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La fine dell’impero (dinastia Qing)

Ad inizio Ottocento, la bilancia del commercio fra potenze europee e Cina, era in attivo di circa sei volte in favore di quest’ultima: gli europei non sembravano avere nulla che potesse interessare i cinesi e così iniziarono a vendere l’oppio indiano, sperando che ottenesse maggior successo. L’idea si rivelò azzeccata e la vendita di oppio in Cina passò dalle 120 tonnellate del 1800 alle 2400 del 1838. Questo tuttavia favorì la degenerazione morale nell’Impero e produsse gravi problemi monetari a causa del continuo drenaggio di argento speso per l’acquisto dell’oppio. Si giunse così, nel 1838, a vietare l’importazione dell’oppio. Ciò però suscitò la reazione inglese (che sull’oppio aveva fondato il suo commercio in Cina), che intervenne militarmente occupando Canton e altri porti nel 1841. Il trattato ineguale che ne seguì determinò la fine delle restrizioni commerciali e l’apertura di altri quattro porti al commercio internazionale. 
La generale debolezza dell’economia e della macchina statale causate dalla corruzione dilagante e dalle conseguenze del commercio e della guerra dell’oppio, furono alla base della grande rivolta dei Taiping, che dal 1853 al 1864, controllò alcune delle province più centrali del paese, senza che l’esercito imperiale riuscisse a venire a capo della situazione. Di ispirazione vagamente religiosa e magica (come tutte le grandi rivolte cinesi), l’insurrezione aveva la sua base sociale nel popolo minuto rovinato dal commercio internazionale. 
Mentre si svolgeva la grande rivolta Taiping, nel paese erano attivi molti altri focolai d’insur-rezione: se ne contavano più di cento! Tutti legati all’insoddisfazione per l’inflazione e la scarsa efficienza della macchina statale. A peggiorare tutto avvenne nel 1857, una nuova guerra con l’Inghilterra (impropriamente definita seconda guerra dell’oppio), che dopo alcune operazioni militari strappò a Pechino altre concessioni, come quella che apriva le acque interne al commercio. Stimolata dal suo esempio, anche la Russia volle approfittare della debolezza cinese, occupando il bacino settentrionale dell’Amur e gli odierni Territori del Litorale. Intanto -mentre la Francia invadeva il Vietnam- il Giappone si prendeva le isole Ryukyu e, nel 1895, interveniva militarmente in Corea e poi anche contro la stessa Cina, intervenuta per difenderla. La conseguente vittoria giapponese costo ai cinesi Taiwan e l’onore militare. Corollario di tutto questo fu la spartizione del territorio nazionale in sfere d’influenza del colonialismo straniero. Frutto del nazionalismo che seguì a questa umiliazione (oltre che all’ulteriore deterioramento della vita economica), fu la grande rivolta dei boxer, scoppiata nel 1899 e caratterizzata da un forte odio antistraniero, sia contro gli europei che contro i giapponesi. Essa raggiunse subito un alto livello di intensità, avvalendosi anche dell’appog-gio della stessa corte imperiale, che, dopo le iniziali repressioni, scelse di schierare le sue truppe al fianco di quelle dei ribelli contro l’esercito di 16mila uomini che le potenze avevano messo in campo per reprimerla. Il risultato fu però il Protocollo del 1901, che può essere considerato l’atto formale di trasformazione della Cina in una semicolonia. Se l’immenso impero non fu smembrato ciò dipese solo dai contrasti fra le grandi potenze. Con il Protocollo il capitalismo straniero assunse di fatto il controllo del paese, guidandone lo sviluppo verso le sue necessità. Emblematico è il caso della ferrovia dello Yunnan: meglio collegata all’Indocina francese che al resto della Cina; oppure il fatto che mentre le merci cinesi subivano le tasse interne, quelle straniere non subivano ne queste ne i dazi doganali, e quindi risultavano fiscalmente avvantaggiate. Ma più illuminate ancora fu il conflitto che nel 1905 oppose la Russia al Giappone per il controllo della Manciuria. Combattuta in suolo cinese la guerra fu vinta dal Giappone, che così confermò la sua influenza sulla Corea e la Manciuria meridionale. Sintomo dei dissesti economici fu l’emigrazione cinese, che raggiunse a cavallo fra i due secoli livelli molto elevati. 
Di fronte alla grave situazione, comprendendo che la causa di tutto era la profonda arretratezza delle strutture dell’Impero, una parte consistente della classe dirigente, promosse una serie di riforme sul modello giapponese, con l’obiettivo di rafforzare la Cina (utilizzando come mezzo il sapere occidentale) al fine di renderla abbastanza potente da scacciare gli stranieri. Questo movimento (detto yangwu), ebbe le redini di governo dal 1864 al 1895, e riuscì ad ottenere grandi successi (ad esempio ridusse del 30% le imposte fondiarie), ma fu infine travolto dalla sconfitta con i giapponesi e dal generale conservatorismo di alcuni strati della popolazione. Alcuni anni dopo, comunque, il partito riformatore sarebbe riuscito a risalire al potere con Kang Youwei, protagonista dei cosiddetti 100 giorni di riforme, passati i quali l’imperatrice Cixi e altri membri della corte sarebbero riusciti a costringerlo a fuggire all’estero, riportando al governo personalità conservatrici. Furono tuttavia questi stessi conservatori, resisi presto consapevoli della reale situazione, a riprendere l’opera riformista. Si trattò però di un tentativo troppo in extremis per poter produrre un immediato giovamento, e infatti la tensione sociale e i problemi non fecero che aumentare inesorabilmente. 
Ormai stravolto, il vecchio impero crollò sotto una rivolta scoppiata nella zona dal basso Chang He in seguito alla decisione governativa di nazionalizzare le locali ferrovie. Indipendente rispetto all’azione della lega nazionale fondata in Giappone da Sun Yat-sen, la rivolta si estese con rapidità inaspettata a tutte le province dell’Impero, che si proclamarono quasi all’unisono indipendenti da Pechino. Ormai privo di energie il potere centrale affidò la repressione della rivolta all’Armata settentrionale del generale Yuan Shikai, che tuttavia decise di trattare con i ribelli determinando così la soste della dinastia Qing. Così, mentre l’imperatore-bambino Pupy veniva deposto, a Nanchino Yuan Shikai veniva nominato dall’Assemblea rivoluzionaria, primo Presidente della nuova Repubblica cinese. Era 14 febbraio 1912, nasceva la Repubblica e moriva per sempre il Celeste Impero, fondato da Shi Huangdi nel 222 a.C.

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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