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Giovanni Boccaccio – Frate Cipolla e Guccio Imbratta


Frate Cipolla è uno dei tanti allegri mistificatori che popolano il Decameron come da una tradizione che passa dai fabliaux medievali alla novellistica nostrana, ancor più interessati alla confezione della burla che ai risultati pratici che se ne possono trarre; Boccaccio lo descrive icasticamente, come il suo doppio, quel servo Guccio che di Cipolla è l'alter ego degradato. Cipolla è a suo modo un intellettuale, che sa parlare in rima, solo diminuito dal fatto che le platee che imbonisce sono platee di sciocchi, e in quest'arte di circonvenire folle di umili e sprovveduti è bene già un rappresentante in minore del classismo umanistico.
La storia della novella è nota, dunque veniamo al personaggio di Guccio, prima descritto dal suo padrone con tutte le armi della retorica, poi visto in azione. La descrizione che fa frate Cipolla del suo servo contempla la coniunctio relativa, tipica della sintassi boccacciana. L'essenza del brano è la compresenza di uno stile elevato e ricercatissimo, dominato dall'amplificazione, dalla simmetria e dal lusso fonico, da una intenzione giocosa e motteggiatrice che non smussa ma anzi esalta quella grande retorica. Dietro a Cipolla sta più che mai Boccaccio. Qualcosa del tutto simile avviene al centro della magnifica descrizione di Guccio in azione, al par. 7, che si estende per molte righe solo alla fine delle quali arriva la principale, e che contiene, fra esplicite ed implicite, otto subordinate che a loro volta contengono incisi, ospitando un leggiadro paragone letterario – cortese che per sovrammercato si svolge in un endecasillabo. Dunque, ancor più evidentente di prima, qui la sontuosità sintattica e stilistica è adibita parodisticamente a materia bassa, come sottolinea il paragone tra la vaghezza di Guccio di stare in cucina e quella dell'usignolo di stanziarsi sui verdi rami, e inversamente la similitudine giocosamente macabra che assimila il suo calarsi dove sta la Nuta all'avvoltoio che si getta sulla carogna. Il sublime d'en bas è vivamente sottolineato dalla rappresentazione delle grazie della Nuta, prima con un paragone estremamente plebeo che ne deforma con gioco espressionismo il seno debordante, poi con un accostamento fra il suo viso e la proverbiale bruttezza dei Baronci, quindi con un'aggettivazione pertinente non più alla sua persona ma al suo mestiere, che tuttavia ne accresce la repellenza. Scena di bettola, da poesia comico – realistica amplificata. Ma la forza di questo passo sta anche forse e soprattutto in altro, nella costruzione a spirale discendente per cui le ampie volute delle subordinate si concludono, dopo averla lungamente protratta con una serie di avvitamenti, nella brevissima principale conclusiva che termina in un quinario aperto e chiuso da una parola ossitona doppiamente idiografica.
È uno straordinario esempio di iconismo sintattico. Né il regime della sintassi cambia nei paragrafi successivi, come è superfluo descrivere se non accennando al parimenti intricato periodare del paragrafo 8 e anche del 9, che sta, ancora iconicamente, come figura dei rozzi raggiri verbali del servo. E le belle parole sono messe in aperto contrasto col suo aspetto lercio, descritto con divertita abbondanza.
Lo stile periodido con tutti i suoi annessi, che comunque esprime anzitutto il signoresco dominio dell'artista sulla materia, è in Boccacco ubiquo, e perciò non è esente da manierismo; tuttavia l'interdipendenza allusiva di maestà sintattica e in genere stilistica e materia parodica o bassa e greve è la vera gloria dello scrittore, e celebra in questo brano uno dei suoi massimi trionfi.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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