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Primo Levi – La liberazione di Auschwitz


Levi procede dapprima da cronista, mediante date esatte fino all'ora, precisione geografica e fatti evidentemente appresi dopo il momento cui si riferiscono quelli evocati. Si noterà che qui come sempre egli non parla di nazisti ma di tedeschi: in parte perché così, senza distinzione, venivano allora chiamati gli oppressori dagli oppressi, ma soprattutto per indicare la larga o generale corresponsabilità del popolo tedesco (ma non la diretta colpevolezza individuale) nella Shoah e negli altri enormi delitti perpetrati sotto quel regime. Scelta condivisa da vari altri testimoni o storici della Shoah.
Ma ecco che tutto si concretizza, quasi si cristallizza con l'arrivo, a paragrafo nuovo e in antitesi alla cerimonia della sepoltura dei morti, dei giovani soldati russi, straniti a quella vista, ma che anche sembrano ai prigionieri mirabilmente corporei e reali, icona del ritorno quasi inimmaginato alla vita: alti sui cavalli, sono ripresi con un'inquadratura di tipo cinematografico dal basso che ne accresce l'imponenza, in un silenzio che diversamente accomuna liberatori e liberati. La transizione è preceduta da una serie di determinazioni preparatorie o omologhe (guardinghi, brevi e timide, sguardi legati da uno strano imbarazzo) ed è la vergogna dei liberatori ciò su cui Levi pone l'accento, la stessa di loro superstiti; da cui si sviluppa un'analisi dei sentimenti di questi ultimi al monento della liberazione, e più in generale, delle conseguenze di quella bruttura.
Ma Levi è soprattutto animato dal pathos della precisione e della razionalità, tanto più sentite necessarie da lui proprio in quanto si tratta di descrivere qualcosa che è sommamente irrazionale e di mettere ordine nel caos. Dunque non il solito realtà ma con ammirevolissima formula concreta, il mondo delle cose che esistono; una punteggiatura analitica e fitta, quasi manzoniana, che tende a isolare i complementi o i sintagmi coordinativi risolvendoli in incisi (7, 12, 17, 25 – 26, 67, 81 – 82); l'esplicitazione dei rapporti di causa ed effetto: Perciò; Da vari indizi è lecito dedurre...
Gli strumenti della precisione linguistica leviana sono soprattutto la sinonimia, le coppie e serie verbali, e la correctio. Se alla riga 28 i cavalieri russi sono legati da uno strano imbarazzo, più sotto Levi usa il raro e sottile avvincere, che meglio rende l'attrazione maligna del funebre spettacolo per quegli occhi giovani; altresi usa prima estinguere e poi spegnere. Per quanto riguarda le coppie: l'esattissimo il loro dovere e la loro opera (dei tedeschi); parole brevi e timide; corporei e reali; visi rozzi e puerili; le nostre coscienze e le nostre memorie. Questo procedimento può espandersi, da un lato, nelle serie o accumulazioni per lo più asindetiche, tutte a stacchi, come smarriti, svuotati, atrofizzati, disadattati alla nostra parte; dall'altro negli ossimori, stigma dello stile di Levi e anzitutto omaggio che la ragione scientifica rende alle inestricabili contraddizioni della vita: grottesco e solenne ad un tempo; lasciandomi turbato, diffidente e commosso, con l'aggettivo centrale a gettare un'ombra di relativismo sugli altri due. Infine la correctio vera e propria, o forme della distinctio che si aggirano nel suo ambito: ci pareva e così era; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno.

Levi pesa le parole col bilancino del chimico, animato anche da quella curiosità per il mondo, tanto più significativo quanto più aberrante, del lager che egli stesso ha confessato. Si può citare, oltre a quanto visto, la perfetta aggettivazione di neve corrotta, che sembra trasferire il materiale al morale, o le vivissime utilizzazioni metaforiche del linguaggio scientifico: i prigionieri che s'aggirano per il campo come astri spenti, mentre il nulla pieno di morte ha forse trovato un nucleo di condensazione. Nonostante tutti i distinguo analitici, il finale del brano ha una fortissima cadenza epica.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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