trattazione dei disturbi di tipo organico e psichico connessi con la disabilità.
Nel testo è presente una distinzione tra il concetto di menomazione, handicap e
disabilità (vedi Fig. n1).
L’impairment o menomazione è l’esteriorizzazione della malattia ed è collegata a un
deficit o all’insufficienza di un organo (Brustia e Ramella, 2002). Vengono distinte
in varie aree in base all’organo che colpiscono, possono essere quindi di tipo
motorio, uditivo, organico o visivo. Alcune menomazioni inoltre sono presenti fin
dalla nascita e hanno origine congenita, come quelle dovute a difficoltà durante il
parto o connesse con il concepimento. Altre invece sono legate a un episodio
traumatico avvenuto nel corso dell’esistenza e si definiscono acquisite.
Nell’ICIDH con il termine disabilità viene indicata la restrizione, la carenza che la
persona esperisce nello svolgimento di un’attività, è la perdita dell’abilità
nell’esecuzione di un compito considerato normale per un essere umano. Essa viene
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vista come la conseguenza della menomazione, infatti la persona si percepisce come
funzionalmente non-abile nello svolgere un determinato comportamento. Diverse
sono le disabilità che un soggetto può avere e vengono distinte dall’OMS in base alle
carenze causate dalla menomazione. Abbiamo disabilità nel comportamento,
connesse alla capacità di provvedere a se stessi nella vita di ogni giorno e alla
consapevolezza dell’esistenza di sØ e dell’altro. Difficoltà in specifici ambiti come
quello espressivo-comunicativo, quello legato alla cura della propria persona in
termini igienici e fisiologici, e quello connesso con la capacità di procurarsi i mezzi
di sostentamento necessari alla sussistenza. Abbiamo disabilità motorie intese come
difficoltà di spostamento e movimento o come destrezza nello svolgimento di attività
manuali sia quotidiane sia piø complesse. Infine, sono presentate disabilità riferite a
specifiche situazioni o a particolari limitazioni in specifiche attività.
La disabilità viene anche valutata in base alla gravità: ci sono persone con un livello
di inabilità completa, individui che dipendo in modo importante da altri e soggetti
che necessitano solo di supporti temporanei.
Le disabilità variano in base al contesto in cui la persona si trova e in base alle
richieste: le menomazioni restano presenti ma le disabilità compaiono solo quando si
richiedono specifiche prestazioni (Soresi, 2007). Accanto alle disabilità abbiamo
quindi lo sviluppo di abilità, che in situazioni di riconoscimento vengono espresse.
Infine, l’OMS definisce l’handicap come la socializzazione di una menomazione o di
una disabilità. ¨ un fenomeno sociale e rappresenta le conseguenze sociali e
ambientali delle menomazioni e delle disabilità. ¨ caratterizzato dalla dissonanza tra
le condizioni dell’individuo e le attese di quel particolare gruppo sociale di cui è
parte (Meo, 2000).
La distinzione tra i diversi handicap avviene in base alle funzioni vitali connesse con
la sopravvivenza, una persona con disabilità può avere quindi handicap
nell’orientamento, nell’indipendenza fisica, nella mobilità, nell’occupazione,
nell’integrazione sociale e nell’autosufficienza economica.
Citando Brustia e Ramella “una malattia può causare una menomazione, che si
riflette sul piano delle attività e dei comportamenti, procurando una disabilità; il
risvolto sociale della menomazione e della disabilità procura la situazione di
svantaggio che costituisce e definisce l’handicap” (Brustia e Ramella, 2002, p.32).
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Figura 1. Modello secondo l’ICIDH
Come detto in precedenza un handicap e una disabilità non sono sempre presenti e
costanti nella vita della persona, in quanto variabili che mutano in base al contesto e
alle attività svolte. Ogni individuo per i compiti che svolge fa una valutazione della
discrepanza presente tra l’efficienza e l’aspettativa di efficienza; questo tipo di
giudizio influenzerà il senso di autostima, la percezione che avrà rispetto alla
capacità di gestire l’evento e le strategie di coping che adotterà (Lazarus e Folkman,
1984). Nel caso in cui una persona con disabilità debba svolgere un comportamento
non influenzato dalla menomazione, la discrepanza tra l’efficienza e l’aspettativa di
efficienza sarà minima e anche la percezione di competenza circa la situazione sarà
nella norma. Invece, se deve svolgere un compito in cui si percepisce come non
abile, perchØ influenzato dalla menomazione, allora anche la discrepanza presente tra
efficienza e aspettative di efficienza sarà maggiore, il senso di autostima non crescerà
e la percezione di esser in grado di gestire l’evento sarà abbastanza bassa.
Nel corso degli anni matura una visione diversa di disabilità. Essa è una condizione
umana che ha dei risvolti a livello sociale per la singola persona, come vissuti di
discriminazione o difficoltà connesse con il non riconoscimento di un ruolo nella
società. Nel 1997 l’OMS pubblica una revisione all’ICIDH, l’ICIDH-2 e
successivamente nel 1999 presenta la “Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF)”. Esso ha come obiettivo quello
di fornire un linguaggio comune per descrivere la salute e gli ambiti a essa connessi.
L’ICF è stato portatore di un nuovo paradigma teorico poichØ, invece di incentrarsi
sul concetto di malattia e di mancanza, si focalizza sulle risorse, riportando la
descrizione dell’individuo a quella sia di singolo sia di essere sociale, con un certo
funzionamento anatomico e con la capacità di svolgere certe attività a diversi livelli
di partecipazione. Queste dimensioni che propone consentono un allontanamento dal
concetto di disabilità e di handicap, permettendo una visione della persona piø
connessa con la situazione specifica. Viene abbandonata inoltre la visione lineare tra
malattia, menomazione, disabilità e handicap, e vengono introdotte delle variabili
Malattia
Infortunio
Malformazione
impairment
menomazioni
disability
disabilità
handicaps
svantaggi
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connesse con il contesto e con le relazioni che in esso avvengono. Per spiegare come
le persone funzionano l’ICF si rifà a quattro dimensioni fondamentali:
• la dimensione del corpo che pone attenzione sia alle funzioni corporee,
fisiologiche e psicologiche sia alle strutture anatomiche che compongono il
corpo.
• le attività semplici e complesse che svolgono le persone, i compiti, le
mansioni e le azioni che quotidianamente affrontano.
• la partecipazione che considera i diversi ambiti di vita in cui è coinvolto
l’individuo e si riferisce al livello di coinvolgimento che ha in essi.
• i fattori contestuali, in particolare l’ambiente fisico, sociale, gli atteggiamenti,
i valori e il contesto di appartenenza.
Ponendo attenzione a queste dimensioni capiamo come l’ICF considera l’individuo
in toto e definisce la disabilità come un fenomeno multidimensionale, il risultato di
una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali
e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo (ICF,
2002).
L’approccio piø recente usato per spiegare la disabilità e il suo funzionamento a cui
si rifà anche l’ICF è quello biopsicosociale; esso integra le prospettive dei modelli
precedenti pensando alla salute in tutte le sue dimensioni: biologica, individuale e
sociale. Sia per la diagnosi medica sia per il trattamento esso rivolge un’attenzione
particolare a tutti quegli aspetti che possono far variare lo stato di salute di un
individuo (Engel, 1977). Il modello, proposto da Engel, si basa sulla teoria generale
dei sistemi e ipotizza alla base delle alterazioni della salute l’interazione dinamica di
fattori multipli (Bertini, 1988). Esso tiene conto sia “della specificità dei livelli di
analisi con cui si affronta la complessità dell’organismo, sia l’interdipendenza o
l’integrazione tra i livelli stessi” (Zani, Cicognani, 2000, p.19). Si focalizza sulla
salute globale della persona inserita nel suo ambiente.
Con l’evoluzione di questo approccio si è sviluppata, citando Sedran “la
consapevolezza a considerare la persona con disabilità un cittadino come tutti gli altri
e la condizione di svantaggio non è un fatto oggettivo che appartiene alle persone
disabili, ma è una relazione sociale, un rapporto tra le limitazioni funzionali e sociale
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che le persone possono vivere e le risposte di inclusione che la società offre ai loro
bisogni speciali” (Sedran, 2004, p.13).
Ciò ci fa riflette sul riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità,
riconoscimento che avviene attraverso l’essere visti nella propria originalità e
irripetibilità, il veder riconosciuti tutti i diritti come quelli di ascolto e di una
dimensione del privato. Questa concezione sposta la nostra attenzione al concetto di
benessere e qualità della vita anche per una persona disabile permettendo di
riconoscere loro i diritti, le abilità espresse e quelle non ancora valorizzate.
2 BENESSERE E QUALITÀ DELLA VITA
La personalità di ogni individuo è composta da una serie di bisogni propri e specifici
di quella singola persona che influenzano le sue modalità di esistenza, i suoi modi di
interazione e il suo livello di adattamento all’ambiente esterno. La non soddisfazione
di questi bisogni può quindi originare vissuti di frustrazione nell’individuo, al
contrario l’appagamento di questi porta a uno stato di benessere. Il concetto di
benessere si riferisce dunque sia alla salute fisica, intesa come “essere in buona
salute”, sia a quella psicologica, legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali
per l’esistenza. Parlando di bisogni fondamentali per l’esistenza è doveroso fare
riferimento alla scala gerarchica di Maslow (1954). Quest’ultimo propone una
descrizione delle caratteristiche della motivazione, rifacendosi sia ai bisogni comuni
a tutti gli esseri umani sia a quelli specifici del singolo individuo. Riprendendo
Maslow “la motivazione è caratterizzata da cinque specifici bisogni di base che si
differenziano in funzione dei diversi tipi di oggetti ai quali si legano e sono collocati
in una gerarchia” (Cortese, 2005, p.5). La rappresentazione che propone è di una
piramide gerarchia, in cui alla base abbiamo i bisogni fisiologici, come il cibo, la
necessità di un riparo, il desiderio sessuale e la cura dalle malattie; il soddisfacimento
di questi è condizione necessaria per l’insorgere di bisogni piø elevati, come quello
che troviamo al livello superiore: i bisogni di sicurezza. Essi sono connessi con il
bisogno di garantirsi l’integrità fisica e una stabilità sociale; tra questi abbiamo i
bisogni di protezione, di dipendenza, di stabilità e di appartenenza (Cortese, 2005).
Quest’ultimo è mosso dal bisogno che ogni persona ha di sentirsi membro di una
comunità, trattato e apprezzato come tutti gli altri componenti e di esser riconosciuto
nelle proprie specificità e singolarità. Riconoscere le specificità di una persona
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consiste nell’individuazione sia delle competenze piø visibili e manifeste sia di
quelle potenziali, non ancora pienamente espresse.
Tornando al concetto di benessere possiamo ipotizzarlo come posto lungo un
continuum, dove a un estremo abbiamo uno stato di patologia e malessere e all’altro
la salute e il benessere; ogni persona nell’arco della propria vita oscilla ricercando
una posizione di equilibrio lungo questo continuum.
Se riprendiamo a definizione dell’OMS di salute: “uno stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di
infermità" (OMS, 1948), notiamo come il costrutto di benessere sia strettamente
collegato con quello di qualità della vita (QDV). Numerose sono le teorie e i modelli
che hanno cercato di definire questo concetto e già nel 1988 Parmenter propose di
pensare alla qualità della vita come influenzata da tre aspetti fondamentali: la
percezione individuale del sØ, i comportamenti che la persona attiva in risposta alle
richieste dell’ambiente e le influenze dell’ambiente (Parmenter, 1988). Queste
variabili sono state ipotizzate a seguito di ricerche effettuate sulla qualità della vita in
persone adulte istituzionalizzate.
Piø recentemente, nel 1991 Schalock parlò di qualità della vita come di un costrutto
multidimensionale, connesso sia agli aspetti del macrosistema in cui il soggetto vive,
come la cultura e le tendenze culturali, sia a quelli piø vicini al singolo, come la
scuola, la famiglia, la riabilitazione (vedi Fig. n2).
Figura 2. Modello di qualità della vita (Schalock, 1991)
Presenta inoltre alcuni aspetti fondamentali che influenzano la QDV come le
caratteristiche personali, le condizioni oggettive di vita e la percezione degli altri.
Entrando piø nel dettaglio del modello Schalock, Keith, Hoffman (1990) parlano di:
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• indipendenza: si riferisce con essa alla possibilità sia di esercitare un
controllo sul proprio ambiente dia di fare delle scelte nella propria vita;
• produttività, si esprime attraverso il lavoro, il reddito e l’utilità per sØ, per la
famiglia o per la comunità;
• integrazione comunitaria: si riferisce alla partecipazione ad attività
comunitarie, quali lavorative, sociali e interpersonali con persone non
disabili;
• soddisfazione: è connessa con il compimento di un bisogno o desiderio. Si
riferisce alla vita in generale, allo svago e al divertimento, alle esperienze
personali e alla propria situazione generale di vita.
Prendendo spunto dal modello di Schalock, nelle righe seguenti verranno presentati
alcuni costrutti che influenzano la qualità della vita delle persone e che hanno un
ruolo ancor piø significativo per le persone con disabilità.
2.1 Autonomia- indipendenza
“Autonomia è un qualcosa che va perseguito, raggiunto, conquistato, consolidato e
ancora perseguito e ancora conquistato e consolidato. Tutti noi articoliamo la nostra
vita sul filo di autonomie, talvolta raggiunte, talvolta irrealizzate, talvolta anche
perdute” (Mannucci, 2005, p.8).
Tutti articolano la loro vita sulla conquista dell’autonomia, è un elemento che si
matura nel tempo e fin dalla nascita si lotta per raggiungerla; le persone che partono
con uno svantaggio avranno bisogno di un sostegno per recuperare questo gap.
“L’autonomia parte da elementi basilari che sono la capacità di muoversi
autonomamente, di acquisire le abilità e gli strumenti per la sopravvivenza autonoma,
per poter scegliere cosa voler fare e cosa non voler fare” (Mannucci, 2005, p.9). Le
persone con disabilità incontrano numerosi ostacoli nell’acquisizione di queste
abilità: una parte di queste difficoltà è connessa con il loro deficit, la restante è legata
all’ambiente esterno. In esso, infatti, sono presenti forti ambivalenze tra il desiderio
di lasciarlo andare e la paura che non sia all’altezza. Spesso i genitori e le persone
accanto al bambino attuano un comportamento iperprotettivo e assistenziale nei suoi
confronti, impedendogli involontariamente di sperimentarsi e di scoprire le proprie
potenzialità. Ciò ci permette di capire come il percorso verso la conquista
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dell’indipendenza possa essere alquanto tortuoso. Doveroso è soffermarsi a riflettere
sul concetto di indipendenza, intesa come la possibilità che ogni singola persona ha
di esercitare un controllo sul proprio ambiente, che si esprime attraverso la libertà di
scelta nei propri movimenti. Può inoltre venir definita sentimento di autoefficacia,
indicatore importante della qualità della vita di una persona, da tener presente nella
progettazione degli interventi riabilitativi.
2.2 Abilità sociali
L’essere umano è un animale sociale che vive in un contesto culturale fondato sulle
relazioni interpersonali; le abilità sociali e le capacità relazionali di una persona sono
fondamentali per un buon adattamento del singolo all’interno della società.
Chadsey-Rusch (1992) definisce le abilità sociali come “comportamenti appresi
orientati verso un obiettivo e governati da regole che variano in funzione della
situazione e del contesto, che si basano su elementi cognitivi ed affettivi osservabili e
non osservabili, in grado di elicitare negli altri risposte positive o neutrali e di evitare
risposte negative” (Soresi, 2007, p.181). Esse quindi vengono apprese nell’arco dello
sviluppo e sono influenzate dall’esperienze educative che ognuno fa, dagli
apprendimenti trasmessi da quello specifico ambiente e da ciò che quella particolare
persona è riuscita ad assimilare in quel contesto.
Avere buone abilità sociali implica essere capaci di attivare comportamenti differenti
in relazione ai diversi contesti, ai compiti che si devono svolgere e alle persone con
cui ci si relaziona. Le abilità sociali sono specifici comportamenti, mirati a uno
scopo, che un individuo esegue per svolgere in modo adeguato e competente certi
compiti.
Numerose sono le cause di deficit in questo tipo di abilità: dalla mancata conoscenza
di specifiche situazioni, alla povertà degli stimoli nell’ambiente di sviluppo o in
conseguenza a pochi rinforzi ricevuti nel momento interattivo.
Le persone con disabilità hanno fin dall’infanzia un numero di contatti sociali minore
rispetto ai coetanei normodotati. Nella scuola materna, questo disagio si manifesta
con una certa difficoltà nel creare amicizie con i pari. Con il passaggio alla scuola
elementare incontrano una difficoltà di adattamento alle richieste della scuola e alle
aspettative delle insegnati; nei rapporti con i pari la partecipazione alle dinamiche di
gruppo è minore rispetto al restante della classe. Ciò si ripresenta nell’età
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adolescenziale e adulta, anche perchØ, viste le difficoltà di interazione, la qualità e la
quantità delle esperienze relazionali invece di aumentare con l’età diminuisce.
Le abilità sociali sono quindi importanti per l’integrazione della persona sia in ambiti
lavorativi, sia in ambiti ludico-relazionali e sociali, e una buona integrazione
comunitaria è indicativa di un maggior stato di benessere dell’individuo.
2.3 Autodeterminazione
Già nel 1969 Nirje (1969) sottolinea l’importanza dell’autodeterminazione per
riconoscere la dignità e il rispetto di ogni essere umano. L’autodeterminazione è un
costrutto che si forma nel tempo ed è influenzato dall’ambiente di sviluppo del
bambino. Ricerche a riguardo fanno riflette su come individui che frequentano
ambienti particolarmente restrittivi sperimentino minor autodeterminazione
(Stancliffe e Wehmeyer, Wehemeyer, Kelchner e Richards, 1995). Kishi e colleghi
(1988) ci segnalano come persone adulte con ritardo mentale che hanno minor
possibilità di scelta e di decisione rispetto alla propria quotidianità sviluppano meno
le abilità connesse con l’autodeterminazione. Al contrario, vivere in condizioni meno
restrittive porta a un maggior funzionamento adattivo e a maggiori livelli di
autodeterminazione (Soresi, 2007).
Gli individui autodeterminati sono caratterizzati da una buona conoscenza di sØ
stessi, dalla capacità di valorizzare i propri punti di forza, i propri diritti e le proprie
responsabilità. Sanno pianificare e confrontare i risultati realizzati con quelli attesi,
avere ottenendo, così, un buon livello di produttività, di sentirsi competenti e positivi
anche nell’ambito professionale. Infine sono capaci di comunicare, sia in situazioni
quotidiane sia in momenti conflittuali. Tutte queste caratteristiche influenzano le
possibilità che ha un individuo di soddisfare i propri bisogni, quindi anche la
possibilità che ha di sperimentare vissuti di pienezza e di realizzazione. Pertanto un
buono sviluppo di queste abilità appoggia una qualità della vita soddisfacente.
3 RELAZIONI INTERPERSONALI
3.1 Relazioni familiari
La presenza di una disabilità influenza non solo la singola persona ma anche tutto
l’ambiente circostante. La famiglia è la prima a essere investita da questo
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cambiamento; il modo in cui i genitori vengono a conoscenza della menomazione
influenzerà la relazione futura con il figlio e il ruolo genitoriale che assumeranno.
Una ricerca effettuata da Antonella Meo (2000) in collaborazione con l’associazione
AREA di Torino ci ha permesso di riflettere su come possono essere differenti i
vissuti dei genitori se sanno già durante la gravidanza delle complicazioni del
bambino o se vengono a sapere dopo la nascita del deficit del figlio. In questa ricerca
è stato, inoltre sottolineato il carattere spiazzante e inatteso della nascita di un figlio
disabile (Meo, 2000). Questo evento necessita di un processo di ridefinizione del sØ e
per permette di acquisire consapevolezza sulla disabilità del figlio esso avviene in
numerose tappe che coinvolgono sia aspetti personali sia aspetti relazionali. Vissuto
che fa da sfondo a questo processo è la forte ambivalenza provata dal genitore tra
l’immagine idealizzata del figlio fantasticato e quella del figlio atteso. Spesso i
sentimenti provati sono di autocolpevolizzazione, di errore; il desiderio di amore
verso il figlio si contrappone al timore di essere stigmatizzati dalla società. Questa
conflittualità influenzerà la crescita del bambino; particolarmente nei momenti di
crescita, di separazione e di differenziazione. Il bambino cercherà per buona parte del
suo sviluppo di aderire il piø possibile all’immagine del bambino che vede negli
occhi della madre, rischiando di non sentirsi adeguato e riconosciuto (Baldini, 2006)
Le risposte dei genitori ai bisogni del bimbo di sperimentare e di allontanarsi
solitamente possono essere di tipo opposto: di negazione della disabilità o di
iperprotezione (Brustia e Ramella, 2002). Nel primo caso la tendenza è comportarsi
come se la disabilità non esistesse, rischiando così di esporlo a richieste troppo
elevate o inadeguate, proiettando su di lui un vissuto di inadeguatezza e di inferiorità.
Allo stesso tempo anche il secondo atteggiamento può essere nocivo per il bambino,
poichØ esso impedisce al bambino di vedersi capace e indipendente fin dalle
situazioni di vita quotidiana.
Oltre alle difficoltà incontrate nel momento di comunicazione della diagnosi la
famiglia deve affrontare altre sfide: nei primi anni di vita del bambino c’è la
necessità che sia capace di attuare una ridefinizione dei ruoli e dei compiti dei vari
membri della stessa (Soresi, 2007). Nell’adolescenza il ragazzo può sperimentare
vissuti di frustrazione per le difficoltà che incontra nello sperimentare momenti di
vita comunitaria: spesso, infatti, finita la scuola dell’obbligo, non viene inserito in
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una realtà lavorativa ma rimane a casa, restringendo ulteriormente la propria rete
sociale (Soresi, 2007).
Se si sposta l’attenzione alla vita adulta si nota che i genitori invecchiano e una delle
loro maggiori preoccupazioni diventa il “dopo di noi”, il fornirgli gli strumenti e le
abilità, che gli consentiranno di vivere una vita autonoma, supportata dall’assistenza
di amici e conoscenti per quando non potrà piø contare su di loro (Soresi, 2007).
L’idea di futuro genera sentimenti di angoscia e sofferenza nei genitori perchØ è
associata all’incertezza. Essi creano, infatti, delle relazioni con il figlio fondate
sull’eterno presente e continuano ad avere un’immagine del figlio connessa a quella
del bambino piccolo (Meo, 2000). Ciò però è rischioso poichØ impedisce al genitore
di vedere una crescita e uno sviluppo nel figlio, impedendogli di assumere un ruolo
da adulto.
Nella ridefinizione dei ruoli abbiamo la donna che assume una posizione di
mediatrice tra il figlio e il resto del nucleo familiare (Meo, 2000). Ciò è influenzato
dal fatto che la madre è quella maggiormente coinvolta nell’assistenza e cura del
figlio. Questo ruolo porta in sØ il rischio di annullamento di sØ stessa da parte della
donna, che crea una relazione simbiotica con il figlio, diventano inseparabili e
indispensabili uno all’altra.
Questa relazione così stretta e fusionale fa sentire il padre in una posizione di
esclusione e di impotenza, la risposta che mette in atto a questi vissuti può essere di
allontanamento e distacco. Il padre per fuggire da un coinvolgimento familiare
pesante può concentrarsi principalmente sul lavoro (Meo, 2000).
Altra relazione significativa ad essere toccata dalla disabilità è quella con i fratelli e
le sorelle, nel caso ci siano. Alla base di questo rapporto solitamente ci sono vissuti
di inferiorità e superiorità l’uno nei confronti dell’altro in base anche a chi occupa il
ruolo di fratello maggiore e con la disabilità queste differenze vengono accentuate
(Soresi, 2007). Infatti, durante l’infanzia abbiamo una relazione asimmetrica tra i
fratelli; al maggiore sono assegnati compiti di cura e accudimento verso il minore. Se
il maggiore è il figlio normodotato c’è il rischio che questi compiti di accudimento e
cura vengano incrementati, mentre nel caso in cui il maggiore sia la persona con
disabilità abbiamo il “role crossover”, ovvero il figlio minore normodotato supera di
competenze il maggiore assumendosi il ruolo di caregiver (Soresi, 2007). Spesse